Domenico Quirico: Partiamo dal Mali per non morire
Diffondiamo da La stampa it del 17 e 19 luglio due reportage di Domenico Quirico, inviato de La stampa
1. Domenico Quirico (inviato a Kayes, Mali) : Un pezzo di strada con i migranti: “Partiamo da qui per non morire”
La foto in alto è così commentata da Domenico Quirico: Le famiglie allargate nei villaggi del Mali si riuniscono sotto gli alberi. È qui che si decide di partire verso l’Europa quando non ci sono più alternative. Il reportage del nostro inviato comincia proprio da una di queste riunioni dove i giovani raccontano le loro esperienze
Migrare. È una gran cosa migrare. Soltanto chi lo ha fatto sa che cosa è davvero un albero, il colore di una foglia, un fiume, il mare, il fremito dell’erba nel vento, il fuoco del tramonto. Soltanto chi ha marciato sulle piste della migrazione sa che cosa è la bellezza dell’ora e delle stagioni. Qualunque suono è una musica dolcissima per chi ha fame e parte. E gli occhi di coloro che migrano! Sono venuto quaggiù, in fondo al sahel, ai bordi del fiume Senegal per vedere gli occhi di coloro che hanno fame e partono verso di noi.
Vi è già il mare dentro quegli occhi e i deserti, i fiumi, la terra tutta la terra che attraverseranno e il colore delle cose, il vero colore delle cose. Vi è tutto il mondo con i suoi veri colori, con la sua tristezza, e il dolore che cresce nel mondo come un grande albero invisibile. E la fame che li fa partire non è solo il bisogno di pane, ma il bisogno di rispetto di giustizia di libertà, il bisogno di amore.
L’«avventura»
Che sappiamo noi di loro? Nulla. Sappiamo ad esempio che chiamano il transito di dannazione che li porterà forse in Libia, a quattromila chilometri, e poi nel Mediterraneo, «l’avventura»? È possibile? Una semplice parola, poche sillabe sonore aprono davanti a noi un abisso inevitabile che voi vedete, che voi sapete inevitabile. È possibile questo? Sappiamo che se non migrano se non vanno in Europa non troveranno mai una sposa, non potranno avere figli e casa? E che chi resta o ha fallito, per paura o sorte avversa, è guardato nel villaggio come un vigliacco e uno sconfitto? Perché? Che qui non c’è la guerra (quella infuria al Nord, ma i tuareg non sono migranti), ma c’è un continente intero che è pronto a partire dai 15 anni in su e ci sono villaggi dove sono rimasti solo donne, bimbi e i vecchi, anche loro migranti di 50 anni fa, di un’epoca in cui l’Europa accoglieva e il viaggio si faceva in nave, Dakar-Marsiglia, con il documento in mano? Ah, è vero. Siamo ancora al principio e io vi parlo della fine. Non potremo capire se prima non avremo raccontato tutto.
Non avete mai notato? Un uomo, una pianta, un animale, qualunque cosa vi dà il suo vero aspetto una volta sola, ossia al momento fugace della prima percezione. Subito dopo non è più quella: è un’altra cosa. È qui a Kayes, dove i mille rivoli, Mali, Senegal, Gambia, Costa d’Avorio, Guinea, si uniscono e diventano fiume per imboccare la pista del deserto, che il migrante che morirà domani, che ha l’avvenire di un’ora, di una notte, di un minuto, di un giorno, di un istante, si svela. Vogliamo risalire il filo della sua storia, trovare il primo nodo, quello che conta: leggere l’istante e il perché. Avevamo pregiudizi? Scompariranno. Chi cammina qui sente che l’uomo è sacro. Un animale, qualunque, una povera bestia vile e cattiva, oppressa dalla tristezza della vita, dall’ingiustizia della società animale in cui vive: ma a Kayes senti che l’uomo è sacro.
In città i bimbi di strada ti seguono porgendo le loro latte, talvolta piene di un riso scuro, quasi sempre vuote. Hanno sei, sette anni: pensate, meno di dieci anni e ragionano come uomini, sono tristi come uomini. Pare che sappiano già tutta la vita, che soffrano tutte le sofferenze. Le loro bocche conoscono già le parole amare, quelle che fanno male e che non si dimenticano.
