Ilaria Maria Sala: La violenza della polizia non ferma i giovani di Hong Kong
Non è stata proprio un’altra giornata di lacrimogeni e un’altra notte di violenze, come si vedono ormai da settimane a Hong Kong. Ma il 1 ottobre, giorno del 70° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, che era stato battezzato dai dimostranti di Hong Kong come “Giornata del lutto”, si è concluso con una spaccatura ancora maggiore tra polizia e popolazione.
Nel corso di uno scontro con le forze dell’ordine un ragazzo di 18 anni ha ricevuto un colpo di pistola in pieno petto e si è salvato – davvero – per miracolo: il proiettile gli ha perforato il polmone sinistro, ma non ha toccato il cuore. Gli scontri sono continuati dunque tutta la notte, con le stazioni della metropolitana vandalizzate. Da quando, all’inizio delle proteste, la Mass transit railway (Mtr), l’azienda della metropolitana di Hong Kong, era stata criticata dalle autorità per aver approntato treni di emergenza per aiutare a sfollare i manifestanti nel corso di manifestazioni imponenti, ogni protesta è stata in seguito accompagnata dalla chiusura delle stazioni.
In poche settimane uno dei sistemi di trasporto pubblico più sicuri ed efficienti del mondo è stata teatro degli attacchi da parte di gang mafiose contro i giovani dimostranti, che sono stati picchiati con spranghe e catene senza che la polizia intervenisse. In alcune occasioni, gli agenti hanno sparato lacrimogeni dentro i locali della metropolitana, rendendoli inagibili per ore. E per impedire ai dimostranti di allontanarsi, la Mtr ha cominciato a bloccare i treni e a lasciare che la polizia facesse perquisizioni, arresti, e anche che picchiasse i giovani negli scompartimenti. Alla stazione Prince Edward, in un quartiere popolare, la polizia ha fatto chiudere la metropolitana e malmenato i dimostranti che erano intrappolati all’interno, rendendo necessario il ricovero di almeno sei di loro. Da allora, fuori da Prince Edward, ci sono degli altarini ricoperti di fiori bianchi, dato che nulla riesce a dissuadere alcuni residenti di Hong Kong, malgrado le voci e le informazioni girino impazzite per la città, dalla loro convinzione che qualcuno sia morto a Prince Edward.
Uno dei riflessi più normali della vita quotidiana di Hong Kong – prendere la Mtr – ora è accompagnato, improvvisamente, da una sensazione di ansia, di rabbia, di impotenza e di allarme. Da fuori molti chiedono insistentemente: cosa succederà?
Per noi che viviamo qui non c’è tempo di porsi la domanda. Siamo già incapaci di metabolizzare quello che è successo finora, e le previsioni sembrano una fantasia impossibile. Così come sembrava impossibile che la polizia potesse davvero arrivare a sparare, al petto, a distanza ravvicinata, a un ragazzino.
D’ora in poi per Hong Kong, una città che accorda enorme importanza agli anniversari, il 1 ottobre sarà il giorno in cui la polizia ha compiuto questo gesto che cambia tutto. Se era necessario rendere ancora più chiaro e plastico l’abisso che separa Pechino da Hong Kong, quel colpo di pistola, sparato da quella polizia di cui il 45 per cento della popolazione dice di non fidarsi per nulla (il 73 per cento vorrebbe venisse sottoposta a un’inchiesta indipendente sul suo operato da quando sono cominciate le manifestazioni), lo sancisce per sempre. La formula “Un paese due sistemi” è ora più che mai “Un paese due culture”.
La rabbia dei dimostranti non ha bisogno di essere raccontata: è vistosa negli attacchi a tutte le aziende che hanno forti legami politici con Pechino – vengono vandalizzati gli Starbucks, il cui franchising è stato affidato ad Annie Wu, una fedelissima di Pechino. Vengono vandalizzati gli sportelli bancomat della Bank of China. E i vetri dei palazzi del governo e della Mtr. Ma la rabbia della polizia è spaventosa. Non solo chiamano passanti, manifestanti e giornalisti “scarafaggi” quando se li trovano davanti, ma spruzzano lo spray al peperoncino come se stessero cercando di liberarsi di zanzare moleste, non di persone che cercano di parlare con loro. Dopo il movimento degli ombrelli del 2014, nel corso del quale la polizia di Hong Kong aveva già fatto utilizzo eccessivo di forza, in una conferenza stampa un commissario di polizia aveva detto: “Siamo perseguitati come gli ebrei in Germania nella seconda guerra mondiale”. Lasciando tutti di stucco per l’ignoranza, il vittimismo e l’atrocità del paragone. Ma questo senso di essere vittime, isolati, incompresi, soli con il peso di rimettere ordine in una città in rivolta, continua a essere il principale sentimento delle forze di polizia. E questo spiega, in parte, il perché della violenza così sproporzionata, e così controproducente.
Dopo una nuova notte di lacrimogeni, di incendi per la strada, dopo una giornata in cui le celebrazioni per l’anniversario sono state fatte al chiuso mentre fuori venivano bruciate le bandiere cinesi, quasi nessuno ha dormito. Il mercoledì mattina Hong Kong si è svegliata chiedendosi se quel colpo di pistola avesse segnato la fine delle manifestazioni – più di cento arresti, decine di persone ricoverate, un senso di sfinimento schiacciante. Invece, nella pausa di mezzogiorno, ecco che una folla con la mano sul petto (nel punto in cui è stato colpito lo studente) ha sfilato per il centro. Studenti con la maschera, ma anche migliaia di impiegati con la cravatta o le scarpe accollate da ufficio, con una rabbia a fior di pelle, gridando sempre gli stessi slogan. Cinque richieste, non una di meno: la richiesta più importante è quella di avere il suffragio universale.
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