Gianni Tognoni: Samia Yusuf Omar, a nome di tutti i dispersi
Samia Yusuf Omar è nata in una famiglia povera di Mogadiscio nel 1991. E’ stata un’atleta somala specializzata nella velocità che ha partecipato nel 2008 ai Campionati africani di atletica leggera correndo nei 100 metri partecipando poi, sempre nel 2008, alle Olimpiadi di Pechino correndo nei 200 metri. Alle Olimpiadi arrivò ultima nella sua batteria ma fu incoraggiata e applaudita dal pubblico per cui, ritornata a Mogadiscio disse che “E’ stata una esperienza bellissima, ho portato la bandiera somala, ho sfilato con i migliori atleti del mondo”. Nell’agosto del 2012 questa giovane atleta è morta, come è stato documentato dall’atleta britannico di origine somale Abdi Bile, durante uno dei tanti tragici viaggi di una carretta del mare che dalla Libia avrebbe dovuto portarla in Italia. La ricorda, nel numero di novembre-dicembre 2012 della rivista della Cisl Scuola, Gianni Tognoni direttore dell’Istituto Mario Negri Sud e segretario del Tribunale Permanente dei popoli.
Ho accettato di dire qualcosa su Samia- che entrava per la prima volta nella mia vita attraverso le poche notizie che fanno da introduzione e sono il vero centro di questa poche righe- quando mi è stato detto che era proposta tra i “Maestri” che il 2012 offre al futuro e non solo.
Le note che seguono vogliono solo essere eco e pro-memoria di questa proposta, al tempo stesso tanto bella -profonda quanto infinitamente rivelatrice di una nostra povertà -impotenza. Sonia si fa Maestra di futuro e di vita con il suo entrare- in un tempo-non-tempo e in un luogo-non-luogo – a far parte di un popolo ogni giorno più grande, che non compare sulle mappe che si studiano nelle scuole, non compare nei rapporti internazionali o sulle propagande delle agenzie turistiche. I nomi più noti di questo popolo hanno radici latino americane (Argentina, Guatemala, Colombia) desaparecidos, desechables, gli scomparsi, gli usa-e-getta e riassumono tutti gli altri: migranti, schiavi, clandestini, violentati, torturati, “effetti collaterali” di bombardamenti non sufficientemente intelligenti; morti di fame o catastrofi perché il cibo e l’ambiente non sono più il bene comune, ma strumenti di mercato schiacciati-intrappolati dai muri che si sono moltiplicati, da Israele al Messico, al mare “nostro”. Come tutti i popoli anche questo, anche questo, con tutti i suoi nomi si declina al maschile e al femminile e abbraccia tutte le età: come capita in tutte le guerre “moderne” è fatto tutto di poveri, “ricco” solo di più bambini e più donne.
Al di là della sua dispersione in tutti i continenti e le latitudini, coincide sempre e ovunque con gli “scarti” a cui la “nostra” società destinano tutte/i quelli che non rientrano negli interessi dell’uno o l’altro dei “poteri” – economici, militari, dittatoriali, culturali, politici- che ritengono di essere padroni assoluti e non rappresentanti-servitori-interlocutori, di tutti gli umani che passano per le loro mani.
Come tutti i “rifiuti” questo popolo fa notizia solo quando il ri-ciclaggio diventa ingombrante, o eccessivo. Come a Napoli, anni fa. O all’Ilva di Taranto. O a Rosarno. O con i tanti Rom. O nei massacri delle donne a Ciudad Juarez nel Messico. O dei minatori Sud-Africani. O nell’uno o nell’altro di quei “barconi” su cui anche Samia era stata “gettata” (non si sceglie mai di entrare in questo “popolo usa-e-getta”: si è buttati dentro da una vita che non offre altri spiragli. E’ a nome di questo popolo che Samia diventa “Maestra”. Capovolgendo la logica dei nostri “militi ignoti” o dei morti “onorati” alla memoria quando “tornano” dalle guerre, come nella antica canzone di Fabrizio De André, o, per migliaia, dall’Irak o dall’Afganistan. Samia grida forte l’intollerabilità e l’inciviltà di una società che racconta sostanzialmente imperturbabili, giorno dopo giorno, le cronache della scomparsa di coloro che sono destinati ad essere “rifiuti” (… e sono tanti, tanti, tanti: il loro conto è sempre approssimativo e si dimentica sempre qualcuno: come i palestinesi, ancora una volta “usati-e-gettati” nei giorni in cui si scrivono queste note).
I “Maestri” come Samia – proprio perché hanno sognato così fortemente la vita, senza poterla vivere, raccontare, inventare, condividere- non gridano solo né principalmente con la loro morte: chiedono che la loro scomparsa renda ancora più forte e obbligatorio il diritto alla vita per il loro sogno di un mondo dove dignità di ognuna/o tutte/tutti non sia una dichiarazione, ma una realtà: tanto certa e quotidiana quanto è quotidiano il loro “ostinarsi” a rimettersi in cammino, giocandosi la vita su un barcone.
Con il suo sogno di corsa e libertà Samia chiede alla scuola di farsi luogo, strumento lingua, casa di questo popolo: per renderlo visibile e protagonista, per riconoscerne e raccontarne la storia. I modi sono tanti: “la “mappa” di questo popolo è la geografia più vera, utile viva; i film, i documentari, i racconti che sono disponibili possono diventare “laboratorio” prioritario in cui si incontra la loro vita; ogni scuola dovrebbe- e può- sentirsi come una baldosa -una piastrella, che pavimenta un marciapiede, e/o una casa- ce diventa simbolo della memoria-che fa-vivere in Argentina: per ogni persona “desparecida” da parte della dittatura si pone una baldosa -molto bella e colorata, istoriata là dove è stata vista l’ultima volta, perché la città torni ad essere luogo di abitazione e di memoria e gli scomparsi facciano parte del futuro. Auguri alle scuole di divenire luoghi di lettura del mondo dal punto di vista di Samia: perchè non ci siano più “madri che non danno più pesce da mangiare ai loro bambini da quando qualcuno dei fratelli più grandi è partito per Lampedusa e il suo corpo è sparito in mare” (Lettera da Lampedusa, CNCA, 27-29 settembre 2012)
Samia diventa così eco e continuazione di un altro dei Maestri di quest’anno, Carlo Maria martino, che mentre “scompariva” diveniva sempre più compagno -amico -maestro -senza -cattedra di tutte/i coloro che entrano nel dolore, nella non autonomia, nella discriminazione, e possono avere -sognare come “risposta” -infinitamente incerta, senza garanzia, ma irrinunciabile – quella di una condivisione della loro speranza di dignità da parte di chi li incrocia.
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