Aram I: Gli armeni non vennero sterminati perché erano cristiani

| 15 Aprile 2015 | Comments (0)

Diffondiamo da www.relegioniperlapaceitalia.org del 15 aprile 2015

Il Catholicos armeno apostolico: la presenza del popolo armeno ostacolava il progetto ideologico dei Giovani Turchi. Per questo fu pianificato il genocidio. Mistifica la realtà chi nelle polemiche di oggi tira in ballo l’armamentario dello scontro religioso islam-cristianesimo.
Intervista  di Gianni Valente Roma (Vatican Insider)

 

Neanche Dio – dicevano i filosofi greci – può disfare il passato. E la reazione della Turchia davanti alle parole di papa Francesco sul genocidio degli armeni tradisce proprio il tentativo di occultare e cancellare uno sterminio pianificato di cui esistono prove documentarie inoppugnabili. Così ripete a Vatican Insider il Catholicos armeno apostolico Aram I, Catholicos armeno della Grande Casa di Cilicia, mentre continuano le bordate turche contro le frasi pronunciate dal Vescovo di Roma durante la liturgia di domenica scorsa. Per il Capo del Catholicosato della Grande Casa di Cilicia, che ha partecipato alla cerimonia nella basilica di san Pietro, questo è il tempo in cui i cristiani occidentali sono chiamati a manifestare «in una maniera più concreta e tangibile» la loro vicinanza ai cristiani del Medio Oriente. Ma – aggiunge Aram I – «non sto affatto dicendo che occorre indire nuove Crociate. Noi siamo contro questo».

 

