Dag Tessore: Thich Nhat Hanh e il suo testamento d’amore
In foto una capanna per la meditazione. La foto è stata scattata da mia madre (Silvana Ziviani) a Plum Village verso il 1995.
Dag Tessore: Thich Nhat Hanh e il suo testamento d’amore
Alla notizia della morte del grande maestro zen Thich Nhat Hanh, che tempo fa avevo incontrato e di cui avevo registrato una mirabile conferenza, mi ricordai di aver conosciuto una delle sue prime discepole, Silvana Ziviani, una signora già un po’ avanti negli anni che ci aveva fatto da interprete. La scovo in un piccolo villaggio berbero, arroccato tra le montagne dell’Atlante in Marocco, circondata da una schiera di nipotini e monelli che scorazzano tra pecore, capre e asinelli carichi di immense quantità di erba. Ha 85 anni e da poco è uscito un suo libro, “Al di là della memoria”, in cui descrive il suo lungo cammino spirituale sotto la guida di Thich Nhat Hanh e di altri famosi maestri. Accetta di buon grado, anzi entusiasta, di parlare del suo maestro Thay, citandomi subito i versi di una sua poesia:
”Se un giorno avrai bisogno di me, e io fossi assente,
vai ad ascoltare il mormorio di una sorgente o il rombo di una cascata.
Contempla il crisantemo giallo, il bambù violetto,
le bianche nuvole, la chiara luna serena.
Tutti racconteranno la stessa storia.
Così aveva scritto Thay e così io avevo fatto spesso in questi 35 anni da quando l’avevo conosciuto. Anche oggi, alla notizia della sua morte, sono uscita sul terrazzo a ‘contemplare le bianche nuvole’ in cielo e la storia che mi hanno raccontato in effetti è la stessa che ci raccontava lui: che la vita di ogni essere vivente è correlata e interconnessa con la vita di tutto il creato. Nessuno ci può dividere; non siamo mai soli. Durante la guerra del Vietnam, aveva attivamente aiutato il suo popolo, trasformandosi perfino in marinaio per cercare di salvare i boat people, per arginare quella spaventosa violenza, eppure in una sua poesia aveva scritto “l’uomo non è mai nostro nemico”. Con la sua aria serena e il suo sorriso, ci incitava a esplorare, attraverso una consapevolezza ininterrotta, campi di realtà più profondi e interessanti e, da bravo maestro zen, ci sollecitava con domande impossibili: “Dove finisce il rumore della pioggia e inizia il mio ascolto?” Al nostro imbarazzato silenzio ci spiegava che queste divisioni provengono dalla mente perché in natura non esistono. Mistico e poeta, ci raccontava storie che avevano il sapore di fiabe per bambini perché – ci diceva – la realtà, che è verità, è molto semplice, non va afferrata ma si rivela improvvisamente quando la profondità della consapevolezza rende possibile questo miracolo. E con lui il miracolo avveniva quotidianamente durante le nostre lunghe passeggiate silenziose: sentivamo le piante sussurrare al nostro passaggio, vedevamo i fiori aprirsi gioiosi in un grande sorriso e gli uccelli precederci volando di ramo in ramo; tutto il creato ci riconosceva come fratelli. Da lì veniva la sua immensa compassione, che non era un sentimento ma un abbraccio all’umanità intera senza distinzioni.
