Gilles Kepel: Le stragi organizzate in Belgio perchè assomiglia a uno stato fallito
Diffondiamo da Il corriere della sera del 22 marzo 2016 questa intervista allo storico orientalista francese Gilles Kepel (nella foto in alto)
«Non è affatto strano che Isis, o Daesh come lo chiamano in arabo, colpisca in Belgio. I terroristi si muovono particolarmente bene dove le strutture statali sono deboli. Lo abbiamo visto in Iraq e Siria: Isis prospera nei cosiddetti Stati falliti. E quello belga è uno di questi. La questione linguistica lacera la società belga. Lo scontro tra fiamminghi e valloni francofoni ha ormai raggiunto livelli da guerra civile strisciante. Siamo arrivati al punto che le due polizie non si parlano tra loro. Analisti e politici europei continuano ad avocare maggiore cooperazione tra le forze di sicurezza dei Paesi membri, senza rendersi conto che in Belgio questa cooperazione non esiste neppure tra quartieri di lingua diversa nella stessa capitale Bruxelles. In una situazione di questo genere gli estremisti islamici operano come pesci nell’acqua».
Sono diversi mesi che il noto storico e politologo francese Gilles Kepel ha iniziato a esaminare il fenomeno jihadista in Belgio. Dopo i suoi studi pionieristici sul fenomeno qaedista negli anni Ottanta in Medio Oriente, da tempo ormai si occupa del radicalismo islamico in Europa. Pochi giorni fa è stato persino minacciato da alcuni giovani arabi del quartiere di Molenbeek mentre riprendeva un blitz della polizia locale. A suo dire le banlieue francesi ormai hanno perso la loro unicità di marginalizzazione violenta, in Belgio si trova anche di peggio e le sue conclusioni sono allarmanti.
«Inevitabilmente ci saranno altri attentati. Nel caos sociale belga i terroristi sono ormai una realtà profondamente radicata sul territorio e trovano sostegno in piccole comunità islamiche omogenee e coese. In luoghi come Molenbeek le attività criminali del traffico della droga sono legate ai gruppi del jihadismo, banditi comuni ed estremismo religioso spesso vanno a braccetto», ci ha detto ieri sera per telefono da Parigi.
Paradossale no? Il Paese che ospita alcune delle istituzioni comunitarie europee più importanti è anche il più fragile.
«Paradossale e anche molto pericoloso. Il Belgio è oggi il ventre molle dell’Europa, che per molti aspetti ne sintetizza le debolezze strutturali. Non a caso Abu Musab al Suri, il noto reclutatore-ideologo di origine siriana che teorizza il terrorismo di piccole cellule jihadiste completamente separate le une dalle altre, da tempo ormai guarda a Bruxelles come a un fantastico campo di battaglia. È facile muoversi nella città. La presenza di tanti stranieri rende più semplice per chiunque viaggiare indisturbato, i controlli sono minimi e gli obiettivi da colpire ben visibili».
Questi attentati vanno messi in connessione con l’arresto venerdì di Salah Abdeslam, l’ultimo sopravvissuto degli attentati a Parigi del 13 novembre?
«Direi di sì. Anche se è ovvio che i terroristi avevano già pronte azioni del genere, si erano preparati e addestrati per compierle. Avevano l’esplosivo, i detonatori, avevano individuato i luoghi da colpire. A dettare il loro calendario e accelerare i tempi è stata però la necessità di rispondere con violenza dura e su larga scala all’arresto di Abdeslam».
Che significa?
«Per Isis il comportamento di Abdeslam è stata una sconfitta totale. Doveva morire assieme ai suoi compagni. Avrebbe dovuto farsi saltare in aria, morire da martire della guerra santa uccidendo il massimo numero possibile di infedeli. Invece all’ultimo minuto ha avuto paura, si è tirato indietro, è stato un codardo e un vigliacco clamoroso. È scappato ed è tornato a cercare rifugio e conforto sotto le gonne e la protezione della mamma nella sua casa natale a Molenbeek. Addirittura sta collaborando con gli inquisitori. L’immagine di Isis ne ha sofferto in modo notevole. È insopportabile che i suoi supposti eroi abbiano paura. La forza della loro propaganda sta anche nell’aureola di coraggio e invincibilità che trasmettono sulla Rete dei social network».
Era così importante per Isis rilanciare la propria immagine?
«Assolutamente sì. Oltretutto Isis è in difficoltà da dopo gli attentati del 13 novembre. Allora tra le vittime c’erano anche giovani arabi, giovani musulmani. E la cosa è stata criticata anche nei circoli estremisti islamici. Un conto è infatti colpire degli obbiettivi precisi che offendono l’Islam, come poteva essere Charlie Hebdo. E un altro invece sparare nel mucchio. Isis oggi ha difficoltà nel trovare reclute. Non sa come parlare alle masse musulmane. Già Al Qaeda aveva avuto difficoltà simili. Dunque questi ultimi attentati possono anche essere visti come un tentativo per rilanciare la posta. Isis mira al terrore per il terrore, deve lavare l’onta del tradimento di Abdeslam».
In Italia cresce l’apprensione. È giustificata?
«Il fatto che in Italia non vi siano ancora stati attentati maggiori significa molto poco. Tutte le grandi città europee oggi sono potenzialmente a rischio. Roma in particolare è carica di simboli e Isis ha già annunciato che la colpirà. Resta necessaria la massima vigilanza».
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