Santità, la Turchia ha reagito con virulenza alle parole del Papa sul genocidio armeno. C’è qualcosa di legittimo, in questa reazione?
«La dinamica della reazione non è mai buona, e non conduce mai le persone sulla via di una soluzione positiva dei problemi. Se la Turchia vuole affrontare seriamente la questione del genocidio armeno, deve mettere da parte la reattività e prendere l’iniziativa. Presto o tardi, dovrà riconciliarsi con la propria storia. E se ciò accade, ci sarà anche la riconciliazione con il popolo armeno. Perché ci possono essere interpretazioni e approfondimenti su tante singole vicende. Ma il genocidio armeno non e una fiction. È storia, e nessuno può cambiare o negare la storia».
La Turchia dice: non si può usare la parola genocidio, che è spuntata nel linguaggio giuridico internazionale solo nel 1948.
«Del genocidio armeno ci sono prove immani. Ci sono i documenti, i riscontri, le attestazioni dei testimoni oculari, i resoconti dei diplomatici del tempo. E le indagini di schiere degli storici, in larga maggioranza non armeni. Tutti dicono la stessa cosa: fu vero genocidio. E certo, si capisce, non è una questione di parole, di formule. L’importante è l’intenzione. E l’intenzione fu genocidaria. Volevano sterminare il popolo armeno, cancellare dalla storia e anche dalle mappe tutto ciò che era armeno. La diaspora armena è enorme. Nella nazione che si chiama Armenia oggi ci sono meno di 3 milioni di abitanti, mentre altri 8 milioni di armeni vivono altrove. Chi ha creato questa diaspora? Non abbiamo scelto noi di diventare diaspora. Anche la diaspora armena è in sé una attestazione di quello che fu un genocidio nel senso reale e anche giuridico della parola».
Anche le reazioni turche ricorrono all’armamentario dello scontro religioso cristianesimo-islam. Dicono che il Papa ha fatto discriminazioni, parlando solo delle sofferenze degli armeni cristiani, ignorando quelle dei turchi musulmani.
«Io credo che cercano, in maniera deliberata, di inserire la questione in una cornice erronea, discutibile e pericolosa. Quello che accadde agli armeni, nel genocidio, non fu pianificato perché gli armeni erano cristiani. A provocarlo era l’ideologia panturca, il panturanismo che ispirava le strategie politiche e i piani dei Giovani Turchi. E gli armeni erano l’ostacolo più grande per realizzare quel progetto tutto centrato sulla affermazione nazionalista della etnicità turca. La loro semplice presenza degli armeni era un ostacolo per questo progetto. Per questo pianificarono il genocidio. Il fattore religioso al massimo servì come strumento dell’ideologia. E anche ora fanno lo stesso: stanno usando la religione, cercando di sobillare l’attuale ipersensibilità nei rapporti tra islam e cristianesimo. E questo è inaccettabile».
ll Medio Oriente è insanguinato da conflitti settari. Voi che ci vivete, avete capito cosa sta succedendo davvero?
«Ci sono tanti fattori che hanno portato alla situazione in cui ci troviamo. C’è il conflitto tra sciiti e sunniti. Poi, ci sono tante nazioni guidate da regimi dittatoriali, e la gente è stanca di vivere sotto questi regimi oppressivi. In molti paesi ci sono problemi economici tremendi, con piccole minoranze molto ricche circondate da masse di miserabili, e questo crea tensioni tra chi ha troppo e chi non ha niente».
E poi ci sono i flussi di armi e di denaro, come dice papa Francesco.
«Certo! Questa gente si ammazza con le armi. Chi gliele ha date? Loro rispondono: le abbiamo comprate… e allora, chi vi ha dato i soldi? In questo contesto, spesso quelli che ci rimettono di più sono i cristiani, pochi e inermi. Ma noi continuiamo a essere parte integrante e inseparabile delle società mediorientali. Alcuni cristiani sono andati via, ma altri rimangono. E le Chiese condividono la scelta di chiedere ai cristiani di rimanere. Il cristianesimo non può essere presentato da nessuno come un elemento straniero in paesi in cui viviamo da sempre».
Cosa può aiutare i cristiani a passare questo tempo di prova?
«Incontrando i tanti problemi e i bisogni dei nostri popoli, ci si accorge che molte urgenze sono semplicemente al di là di quello che può fare la Chiesa. Dobbiamo essere realisti. Non ce la facciamo a risolvere noi tutti i problemi. Quindi, l’approccio possibile e necessario è un approccio pastorale. Accompagnare il nostro popolo, provare a stare con loro, aiutarli a stare insieme dentro i problemi in cui sono immersi. D’altra parte, in questo momento la solidarietà dei nostri fratelli e sorelle cristiani sparsi in Occidente e in tutto il mondo è molto importante. È tempo che le Chiese in Occidente esprimano in una maniera più concreta e tangibile la loro vicinanza ai cristiani del Medio Oriente».
C’è chi in nome della difesa dei cristiani teorizza e giustifica anche possibili interventi militari.
«Non sto affatto dicendo che occorre indire nuove Crociate. Noi siamo contro questo. Occorre trovare strade cristiane per esprimere la vicinanza ai cristiani del Medio Oriente. Dobbiamo evitare i due estremi. L’estremo di quelli che si agitano e dicono che bisogna fare qualcosa e andare in Medio Oriente per proteggere i cristiani. E l’estremo opposto, dell’immobilismo che diventa indifferenza. Tutti devono vedere che i cristiani nel Medio Oriente non sono lasciati soli. Che sono parte di una sola Chiesa di Cristo, fanno parte dell’unico Corpo di Cristo. E questo messaggio deve essere mandato anche alle leadership politiche e religiose del Medio Oriente, anche da leader politici e religiosi dell’Occidente. Non si tratta di fare pressioni o usare linguaggi di minaccia. Si tratta piuttosto di dire: noi siamo fratelli, viviamo in parti diverse del mondo, ma apparteniamo gli uni agli altri, e siamo cari gli uni agli altri. Perché apparteniamo tutti a Cristo. Questo senso di comunione può essere espresso in modi diversi. È quello che sta facendo il Papa».
E a livello più strettamente politico, cosa devono fare le potenze regionali e globali?
«Se le potenze occidentali vogliono essere serie riguardo al Medio Oriente devono aiutare i popoli e le leadership politiche e religiose a impegnarsi in processi di costruzione nazionale. E a tale riguardo devono ripetere loro che ogni cittadino, cristiano o musulmano, è uguale davanti alla legge e ha gli stessi diritti e responsabilità».
Papa Francesco ha parlato più volte di ecumenismo del sangue. Ma intanto i cristiani anche in Medio Oriente rimangono divisi. Quali ostacoli impediscono la piena comunione anche sacramentale tra chi condivide la stessa fede?
«L’unità dei cristiani è per noi una meta a cui tendere in maniera irrinunciabile. Siamo coinvolti in un dialogo teologico intorno ai temi controversi che nel passato hanno provocato la divisione, per verificare se attraverso un processo si può giungere a una convergenza. E poi c’è il livello della vita quotidiana. Ci sono tanti campi e tante questioni anche serie in cui le Chiese possono operare insieme già ora, e possono già esprimere la loro unità».
Qualche esempio?
«Ho proposto al Papa che può essere una buona idea fissare una data comune per celebrare i martiri cristiani. Il giorno di tutti i martiri, come celebriamo il giorno di tutti i santi. E poi, trovare ogni anno una data comune per celebrare la Pasqua, e porre fine alla celebrazione separata tra le Chiese che seguono il calendario giuliano e quello gregoriano. La Chiesa armena è una Chiesa flessibile, aperta, ecumenica. Che davvero desidera l’unità visibile delle Chiese».
Il Papa come può dare un contributo su questo?
«Mi piace molto lo stile che papa Francesco ha dato al suo ministero pontificio. Quando l’ho incontrato la prima volta, lo scorso anno, ho detto che per molti aspetti le nostre Chiese, le Chiese più antiche, e particolarmente le Chiese cattoliche e ortodosse, si sono molto istituzionalizzate. E l’istituzione finisce per tenere la Chiesa entro confini congelati. Ma la Chiesa è essenzialmente la comunità che prega e confessa la fede in Cristo. Per questo sono molto confortato da ciò che papa Francesco ha iniziato a fare. E credo fermamente che questa è la nostra responsabilità comune. Il titolo di un mio libro è “For a Church beyond its Walls”, “Una Chiesa che esce fuori dalle sue mura”. E questo potrà favorire un tipo di ecumenismo centrato sul popolo di Dio, e orientato al popolo di Dio. L’ecumenismo a cui si siamo abituati è fatto da istituzioni, comitati, programmi gestiti da persone selezionate. Io credo che noi dobbiamo sviluppare nuovi modelli e stili di ecumenismo, con metodologie che aiutino l’ecumenismo a essere affidabile e incisivo. Credo che su questo dovremmo lavorare tutti insieme, compresi i cristiani protestanti».
Lei vive in Libano. Un paese che finora non è stato risucchiato dalle convulsioni in atto nella regione.
«Il Libano è un paese di comunità. Ci sono 18 comunità religiose ed etniche. Ci sono divisioni tra partiti, orientamenti politici… Quando in una famiglia ci sono tanti figli questo può anche comportare dei problemi… Noi siamo come una famiglia con 18 figli. Ma tutti i figli sanno che appartengono a una sola famiglia. E questa famiglia si chiama Libano».

 

Category: Culture e Religioni, Osservatorio internazionale

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