Bruno Giorgini: Laboratori del cibo e vita urbana
Bruno Giorgini Senior Researcher Associate to INFN e Laboratorio di Fisica della Città dell’Università di Bologna ci ha inviato questo suo testo che farà parte di un libro curato dal fisico Ermes Fuschini che si titola “La scienza nel cibo”.
Il meglio in primavera è l’ombrina, d’inverno lo sgombro; fra i pesci migliori il migliore è una canocchia stesa su una foglia di fico. Carne di capretto mi piace d’autunno mentre quando si vendemmia e si pigia preferisco il maiale e, assieme, anche carne di cani e di lepri. D’estate, infine, quando stridono le cicale, la pecora, né credo che il tonno sia il peggiore tra i cibi di mare, è anzi eccellente fra tutti i pesci in salamoia. Penso che di giorno e di notte sia squisito il bue ingrassato.
Così l’antico poeta Ananio vissuto nella Ionia durante la prima metà del VI secolo a. C., descrive il menù mediterraneo nelle diverse stagioni. Con un salto di 25 secoli entriamo nella modernità. Non c’è dubbio che la cucina moderna sia figlia della Rivoluzione Francese. In breve, i cuochi delle magioni aristocratiche uscirono dai nobili palazzi, ormai svuotati dall’esilio e dalla ghigliottina, aprendo i primi rastaurant per dilettare il palato dei borghesi cha avevano appena preso il potere, e non volevano mescolarsi al popolino, i sansculottes, nelle bettole. Andare al restaurant era un modo di godersi il succeso politico e sociale, nonchè un segno di riconoscimento e distinzione. Quindi la cucina francese per quasi due secoli ha dominato il panorama, non è un caso se la più prestigiosa guida per gourmet sia ancora oggi la Michelin, che attribuisce le famose e agognate stelle. Nel presente a colpo d’occhio i luoghi del cibo più fantasiosi e inventivi sono diventati la Danimarca, il Brasile, la Spagna, e i grandi chef di Francia e di Navarra, abbandonato il loro aristocratico disdegno verso tutto ciò che non è tradizione, stanno cercando di riposizionarsi secondo un nuovo paradigma che Alain Ducasse, forse il più grande chef francese dice così : “La cucina francese rispetta il pianeta e la diversità delle culture. E’ una cucina umanista (..) che si è evoluta verso il concetto di leggerezza”. Ma continuando il percorso nella modernità, cominciamo dalle tecnologie. Ci sono chef che vogliono nella loro cucina oggetti come una centrifuga, un forno combinato a vapore e convezione termica, una pompa aspiratrice con circolatore a immersione, necessaria per cuocere un uovo sottovuoto per una ventina di ore.
Citiamo in modo più preciso alcune di queste macchine da cucina, che stanno conquistando un fetta consistente del mercato, talchè molti sospettano si tratti non di cucina e di performances culinarie attinenti i sapori, gli odori, i colori, ma piuttosto d’affari, di business. Abbiamo il Roner, che permette di cuocere a bagnomaria e con l’acqua in movimento rendendo per esempio l’agnello più morbido – qualcuno pensa: mistificando la consistenza naturale del cibo – ; il Vacpack per conservare cibi confezionati in qualunque materiale, l’Affumicatore, la Teglia Tecla per la cottura sottovuoto, l’Abbattitore che abbassa velocemente la temperatura dei cibi, freschi o precotti, oppure il Rotaval per ottenere l’acqua aromatica di qualunque materia, per esempio la terra (per un piatto come le ostriche con distillato di terra) e infine, in questa molto parziale rassegna, la Colonna Chef Touch, un sistema integrato che include la macchina per il sottovuoto, l’abbattitore e il forno a vapore. Ove non foste ancora contenti, esiste un marchingegno multifunzionale grande quanto un forno a microonde con cui potete abbattere la temperatura, surgelare rapidamente, scongelare in modo controllato, raffreddare le bevande, cuocere a bassa temperatura, lievitare in modo naturale, rigenerare i piatti pronti. Ma qui siamo nella transizione tra l’elettrodomestico, per quanto sofisticato, e il robot aiutocuciniere se non cuciniere tout court, ormai all’orizzonte.
Una seconda scuola di pensiero rifiuta in modo drastico questa cucina ipertecnologica riferendosi piuttosto a una cucina diciamo naturale, dove per esempio la ricerca di nuovi sapori avviene attraverso metodi come la fermentazione, e la cottura essenzialmente viene fatta sui tradizionali fornelli. Al di là di questa diatriba, a volte virulenta, è certo comunque che nessuna tecnologia trasformerà un/a cuciniere/a mediocre in uno chef, tantomeno un grande chef. Andiamo ora a visitare i laboratori del cibo, i cosidetti food lab dove si inventano (anche nel senso latino di invenio, trovare) e studiano nuovi ingredienti, nuove composizioni materiche e olfattive, nuovi sapori, nuovi colori, nuove tecnologie culinarie.