Ci accompagna Mohamed Nyang. La stagione delle piogge che a Bamako, 600 chilometri più a Nord, rovescia già acqua, qui ogni anno è sempre più fioca. Poche gocce, patetiche come lacrime, sono scese finora nella polvere dei sentieri sollevandola appena. In fondo spuntano montagne grevi, linee ripide, nere disegnate nel cielo come cortinaggi pesanti. Nubi lievissime sono così stabili che pare non debba avvenire più nulla, in nessun luogo.
La contabilità del dolore
Nyang è un ragazzo che conta i migranti morti, tiene la contabilità e dà un nome a quelli che non sono tornati dal deserto e dai naufragi. L’80 per cento dei migranti viene da questa regione, ben 124 delle vittime della tragedia di giugno era di qui. Pile di fogli di scrittura fitta, la sua, meticolosa: nove del villaggio di Kabaya, sette del villaggio di Saorané, 14 del villaggio di Dindinaye. E ancora, ancora. È gentile Nyang, ma nei suoi occhi c’è una languida ostilità; non appartiene al nostro stesso mondo quel viso, noi per lui siamo al riparo dal dolore, dalla miseria, dalla tragedia: «La migrazione è una religione per noi, tutti siamo migranti, tu sei migrante, la nostra vita è la migrazione. Studiamo francese a scuola? Per migrare. Lavoriamo come bestie? Per avere i soldi e migrare. Tutto il poco che abbiamo in Mali, questo Paese disperato è pagato dai migranti».
A ondate il cortile della casa della famiglia dei Bassambaya nel villaggio di Sélinkégny si riempie, i vecchi da un lato con il capo villaggio e il capo dei giovani, che ha anche lui 80 anni, dall’altra i ragazzi sotto la grande ombra della acacia. Le donne e le bimbe si mettono dietro, in file coloratissime di boubou, silenziose e attente. Sono qui, come me, per ascoltare il racconto di due giovani che hanno fallito, sono arrivati fino alla soglia del mare e hanno fallito.
«Fino a Niamey in Niger è facile, si prendono i bus normali. Il biglietto costa l’equivalente di 150 euro. Non abbiamo bisogno di visti. I poliziotti ti ricattano ma sono piccole cifre. Portiamo con noi piccole somme proprio per non esser derubati. C’è tutta una rete che ci guida ad ogni tappa, trasferisce i soldi necessari ogni volta attraverso i commercianti, i «marabutti», siamo collegati con il cellulare sulla rete di Viber. Vicino al villaggio la massa scura del cementificio russo, costruito negli Anni 60, tempi di indipendenza fresca e terzomondismo. Poi i russi se ne sono andati, prima di partire hanno manomesso gli impianti per impedire che funzionassero. Ora tutto è ruggine scura. Un po’ più avanti c’è il cementificio nuovo, quello è proprietà di una azienda indiana. Ci lavorano soprattutto togolesi e burkinabè, 4 euro per 12 ore, 7,50 se ne lavori 24. Se protesti ti cacciano via.
Attraverso il deserto
«È il deserto il problema: 400 euro ci hanno chiesto i passeur. Cinque di noi per fare numero sul pick-up li hanno chiusi nel cofano, sdraiati uno sopra l’altro. Morivamo di sete, non ci davano acqua, abbiamo chiesto loro di urinare per poter bere».
Sotto gli alberi stenti mandrie di bestie apocalittiche, vacche e pecore, i fianchi asciugati dalla fame, frugano con il muso l’erba secca, invocano aiuto con infiniti lamenti.
«A Tripoli gli africani sono considerati bestie. L’uomo che ci ospitava chiusi in un rudere era un seguace di Gheddafi, non ci dava da mangiare, ci bastonava. Ho scaricato sacchi di cemento per un euro al giorno fino a scoppiare, ramazzato nell’immondizia per trovare qualche pezzo di pane gettato via. È inumano, è inumano».
C’è silenzio, un terribile silenzio, e imbarazzo. Non rabbia e indignazione. Vanno e vengono le stesse parole consunte che però a ogni nuovo racconto si riaccendono e hanno altro suono. Ogni ragazzo dà ad esse il suo colore, il racconto sembra eguale fino a quando da un gesto della mano, da una frase, da un silenzio si forma l’uomo. Non c’è traccia di un tumulto interno che capovolge l’anima come fa la zappa con la zolla.
