Attilio Andreini, Maurizio Scarpari: Laozi. La filosofia del disfare che viene dalla Cina

| 10 Ottobre 2021 | Comments (0)

 

 

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Laozi. La filosofia del disfare che viene dalla Cina

Pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera del 10 ottobre 2021

Compilato in Cina intorno al IV secolo a.C., il Laozi (noto anche come Daodejing, Classico o Canone della Via e della Virtù) raccoglie la sfida di accostarsi a ciò che si sottrae al potere delle parole, per misurarsi con il tentativo di sospingere il linguaggio alla deriva, imbastendo un discorso filosofico su ciò di cui nulla può esser detto, irrispettoso delle convenzioni linguistiche e delle limitazioni imposte da coerenza logica e linearità argomentativa. Nelle varie epoche, innumerevoli esegeti si sono riproposti di trovare nuove chiavi di lettura che ne agevolassero la comprensione. La recente scoperta di alcuni manoscritti su seta, risalenti al 200 circa a.C., e su listarelle di bambù, risalenti al 300 circa a.C., ha rivelato importanti aspetti relativi alla sua genesi e alla sua natura.

Dal Laozi emerge anche un’impronta mistica pronunciata, che riflette i dettami di alcune comunità di adepti dedite a pratiche meditative e di auto-coltivazione tese al conseguimento dell’unità con l’Assoluto. Tuttavia quest’opera travalica la dimensione filosofico-religiosa, essendo il Laozi attraversato d’acume etico-politico e da spunti che toccano persino risvolti strategico-militari. Siamo infatti di fronte a un testo tutt’altro che lineare nel suo argomentare e la sua natura proteiforme ha ispirato movimenti di varia estrazione, i quali hanno dato vita a letture originali e conflittuali, incuranti spesso del contesto culturale dal quale l’opera è gradualmente sorta. Ciò non deve stupire, poiché questo è il destino di un classico, di una “scrittura canonica” (jing): far parlare di sé e aprire di continuo prospettive che stimolino riflessioni e suggestioni a chiunque vi si accosti.

È di questi giorni la pubblicazione di una nuova traduzione, a cura di Luigi Maggio (Daodejing, Bompiani), che propone una lettura del Laozi in chiave mistico-iniziatica, evidenziandone la forte valenza religiosa e la tensione costante verso pratiche di auto-coltivazione interiore. In Italia disponevamo già di due traduzioni abbastanza recenti, curate da Attilio Andreini. La prima (Laozi. Genesi del Daodejing 2004) è un’indagine filologica volta a far luce sulla genesi del testo e si basa essenzialmente sui manoscritti di recente scoperta. La seconda (Laozi Daodejing. Il Canone della Via e della Virtù 2018) offre invece una lectio più tradizionale, più “concreta” e “laica” nei suoi intenti speculativi. Con la sua traduzione Maggio colma dunque un vuoto, fornendo al lettore italiano un’ulteriore prospettiva di lettura di un’opera che ha fortemente contribuito a plasmare il pensiero filosofico e religioso cinese per oltre due millenni.

La rilevanza storica e dottrinale del Laozi è stata ed è tutt’ora notevole, risiedendo la sua vera peculiarità nel senso di mistero e di apparente precarietà che lo pervade. Fin dall’incipit il testo segnala la natura arbitraria e infida della parola, incapace di descrivere compiutamente la realtà e di rappresentare la natura evanescente dell’Assoluto, il principio che regge il cosmo intero, simulacro di un oltre sfuggente, che per definizione è senza-nome, impalpabile. Ineffabilità pura. Il linguaggio non è in grado di afferrarne la profonda natura, più che agevolare ostacola la possibilità di rappresentarlo, poiché è nelle parole che si materializzano l’arbitrio e la parzialità dell’esperienza umana. Ciò nondimeno lo si nomina “Dao”. Attraverso il paradosso e l’iperbole il Laozi scardina ogni simmetria logica e compie un rivolgimento dei valori, al punto che il senso di straniamento che ne deriva diventa funzionale a mettere in dubbio i criteri di giudizio in cui confidiamo. Solo un’esperienza di totale abbandono consente di contemplare la possanza (de) del Dao al di là della sua mancata manifestazione fisica.

Nell’universo laoziano ogni realtà è in sé duplice, triplice, plurima e, nondimeno, unica, ed è qui che le opposizioni si fanno stridenti e ogni cosa si traduce nel proprio contrario, poiché la comprensione impone l’accettazione piena della logica dell’inversione, del ribaltamento dei valori. Si dovrebbe tacere su ciò di cui non si può parlare, per dirla con Ludwig Wittgenstein, piuttosto che azzardare e rappresentare questa coincidentia oppositorum che marca l’incessante decorso degli eventi caratterizzanti la realtà. La parola lambisce appena il sommo principio immanente che fa sì che quel che è sia tale e quel che non è non sia ancora.

Ricorrente è l’esortazione ad accettare pienamente la realtà “così-come-è” (ziran), libera e incondizionata, dispiegandosi i processi cosmici secondo logiche non umane, ragion per cui ogni pretesa di rappresentazione del mondo e ogni ambizione di correggerlo si rivelano inutili, rendendo palese l’infondatezza ontologica delle norme sociali. Colui che è saggio non aspira alla crescita e all’avanzamento, ma a regredire allo stadio di infante, non desidera, né parla e, soprattutto, non si adopera (wuwei), perché sa che altrimenti finirebbe per affermare se stesso in opposizione al Dao. L’intervento e l’azione (wei) tendono così alla sottrazione, non all’accumulo, più che “fare” è preferibile “dis-fare”. L’azione deliberata e invasiva è solo un ostacolo nel processo di adesione al Dao. Rinnegando il profitto miope dato dall’affermazione di sé, il Laozi esalta l’esperienza di condivisione della forza o possanza arcana che discende dall’agire in piena conformità con il Dao.

Poche altre opere letterarie hanno saputo sfidare il limite della rappresentabilità di ciò che è irrappresentabile, e il Laozi lo fa ricorrendo a un lirismo-filosofico asciutto, una sorta di “poesia sapienziale” in grado di evocare i più remoti misteri del cosmo e dell’animo umano, rifuggendo la sistematicità di una logica consequenziale mirante a obiettivi definiti. Invocando la sospensione della parola, l’opera è animata da una tensione vibrante e asintotica che induce il lettore ad abbandonarsi all’indicibile che tutto pervade, non potendo il linguaggio mirare al disvelamento della verità può solo contribuire a mettere a nudo l’ipocrisia di ogni pretesa di verità. E non è poco.

Category: Culture e Religioni, Libri e librerie, Osservatorio Cina, Osservatorio internazionale, Ricerca e Innovazione, Storia della scienza e filosofia

About Attilio Andreini: Attilio Andreini è professore ordinario di Lingua cinese classica all'Università Ca Foscari di Venezia. Si occupa di filologia, paleografia e trasmissione del sapere nella Cina antica. Tra le sue pubblicazioni: Il pensiero di Yang Zhu (IV secolo a.C.) attraverso un esame delle fonti cinesi classiche, Trieste, 2000; Laozi. Genesi del Daodejing, Torino 2004; Il daoismo, Bologna, 2007 (con M. Scarpari); Sun Tzu. L'arte della guerra, Torino, 2011 (con M. Biondi); Laozi Daodejing. Il Canone della Via e della Virtù, Torino, 2018; Grammatica della lingua cinese classica, Milano, 2020 (con M. Scarpari).

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