In questa breve passeggiata ci facciamo guidare da Corby Kummer, critico gastronomico della rivista Boston e redattore di Atlantic, nonchè collaboratore della MIT Technology Review. Spesso i food lab stanno al fianco delle cucine vere e proprie, sono diretti dallo chef, però con uno statuto di veri e propri laboratori di ricerca, per cui alcune sperimentazioni arrivano nei piatti dei clienti, altre invece rimangono confinate in laboratorio vuoi perchè ancora “ acerbe”, vuoi perchè, seppure interessanti, non raggiungono risultati tanto completi da diventare una ricetta.
Tra i laboratori più noti abbiamo quello di Heston Blumenthal, del ristorante Fat Duck di Berkshire (Inghilterra) e Ferran Adrìa famosissimo chef del El Bulli, ristorante catalano. Negli USA il profeta dei food lab è David Chang che ha una catena di ristoranti, Momofuku Group, con cui finanzia un laboratorio dove collaborano coi giovani aspiranti cuochi anche microbiologi, ingegneri e altri scienziati del MIT, di Harvard e di Yale. La filosofia enunciata dal direttore Ryan Miller è quella di mettere in contatto e interazione l’approccio tipico dei cuochi, visivo, olfattivo, tattile, con quello concettuale e astratto dai cinque sensi, proprio degli scienziati.
Ma facciamo alcuni esempi di quel che esce da questi laboratori: coscia di cervo “mummificata” ricoperta di cera d’api, pancake di grano saraceno con locuste del deserto, radice di liquirizia coperta con miele al legno di ginepro, decorata con erbe, semi, noci, frutta e due tipi di formiche. La mummificazione di un cosciotto di cervo serve per verificare se il suo sapore possa egugliare quello del prosciutto di Parma, oppure si macera una cavalletta per ottenere una variante del garum una salsa al pesce d’epoca romana, anche: si monta il sangue di maiale per ottenere un facsimile d’albume sbattuto per produrre un gelato “al cioccolato” – il sangue di maiale cuocendo assume la stessa tonalità marrone – e va detto che qualcosa di simile fanno i contadini quando si uccide il maiale in Emilia e in Abruzzo, e infatti viene chiamato “cioccolato di maiale” o “sanguinaccio”, dolce se fatto col cioccolato aromatizzato al sangue.
Uno dei filoni di ricerca sviluppati in molti food lab attiene la cucina degli insetti. Il Nordic Food Lab di Copenhagen, creato da Rene Redzepi, sotto la direzione di Michael Bom Frost, docente di scienze sensoriali all’università, è oggi quasi completamente focalizzato sugli insetti. All’inizio la missione del laboratorio era semplicemente quella di “identificare e esplorare la scienza del gusto”, mentre ora suona come “esplorare il gusto come argomento in favore dell’entomofagia”. Il fatto è che gli insetti vengono considerati la riserva maggiore – parliamo di miliardi di miliardi di individui a altissima capacità riproduttiva – del pianeta per quanto attiene le virtù proteiche, e quindi pesano rispetto al problema di sfamare una umanità sempre più numerosa. Le larve d’ape per esempio sono costituite al 50% di proteine, al 20% di grassi mono e polinsaturi con molte virtù nutritive e per il resto di vitamine e minerali, insomma una sorta di manna dal cielo.
Col che gli insetti serviti a tavola come le tagliatelle sono cosa forse futuribile, non certo dell’oggi, seppure ormai possano essere consumati in molti ristoranti alla moda frequentati dall’elite globalizzata, l’1% di cui parla l’economista Thomas Piketty. Però in tempi medio brevi potranno diventare la materia prima dei mangimi animali, per esempio una dieta d’insetti è adatta a polli e galline che già li becchettano, assai più degli attuali mangimi a base di farine di pesce.
Per finire questa assai esigua rassegna dei food lab, che ormai fanno capolino anche in Italia e destinati a essere incrementati dall’expo di Milano, ancora tre cose.
La prima attiene i giovani che fanno a gara per essere assunti, in genere come stagisti. Si tratta quasi sempre di laureati, se non dottori di ricerca, in materie scientifiche, biomedicina, scienza della nutrizione, chimica, biologia, scienze della percezione, neuroscienze e scienze cognitive, veterinaria, agraria, geografia, ingegneria, design, non mancando qualche fisico e matematico, oltrechè tutti portando in tasca un diploma, in genere universitario, da cuoco.