«Mi sono ammalato, a Tripoli, ma in farmacia si rifiutavano di vendermi le medicine. Chi ci nasconde è d’accordo con la polizia che viene a bastonarci e a rubarci il denaro. Non ce la facevo più, ho chiesto aiuto alla ambasciata del Mali, il mio Paese. Mi hanno detto: sei arrivato fin qui con i tuoi soldi, ora con i tuoi soldi torna indietro».
Una bambina bellissima sminuzza il miglio vibrando ampi colpi solenni nel grande mortaio di legno, poi raccoglie i chicchi finiti in terra uno ad uno, meticolosamente. La madre agita il setaccio, gesti rapidi, leggeri, armoniosi come se avesse tra le mani un sonaglio.
«Siamo partiti da Gao, novanta nel cassone di un camion da miniera, senza un telo che ci riparasse dal sole, 45 gradi, i morti di sete e di insolazione li gettavamo nel deserto senza fermarci. Ho creduto che per la sete inestinguibile mi si staccassero le ossa, alle giunture. A quel punto tu non decidi più niente, sono i passeur che decidono la via, se tu paghi e hai fortuna arrivi. Il mare era davanti a me, dai! L’ultimo balzo, ho pagato anche i 750 euro per la traversata. Ma non ce l’ho fatta, ho rinunciato e sono tornato qui. Mia madre ha pianto di gioia».
Piangere in silenzio
In nessun luogo ho visto piangere come qui, senza singhiozzi senza sospiri, per non essere udito, per non affliggere gli altri. Pochi al mondo sanno piangere così. Dei migranti si può dire che almeno hanno saputo piangere in silenzio tutta la vita.
«Puoi raccontare tutto questo nel villaggio, l’orrore, le umiliazioni, i morti, mille e mille volte, ti guardano e ti dicono: la verità è che hai avuto paura, per questo cerchi di convincerci. È arrivata la notizia che uno di noi era morto in mare, il giorno dopo due dei suoi fratelli hanno vuotato lo zainetto di scuola e sono partiti, con la benedizione dei genitori. Se non sei andato in Europa nessuna ragazza ti sposerà. Partirà il primogenito, il più intelligente, scelto dalla famiglia, dal quartiere dal villaggio, un investimento collettivo, sanno che i soldi torneranno qui…».
La casa grande riposa nell’ardore del sole sotto il cielo di metallo chiaro, cinereo all’orizzonte, non si piega uno stelo. Il passo della donna che ha attinto l’acqua dal pozzo a grandi bracciate è diseguale, improvviso, è come se ricordasse che cammina, che ha imparato a camminare, lei che ancora ieri con le ginocchia senza forze era una bambina.
Il sogno dei diritti
«Potremmo andare nei Paesi arabi, sono più ricchi di voi ormai, ma in Europa non c’è solo il lavoro, ci sono le leggi i diritti tutto quello che non c’è qui. Non ci possono fare quello che ci impongono al cementificio. Tutto quello che abbiamo in questo villaggio, l’acqua l’elettricità, la scuola, il presidio medico è stato pagato dai nostri migranti. Il deserto avanza, piove sempre meno, siamo magri come le nostre vacche, senza la migrazione molti che sono qui oggi sarebbero morti. Come puoi dire che è una follia? È il nostro destino».
La luce inonda i visi immobili e puri, nobili e tranquilli, uomini donne e bimbi. È sceso il silenzio e proprio in quel momento scoppia il primo richiamo della preghiera, venendo da non so quale punto vertiginoso del cielo, come dalla cima della sera. Si alzano e se ne vanno.
Ci resta ancora una cosa da fare, tornare a Kayes, cercare la grande madre dei migranti, Djenebè Djawara. La sua casa è aperta a chi ha fatto il primo passo, dal villaggio alla città per prendere il primo autobus, e non sa nulla. Li ospita due, tre giorni, piccole stanze nude con il pavimento di cemento su cui gettare una stuoia. Nessuno paga nulla. La casa l’aveva costruita uno zio per la gente del villaggio che veniva in città e non sapeva dove andare. È diventata la prima tappa del viaggio.