Ma la smania della mia mente che pretendeva di conoscere ogni cosa, di fare, sempre fare, sperimentare, cambiare, interrompeva quella magica realtà. Per 20 anni girai il mondo per praticare con altri maestri. Ebbi però la fortuna di seguire gli insegnamenti dei più illuminati maestri spirituali del secolo passato che non lasciarono scadere quel mio bisogno di spiritualità in un banale problema psicologico di disadattamento sociale. Passai due anni interi con Goenka, il mio primo maestro, nei vari suoi centri in Europa, sottoponendomi a 14 ore di meditazione giornaliere e a un pasto solo verso mezzogiorno. Ma ero così entusiasta di scandagliare tanto profondamente la mia mente, che non mi accorgevo delle privazioni che imponevo al corpo. Passai poi molti mesi in Inghilterra con Ajhan Sumedho, discepolo di Ajhan Chah e tornando in Italia decisi di piazzare la mia residenza, per anni, in un container ai margini di un monastero fondato da A. Sumedho presso Roma. Da lì partii per il sud della Thailandia nel centro di Buddhadasa, in mezzo alla giungla, e vi stetti vari mesi. Passai anche circa due anni intensi a Lumbini in Nepal, nel monastero di U Pandita. Poi in Birmania da Pa Auk, poi a Sri Lanka…
Ora tutti questi maestri sono morti, ma il messaggio che hanno trasmesso è lo stesso di quello che ci lasciano le nuvole e i crisantemi gialli di Thay: ogni essere vivente è correlato e interconnesso con la vita di tutto il creato. Nessuno ci può dividere; non siamo mai soli. Tra un ritiro e l’altro, tra un viaggio e l’altro, poi tornavo sempre a Plum Village da Thay e vi passavo alcune volte solo qualche mese, altre volte un anno e più, perché ormai lo consideravo la mia casa, il luogo a cui tornare. Col tempo Plum Village si era trasformato: non era più un piccolo agglomerato di casette rustiche, ma vari piccoli villaggi sparsi nella campagna e tra i vigneti della Dordogna, i discorsi di Thay non si tenevano più nella sala da pranzo ma in grandi sale appositamente costruite, la cerimonia del tè non si svolgeva più nell’austera sala di meditazione dalle pareti di pietra il cui unico ornamento era una grande striscia di carta di riso con ideogrammi cinesi scritti da Thay, che era un esperto calligrafo. Ma la gente, anche se più numerosa, era sempre la stessa: era gente sofferente, piena di problemi ma anche di speranze. Ci stringevamo intorno a Thay, ascoltavamo i suoi discorsi che talvolta si protraevano anche per tre ore consecutive. Alcune volte parlava dei testi buddhisti Mahayana e ci invitava a capire, non tanto quello che dicevano, ma quello che non dicevano e che si poteva intuire solo collegandone i vari significati fino a che, come nella Rete di Indra, ognuno rifletteva l’altro. Utilizzando parabole ed episodi tratti dalla vita quotidiana o da varie tradizioni, riusciva a spiegarci anche i più difficili concetti, quali ‘vacuità’ e ‘interconnessione’ che lui aveva coniato in un nuovo termine ‘inter-essere’. Altre volte ci raccontava storie di abiezione tremenda ma sempre collegate alla speranza e al riscatto. Un giorno ci presentò un uomo seduto accanto a lui e ci invitò ad ascoltare la sua testimonianza: era un veterano americano della guerra del Vietnam e – come ci raccontò – poco dopo il suo rientro dalla guerra in cui aveva commesso terribili atrocità, incontrò Thay, un vietnamita. Quando, dopo un periodo di totale confusione e lotta con la propria coscienza, disse a Thay che voleva riscattare in qualche modo il male commesso, Thay gli rispose: “Ormai non puoi annullare ciò che è avvenuto, ma puoi aiutare altri a rendersi conto di queste brutalità e spargere il seme della pace attraverso la tua testimonianza e il tuo pentimento”. Da quel momento Thomas andava in giro per il mondo, testimone vivente e fautore di pace.
Quando uscivamo dalla sala, assorti, silenziosi, ognuno di noi sapeva di non aver ricevuto solo un insegnamento, ma anche la chiave magica che avrebbe potuto aprire il nostro cuore alla compassione”.
La mia interlocutrice tace, si sentono le risate dei bambini che giocano, passa trotterellando un asinello e sul dorso un vecchio che ci saluta portandosi la mano al cuore.
Silvana riprende: “Ho scritto il mio primo libro proprio per condividere con altri gli insegnamenti di tanti esseri illuminati e il secondo (“Elogio della vecchiaia”) l’ho scritto per gratitudine verso la vita che mi ha permesso di incontrarli e di attingere alla loro saggezza e compassione”.
Quando mi congedo salutando, anch’io porto la mano al cuore.
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