La seconda ha a che vedere col rapporto tra teoria e pratica. Questi laboratori che vivono a fianco delle cucine e sono ispirati dagli chef, a volte i migliori del mondo, hanno la possibilità di vedere in molti casi la loro scoperta e sperimentazione diventare un piatto e/o una ricetta, potendo immediatamente misurarne l’impatto sul pubblico, vorrei dire: l’impatto sociale.
La terza è un aneddotto raccontato da Kummer riguardante Ben Reade, uno dei profeti dell’ entomofagia che gira il mondo dall’Uganda al deserto australiano, senza dimenticare la Sardegna, l’Olanda, il Messico, il Perù ecc filmando cavallette, coleotteri, formiche, api, grilli e quant’altro possa diventare cibo per gli umani. Ebbene Reade “dopo una giornata trascorsa a controllare le muffe di Aspergillae e i cosciotti di cervo mummificati, lo posso vedere mentre sta tritando, in punta di coltello, le interiora di pecora: cuore, polmone, stomaco, fegato, rene, lingua e grasso di rognone, mescolando poi il battuto con avena, erbe di campo e una buona dose di whisky, farcendone lo stomaco, così enorme da richiedere un sollevatore per venire messo in pentola.”
L’haggis, questo piatto nazionale scozzese celebrato in un poema del 1787 e assurto a simbolo della volontà d’indipendenza, Reade lo ha presentato anche al MAD, la fiera annuale del cibo che si tiene a Copenhagen, portandosi la materia prima essenziale – il rumine – da casa, la natia Scozia. A questo punto possiamo considerare l’altro corno della scienza del cibo ovvero come far fronte all’aumento demografico e al consumo di suolo sottratto alle coltivazioni, alla biodiversità, alle foreste, per effetto congiunto e cumulativo della cementificazione urbana e della probabile desertificazione a causa del cambiamento climatico. Già Fuschini nel suo libro se ne occupa in modo esteso e preciso, noi qui soltanto vogliamo sottolineare un aspetto, la dimensione urbana del problema. In città e/o nei sistemi urbani ormai vive oltre la metà degli umani, cioè più di tre miliardi e mezzo di persone, e le previsioni dicono che saranno cinque nel 2040.
Non è pensabile che questa enorme massa di individui urbanizzati venga nutrita per così dire soltanto dall’esterno. Una razionale politica di sostentamento deve prevedere forme di coltivazione, allevamento, produzione di cibo urbane e/o periurbane. Il paradigma della convivenza civile – la convivenza della civitas, la cittadinanza – deve arricchirsi di un contratto sociale e con la natura che preveda aree più o meno vaste dedicate all’ortocoltura, al pascolo, alla drastica riduzione dello spreco e al riciclaggio del cibo avanzato. Né possiamo dimenticare l’itticoltura per le città rivierasche e d’acqua, destinate a crescere di numero a causa dell’effetto serra che induce un aumento per il livello dei mari. In altro linguaggio, la città deve diventare un ecosistema aperto integrato nella natura, e che integra la natura. Per i metalli preziosi e rari, alluminio, indio ecc. le città sono già riserve minerarie che con il riciclo possono fornire quantità non indifferenti di materiale. Tanto per dirne una, si stima che entro il 2020 le città saranno la principale fonte di nuovo alluminio.
Lo stesso può accadere per il cibo. Per esempio attualmente il 30% del cibo consumato a Kampala, capitale dell’Ugandaa, è prodotto all’interno dell’area metropolitana. Lo stesso sta avvenendo a Londra, a Marsiglia, in alcune isole della laguna veneziana, nel proliferare dei cosidetti orti verticali sui balconi di Bologna e Milano, che per di più raccolgono e riciclano l’acqua piovana in recipienti posti in basso. Certo questo movimento di creazione e consumo del cibo di prossimità urbana dovrà fare i conti colla speculazione edilizia e tutti gli altri fenomeni che incentivano la cementificazione, cionondimeno si tratta di una possibilità realistica, direi necessaria alla sopravvivenza della civiltà urbana. In fine forse il problema più grande, gigantesco, la penuria d’acqua per cui si combattono già oggi guerre sanguinosissime. Si pensi che il costo stimato per la produzione di acqua potabile per tutti mediante la desalinazzazione è di circa 19.000 miliardi di dollari, pari al 30% del PIL mondiale annuo. Un pensiero di Claude Lévi-Strauss a chiosa finale: la città, per la sua genesi e la sua forma, risulta contemporaneamente della procreazione biologica, dell’evoluzione organica e della creazione estetica. Teniamone conto.
Category: Cibi e tradizioni, Osservatorio internazionale