«Siamo tutti eguali, figli di Dio, fratelli. Molti di quelli che sono passati di qui sono morti, anche due figli di mio fratello. Chiedo sempre che anche dopo un anno, due, mi mandino un segnale: sono arrivato, grazie a Dio. Allora prego. Fermarli? Non puoi sempre affidarti al denaro di tuo padre e a tua madre: devi cercare il tuo destino».
Compro il biglietto del bus per Bamako. Farò un tratto di viaggio con loro.
2. Domenico Quirico (inviato a Djema, Mali): Seconda puntata con i giovani che abbandonano i villaggi dal Mali
La stampa mondo 19 luglio 2015
La foto in alto è così commentata da Domenico Quirico: La prima tratta del viaggio, cinquecento chilometri in dodici ore viene interrotto da innumerevoli posti di blocco. A bordo nessuno ha i documenti, visto che nei villaggi non esistono neanche le anagrafi, così che per proseguire bisogna allungare una mazzetta ai poliziotti. (FOTO: Sven Torfinn/Panos/Luz)
La pioggia è venuta. Nella notte. La prima benedizione dell’anno, nella regione di Kayes, in Mali, già in grave ritardo rispetto al passato. Ma ovunque, nella pianura, sulla strada si sono formate larghe paludi, laghi improvvisi e fugaci. Le donne vi lavano i cavalli e i bambini, tra strilli e nitriti.
La bevono quell’acqua perché porta con sé vigore, e la promessa che anche quest’anno, forse, la vita continuerà. E poi subito tutti sono corsi nei campi, ancora per poche ore zeppi d’acqua, arano con le loro zappette corte la terra prima che il sole la asciughi di nuovo. La pelle di erba, tenera e fitta, già copre le stoppie brune. Gli africani zappano piegati in due come se si inchinassero alla madre comune che dà loro da vivere.
Il ritorno del sans papiers
Accompagniamo al villaggio Drissa, che torna da Parigi, espulso dopo esser stato «sans papiers» per quattordici anni. Quando gli ho detto che anch’io ho vissuto lì alcuni anni mi ha chiesto: «In quale quartiere abitavi?». «Il sesto». Mi ha guardato: «Quello è un quartiere per quelli che hanno il visà. Io stavo nel diciannovesimo… ».
Una deviazione che a noi costerà solo qualche ora e a Drissa risparmierà due giorni di viaggio, forse più. I piccoli autobus che servono i villaggi si fermano all’intoppo di una notte di pioggia che infanga la strada.
La pista per il villaggio di Monoback, scorticata dal fuoristrada, infatti sanguina acqua. Gli asinelli, tirando in coppia carretti preistorici carichi di gente e di cose, si avventurano anche loro con l’acqua fino al garrese, scivolando arrancando con enorme fatica. La luce piove già da un cielo puro, altissimo, lucente come un cielo di alluminio. Una pace immensa è assopita sul villaggio, sui campi, sulla pianura sterminata.
Al villaggio
Quando si arriva bisogna andare subito a rendere omaggio al capo della comunità. Entriamo. La stanza è avvolta nel buio, trapela dallo spiraglio della porta una luce dubbia, quasi sepolcrale, indimenticabile. Il vecchio è disteso sul letto, nascosto da una tenda. È malato ma, con un grande sforzo, si solleva e ci saluta offrendo l’ospitalità del suo villaggio. Nessuno parla. Sentiamo tutti l’odore della morte, che si mescola a quello delle bestie e degli uomini, un odore magro, leggero che pare salire dal profondo della terra.
In quattordici anni Drissa non è mai tornato a casa, trova figli grandi, tanti del villaggio non ci sono più, morti o partiti. Come lui. Non riesce a sciogliere la lingua dal groviglio della sua odissea burocratica: i flic le manette la cella in attesa dell’espulsione i ricorsi, i controricorsi, le associazioni che difendono i «sans papiers» gli avvocati gentili o disonesti.
Drissa adesso è nel suo villaggio, tutta quello che è stata la sua vita per 14 anni, muratore e manovale in imprese di pulizie, Parigi, quello per cui ha lottato con tanto accanimento, è stato lasciato indietro come rimangono indietro rimpicciolendo le cose nel campo di aviazione quando l’aereo si alza.
