Mario Giro: Parigi sotto attacco e il totalitarismo di Daesh
Il dramma di Parigi: dopo il lutto, la solidarietà e la condanna, stare calmi e riflettere. La posta in gioco è enorme: ne va della stabilità del Mediterraneo e della tenuta dell’Europa. La tattica del terrorismo è nota: terrorizzarci per provocare atti dissennati, in genere una guerra pericolosa. Da solo il terrorismo di qualunque tipo non ha mai vinto, a meno che non si sia impadronito delle leve del potere istituzionale. Così funziona anche Daesh: lancia i suoi branchi di lupi ma intanto costruisce uno “stato” tutto nuovo sulle ceneri di Stati precedenti, le cui frontiere sono state disegnati da stranieri. Vuole dar vita ad istituzioni proprie sulle terre dell’antico primo califfato: la Mesopotamia.
Davanti ai tragici fatti del 13 novembre, sorge spontanea la domanda su chi ne sia il vero responsabile. È colpa dell’islam, intrinsecamente violento? Sono i nostri errori europei nel fare integrazione? Oppure nell’accettare troppa immigrazione? È la conseguenza delle ripetute guerre fatte in Medio Oriente? Della questione palestinese mai risolta? Del colonialismo? Sono le ingiustizie e le disparità tra le due sponde del Mediterraneo? I regimi autoritari e chi li sostiene? Le primavere arabe, divenute inverni? La guerra tra sciiti e sunniti? È colpa degli americani perché troppo presenti o troppo… assenti? Dei Fratelli musulmani o dei salafiti? Dello scontro di civiltà? Della fine della storia? Dei giovani e delle loro fragilità…?
Ormai le biblioteche sono piene di tale discussione senza fine, che si ripete con veemenza anche nei dibattiti politici. C’è un universo musulmano d’Europa in cui le organizzazioni terroristiche pescano seguaci. C’è un Medio Oriente in rovina, dove guerre e crisi a ripetizione creano il sostrato ideale per ogni tipo di avventura jihadista. Il fenomeno della radicalizzazione violenta dell’islam diviene così un fantasma inafferrabile. Ci impressionano i temi nichilisti di questi giovani terroristi, la mancanza assoluta del valore della vita – propria e degli altri. Così come ci scandalizza la crudeltà e l’orrore nel dare la morte.
Organizzazioni come Daesh sono collegate nominalmente ad una religione e cultura millenarie, ma in realtà si tratta di nuovi prodotti religiosi creati di sana pianta nel grande supermercato delle identità. Dobbiamo prestare maggiore attenzione alle “periferie urbane e umane”, per dirla come papa Francesco, laddove nascono tali mostruosità. Periferia è la banlieue francese ma anche la Siria ormai annichilita, dove 250.000 morti pesano come un macigno scavando un abisso di odio.
Il terrorismo islamico contemporaneo rappresenta una sfida molto pericolosa, innanzi tutto per le società musulmane. Intere generazioni si votano alla morte e alla cultura di morte. Consapevoli “anti eroi”, i foreign fighters fanno del bricolage religioso-identitario, individuano un nemico su cui sfogare la loro rabbia, vivono la loro discesa agli inferi come riscatto (anche mediatico), tenebrosa avventura, senso settario di appartenenza, antagonismo, delirio insurrezionale.
Qualcosa è avvenuto nell’islam contemporaneo, qualcosa si è rotto. Per comprendere tale degenerazione non dobbiamo cercare lontano: basta riferirsi al totalitarismo. Come tutte le ideologie totalitarie, anche il jihadismo contemporaneo produce il suo modello di uomo e di donna nuovi, inflessibili, totalmente dediti alla causa, incorruttibili e spietati. Nulla di nuovo in questa proposta, una rappresentazione che può colpire anime inquiete e spiriti confusi. Il metodo è quello di ogni dottrina totalitaria: creare l’immagine del nemico e specularmente, quella di “uomo nuovo” che taglia i ponti con il passato e disprezzo la sua stessa vita. Abbiamo già visto all’opera tale sistema in altri regimi e in altre epoche, più o meno recenti, e ne conosciamo il micidiale effetto finale.
Daesh costruisce un totalitarismo di stampo religioso, usa temi e linguaggio teologici, si serve di internet e mezzi ultramoderni ma ripercorre un terreno già battuto, le cui vittime-carnefici sono sempre giovani immaturi a cui è stata annientata ogni coscienza critica e finanche l’umanità.
Manipolare il consenso, suscitando deliri avventuristici e sensi di colpa, mediante mezzi di propaganda accessibili a tutti, sono tattiche note e sempre in agguato. Una visione del mondo manichea dove la lotta è senza risparmio, è l’offerta tipica che ogni regime totalitario fa alle giovani generazioni. Come scrive Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”: “l’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana… bensì alla trasformazione della natura umana”. Seguendo il ragionamento della Arendt capiamo ciò che spinge i giovani foreign fighters a diventare disumani: “il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui (…) tali carnefici sono così pericolosi perché gli è indifferente vivere o morire. Il pericolo delle invenzioni totalitarie è che oggi intere masse di uomini sono di continuo rese superflue”.
È forse questo l’islam tradizionale, incluso quello della conquista araba? Certamente no, perché tale islam volle convertire, anche forzare le conversioni, ma non distruggere l’umanità. Volle vincere non annientare. Qui siamo di fronte a qualcosa di diverso: una dottrina nichilista che chiama “martirio” ciò che invece è molto più simile al “male radicale”, alla disumanizzazione. Responsabilità dell’islam è di aver fatto crescere dentro di sé tale mostro alieno. Responsabilità nostra è di non averlo capito, di essere stati distratti e non aver creduto che le guerre degli altri fossero anche le nostre.
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