Francesca Brandes: Viaggi coloniali di Mario Coglitore
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Nell’estate tormentata dagli spettri di nuove masse di profughi dall’Afghanistan, leggere Viaggi coloniali, un bel saggio a firma dello storico Mario Coglitore, edito da Il Poligrafo, riporta alla radice della nostra considerazione occidentale – sempre preconcetta e opportunista – degli altri mondi: l’Africa profonda, l’Oriente. Un’accezione colma di prosopopea, bigottismo, ipocrisie.
Coglitore, dottore di ricerca in Storia sociale, è stato a lungo docente di Relazioni internazionali e Storia contemporanea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è occupato dell’evoluzione del sistema mondiale delle comunicazioni, con particolare attenzione allo sviluppo della telegrafia europea tra Otto e Novecento e alla storia postale. Attualmente collabora con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Area di Filosofia politica.
Il suo testo non ha nulla della dissertazione dotta e fine a se stessa, pur mantenendo precisione assoluta nelle citazioni ed abbondanza di fonti. Nel panorama saggistico, sarebbe già sufficiente per citarlo. Eppure, i Viaggi coloniali di Mario Coglitore colpiscono anche per forza narrativa e capacità di tratteggiare un affresco puntuale, e non verboso, della nascita degli ideali del colonialismo europeo. L’autore sceglie di parlare di paesaggi, di persone, di storie, interpolando significati e suggestioni, particolari e poco noti. Soprattutto, lo fa attraverso la potenza connotante del viaggio, citando nell’Introduzione – quasi ad esergo – le significative indicazioni dell’antropologo Franck Michel: «Viaggiare significa imparare di nuovo a dubitare, a pensare, a contestare. Poiché si aboliscono le frontiere dell’ignoto, viaggiare significa osare, sfidare la banalità del quotidiano, le comodità rassicuranti, le abitudini secolari. Il viaggio – conclude Michel – è il passaggio dal sé all’altro, il ponte tra due mondi». Peccato che l’altro, chiosa Coglitore, nell’epoca delle grandi colonizzazioni, si preferisse sottometterlo, piuttosto che incontrarlo.
Tant’è: il lavoro dello storico veneziano, sviluppato nell’ambito della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, nel gruppo di ricerca interdisciplinare dedicato al connubio tra Arte e Politica, ha avuto mentori d’eccellenza, come Barbara Henry, docente di Filosofia politica (che ha dedicato al volume una bella prefazione), Andrea Giuntini, storico delle comunicazioni, Rolf Petri, con cui Coglitore collabora alla cattedra di Storia contemporanea e la studiosa di Letteratura italiana Saveria Chemotti.
La cornice teorica è sicuramente condivisa, come sostiene Henry, ma il taglio che l’autore ha scelto per la sua trattazione è esclusivo e fascinoso. Il saggio è stato formalmente concepito quasi si trattasse di un’opera musicale, con un’Ouverture, tre Movimenti connotati da precise durate e un Finale. Così il viaggio si dipana tra figure simbolo dell’andare tra Otto e Novecento: il console d’origine irlandese, ma cresciuto nell’Inghilterra vittoriana Roger Casement, acuto osservatore dello sviluppo del colonialismo britannico, dalla tragica vicenda personale (finì sul patibolo); Emilio Salgari, il viaggiatore che non viaggiò, ma seppe rappresentare con perfetta efficacia, nei suoi romanzi, la concezione italiana di un immaginario coloniale che si sarebbe trasformato, di lì a poco, nel mito strapaesano dell’Impero fascista. Su tutto, formidabile e tragica ad un tempo, l’immagine dello sviluppo imponente delle reti ferroviarie: «In questo studio – scrive con ottima sintesi Mario Coglitore nel Finale – ci siamo mossi da una posizione pluriprospettica, indicando tre differenti tipologie di spostamento che s’intrecciano tra loro in geografie fisiche e dell’immaginazione (…) Si sposta Casement, nel corso delle sue indagini in Congo e in Sud America; si sposta Salgari correndo in qua e in là su itinerari di carta che riempie di storie inventate, dando origine a rocamboleschi canovacci letterari; si sposta la ferrovia dall’interno del continente africano, prendendo d’assalto un altopiano invalicabile e lasciandosi dietro uno strascico di morti».
La precisa ricostruzione, tanto più commossa quanto esatta che l’autore opera della nascita della ferrovia Congo-Oceano, costruita tra 1921 e il 1934, un percorso da est a ovest di 512 chilometri in un territorio quasi impraticabile, offre al nostro sguardo un’autentica strage di nativi: sradicati dal proprio ambiente, costretti in carovane per raggiungere i cantieri, sottoposti a turni di lavoro massacranti. «Nel 1927, su 6832 reclute inviate da Brazzaville – commenta Coglitore – soltanto 5494 avevano raggiunto il Mayombe, con un tasso di mortalità e di defezioni che raggiungeva il 37%». Un orrore di cui si sa ancora troppo poco, ma che spiega con esattezza quanto europocentrica ed autoritaria fosse la politica coloniale dell’epoca.
In più, conclude l’autore, il racconto coloniale (per quanto sia la versione di Casement sia la narrazione esotica di Salgari non siano prive di accenti di compassione e di simpatia per i poveri selvaggi) necessariamente re-inventa la cultura degli altri, secondo ciò che conviene raccontare: il fascino del combattente Sandokan come elementare versione del superuomo di massa all’Umberto Eco; la necessità di convertire e civilizzare, con le buone o con le cattive, le popolazioni africane a cui neppure la visione di Casement si sottrae come principio generale. Su tutto, lo sferragliare dei treni su quelle rotaie che, da cursori lignei, si trasformano un po’ alla volta in acciaio sonante: sin dal 1855, infatti, le ferrovie sono attive in tutti e cinque i continenti.
Tutto viaggerà per quelle vie: i prodotti industriali, le idee, le armi. Ogni capitale umano, ogni ambizione, civile o militare. I Viaggi coloniali di Coglitore alternano il ritmo di quell’andare all’ordito vocale di Oum Khaltoum, l’egiziana Stella d’Oriente che narra attraverso il canto la propria terra, o agli acuti della soprano di origine polacca Zofia Brajnin che affascina il giovane Salgari al Teatro Ristori di Verona nel 1884, nella sua interpretazione del Nabucco.
L’intreccio è strettissimo, e non così lontano nel tempo come parrebbe.
Simili le rotte, oggi, magari compiute all’incontrario, ancora più gravi gli abusi; la considerazione erronea dell’Altro costituisce ancora una piaga non sanata. Lo sfruttamento delle risorse umane, la sottrazione delle ricchezze, la disperazione dei più deboli continuano a rappresentare la traccia su cui la società occidentale costruisce il proprio futuro. Il saggio di Mario Coglitore merita di essere letto e meditato: è un punto di partenza, uno specchio inevitabile.
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