Nel cortile della casa alcuni cavalli rachitici, fermi che paion di legno, masticano un pastone fatto di rami e di radi frammenti di foglie; hanno gli occhi rossi, come di vetro, lo sguardo lucido e crudele, tristissimo. Agnelli belano con lamenti di bimbo viziato, bambini gridano, inciampano e si urtano ad ogni passo. Una sorellina più grande sussurra loro dolci parole.
Ora sembra che Drissa abbia tutta la vita a disposizione per assaporare la delusione. Ma non è solo con il suo odio accartocciato nel cuore: no, non sarà mai solo. Non perché è al centro di una piccola comunità, ma perché, essendolo, fa parte di essa che ne riconosce l’esistenza, si rivolge a lui per consiglio, aiuto, per sollecitare la sua approvazione.
Aveva tentato, era arrivato dall’altra arte del mare, la casa che aveva iniziato a costruire, non più in «bankò», ma con il cemento si è fermata al primo piano. Ma un giorno, forse subito, ripartirà: che cosa ci sto a fare qui? Qui tutto è morto. E gli altri lo sanno e lo ammirano per questo. E questa è una causa degna della loro devozione.
Chi deve tornare indietro: Drissa è stato espulso dalla Francia dopo 14 anni perché clandestino. Lavorava a Parigi e prima d’ora non era mai tornato a casa
Tra dolore e speranza
Arriva Salou. Ha le scarpe sfondate, una maglia sporca. Ha deciso di migrare, sta lavorando ovunque per raccogliere il denaro. La decisione di partire gli è calata sul viso ormai come una maschera fissa, come il più esatto e somigliante destino. È un migrante che non sa cosa vuol dire la parola migrante. Ha studiato solo un po’ l’arabo alla scuola coranica, parla il soninkè e, male, il francese. Nel suo dizionario quella parola non c’è; anche per lui è solo l’avventura.
Lui e gli altri che partono stanno dignitosamente schiacciati tra il dolore e la speranza come nel battente di una porta. Ha gli occhi duri, non guarda niente: né me né il cortile della casa. Ha solo deciso: «Devo lavorare, devo faticare. Devo guadagnare. Il resto non mi interessa. Non so che farò, farò qualsiasi lavoro anche se ho la patente per guidare i camion. Sarebbe bello fare l’autista. Parto con il telefonino e nient’altro. Credo che due, tre mesi basteranno per arrivare. Non ho soldi, non è una scelta. Qui i bambini si ammalano di bilarzosi per l’acqua che beviamo, la terra non produce più niente perché è così rovente che sotto sembra esserci un vulcano. Ci sono state siccità così terribili che abbiamo dovuto scoperchiare i termitai per cercare le larve e sfamare i figli».
Negli occhi balza una luce, le labbra gli si sono tirate nella smorfia tra ridere e piangere, ma il lampo umido degli occhi ha brillato gettando una luce fino a noi: «Sono sposato e ho due bambini. Sanno che parto, mi hanno detto di sì, che è giusto andare».
La paura del mare
«Di che hai paura?». «Ho paura di Dio». «Anche io ho paura di Dio, tutti abbiamo paura di Dio, ma non può essere solo questo… ». «Ho paura di quattro cose: di restare senza soldi durante il viaggio, di non trovare il lavoro laggiù, di sparire nel deserto o in mare senza che nessuno sappia più nulla di me. Soprattutto ho paura del mare».
Il mare lo chiama «acqua», l’ha sentito raccontare, ma non ha mai nemmeno intravisto la forza incommensurabile e la forza smoderata, la furia che si esaurisce spossata e mai non si placa, la furia e l’ira del mare appassionato.
Salou migrando entra nella vita. Poteva imbattersi in un destino più umano. Quale? Che altre possibilità gli offre il suo Paese? Sono certi che il viaggio li migliorerà, si comprendono e si assomigliano uniti nella stessa sorte. La migrazione fa gli uomini eguali, asciuga gli umori, nobilita col dolore. E l’altra faccia di questa schiavitù è la dura dignità, la costruzione aspra di una via di libertà.
Le cinque del mattino, a Kayes. La stazione dei bus della Ghana Transport è accanto al fiume Senegal. Sale il suo rumore sommesso: due sole tinte, il bianco delle luci dei bus che caricano la gente e delle botteghe di canne dove i viaggiatori comprano cibarie, bevande, carte telefoniche e un verde trasparente delle rive del fiume dietro cui si sente il nero della notte, come un infinito. Diecimila franchi il viaggio fino alla capitale, il primo passo, il più semplice, cinquecento chilometri, ci vorranno forse dodici ore. Ma non tutti arriveranno così facilmente.
Guardiamo i passeggeri: qualche donna con i bambini che va nella capitale per la fine del ramadan, un paio di commercianti già appesi ai telefonini. Gli altri tutti ragazzi: uno zainetto smilzo, o un sacchetto di plastica nero. Tutti migranti. So come hanno riempito le ore precedenti: la benedizione dei genitori, la stretta di mano rituale con la sinistra , la destra la si userà quando torneranno, gli amuleti nascosti addosso per avere buona fortuna. Nel bus è ancora fresco lo stordimento, il ronzio, la vaga vertigine provata la sera della partenza.
Parlo con quello che ha l’aria più timida e smarrita, 19 anni: «Parto perché mio padre è il più povero del villaggio, non posso continuare a vivere grazie a lui, io sono il primogenito devo andare. Mi hanno detto sì, in Italia ho una ventina di parenti che vivono lì e mi aiuteranno». Dell’Europa non sa nulla, solo illusioni: «Da voi se non hai soldi chi li ha te li dà, da noi se sei povero nessuno ti considera… ».
Non ha con sé nemmeno un telefonino. A Bamako cercherà un marabutto, un santone e un «coxeur», coloro che si occupano di organizzare il viaggio. Gli presterà il denaro per il viaggio successivo fino al Burkina Faso e al Niger. Il marabutto farà da garante, non per carità, ma perché la paura di una possibile maledizione è la garanzia più sicura che il debito sarà pagato.
Mi chiedo cosa diventerà ognuno di loro: questo ragazzo così giovane resisterà alla Libia e al deserto? Quest’altro che suda e ha un tremito potrà domani risultare il più forte? Quanti incontrerò insabbiati tra un anno o due a Mineo, a Pozzallo? Ci sono ancora mesi forse anni per arrivare al punto alla fine, mesi, anni di dolori di miserie di vergogne.
Check-point e mazzette
Dopo appena un chilometro già la prima sosta, la più temuta, il controllo. Una poliziotta-gigantessa sale sul bus e chiede i documenti: quasi nessuno dei ragazzi li possiede, vivono nei villaggi, non c’è anagrafe. La donna si mette di spalle, vedo scivolare di mano in mano banconote sudice. Di fronte al mio passaporto straniero mi ordina di scendere, andiamo nella casetta dei gendarmi per la registrazione. Mentre faticosamente trascrivono i dati su un brogliaccio, un altro agente incassa il denaro dal coxeur che paga «la tangente» per i suoi migranti: da sette euro per i maliani a 15 euro per gli stranieri due ghaniani e un ragazzo del Gambia. Il poliziotto è arrabbiato: «Tutte le volte la stessa storia, sapete che dovete pagare, eppure provate a fare i furbi. Non salite sul bus! Che diavolo volete?».
Prima di arrivare a Bamako ci saranno altri tre, quattro posti di blocco con l’esazione. «Anche avere il documento di identità è inutile: ti chiederebbero la vaccinazione contro la febbre gialla, l’atto di nascita, il certificato di buona condotta… Devi pagare».
Percorro il bus prima di scendere a Djemà; dei giovani migranti non resta nella mente che il via vai degli occhi tristi, lucidi e neri. Non resta altro, nessun ragazzo in particolare: solo l’ultimo.
Il mio viaggio finisce qui. Il loro è appena all’inizio. Ora sono davvero migranti. Questa parte dell’Africa è come una miniera umana, cova fra le più profonde ricchezze di uomini del mondo. Alcuni eletti possono anche essere ammessi nel nostro avaro paradiso, ma dove vanno i reprobi? Siamo noi che dobbiamo venire a scoprire un nuovo, difficile oro sepolto dalla natura e dalla storia. Guardando il bus che ripartiva mi veniva in mente una frase: è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che uno di questi nelle maglie delle nostre frontiere. Questo è un imbuto: da una parte entra un fiume e dalla altra esce un rigagnolo.
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