Amina Crisma: Cina e retorica della “perenne armonia”
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“Pensare è operare distinzioni” e “occorre giudicare in base ai fatti, non alle parole” erano due – tutt’altro che criptiche o esotiche – convinzioni di un grande maestro confuciano del III secolo a.C., Xunzi, che forse varrebbe la pena di tenere in qualche considerazione, nella loro prosaicità, in questa fase in cui da più parti provengono vibranti esortazioni a “cercare di pensare con le categorie cinesi, e non con le nostre”. Questi inviti sono senz’altro fertili stimoli a ripensare e a ripensarsi, criticamente e autocriticamente, anche perché occorrerebbe davvero prendere finalmente coscienza che “la Cina è già qui”, come recita il suggestivo titolo del recentissimo libro di Giada Messetti (ne ha parlato su Inchiestaonline Maurizio Scarpari qualche giorno fa).[1]
Ma come vengono effettivamente a realizzarsi, nel dibattito pubblico, tali esortazioni? Spesso, si traducono in una inerte riproposizione di triti luoghi comuni, pervicacemente resistenti a ogni tentativo di scalfirli o revocarli in dubbio, secondo i quali, ad esempio, la Cina sarebbe per definizione e per sua intrinseca natura “armoniosa”, “stabile”, “pacifica”, come se guerre, conflitti, violenze, massacri, volontà di potenza non fossero parte integrante della sua storia, proprio come è accaduto e accade altrove, ovunque sotto il cielo, in quest’aiuola che ci fa tanto feroci, per riprendere una pregnante espressione dantesca.[2] Certo, armonia, pace e stabilità sono sempre state e sono grandi aspirazioni, fin dall’epoca degli Stati Combattenti, fra il V e il III secolo a.C., periodo in cui sorgono le grandi scuole di pensiero, che si ispirano a tali nobili ideali: ma la misura effettiva della loro concretizzazione è stata alquanto diversificata e mutevole nel corso della storia, che ha visto momenti di grande espansione, alternando fasi di ordine e fasi di selvaggio e sanguinoso disordine, fasi di unità e fasi di disgregazione, e che ha conosciuto anche dopo la fondazione della Repubblica Popolare eventi cruenti, quali l’invasione del Tibet e la repressione del movimento degli studenti a Tian Anmen. Tutto ciò sparisce dall’idilliaca, astorica e retorica rappresentazione predominante, al cui centro sta invariabilmente una Cina univoca, rappresentata come un compatto monolite, come un esotico pianeta alieno le cui dinamiche e le cui logiche sarebbero totalmente estranee a quelle del resto dell’umanità (ne offre un buon esempio, fra gli innumerevoli che si potrebbero addure, Omnibus della Sette del 26 aprile).
Intendiamoci: sono ovviamente innegabili le peculiarità dell’orizzonte di linguaggio e di pensiero, delle vicende, delle istituzioni, dell’esprit de moeurs e quant’altro vi piaccia aggiungere sulla Cina; c’è una corposa e irriducibile differenza che abbisogna di un cospicuo sforzo per accostarvisi. Ma di qui a fare di questa diversità una estraneità incommensurabile ce ne corre, come ben ricordava vent’anni fa da par suo Paul Ricoeur in un memorabile confronto con François Jullien a proposito del programma di quest’ultimo di “penser chinois…en français”, rammentando che anche fra le lingue e gli orizzonti più distanti c’è comunque comunicazione, insomma si dà traductibilité (il che, ovviamente, non significa ipso facto piena comprensione, e non esclude il rischio di fraintendimenti: ma questi non avvengono forse, e anzi molto spesso, con persone di cui condividiamo l’idioma, il parlar materno?).[3]
Ecco, sommessamente proporrei, come metodo di riflessione e di discorso, di uscire dalle grandiose generalizzazioni astratte sulla Cina con pretese di esaustività onnicomprensiva, e di restituire visibilità alla concreta situatezza e delimitazione della prospettiva e del punto di vista dei singoli osservatori. Non c’è ovviamente nessuno che possa pretendere di rappresentare la totalità di quell’universo, per quanto ampia possa essere la sua esperienza, e nessuno di noi parla da nessun luogo; siamo tutti inevitabilmente situati e localizzati, non solo nella nostra lingua e cultura, ma anche nella singolarità delle nostre esperienze, e altrettanto lo sono i nostri interlocutori. Questa situatezza pertiene ineludibilmente alla nostra umana finitudine, e se ce ne rendiamo coscienti anziché avere la presunzione di esserne immuni essa, lungi dall’impedire la nostra consapevole apertura all’incontro, la può invece favorire, inducendoci a quel senso confuciano della misura e del ritegno che ispira tante magistrali e sottilmente ironiche pagine di Anne Cheng, l’autrice della Histoire de la pensée chinoise, studiosa partecipe di una duplice cultura.[4] E in proposito, piuttosto che immaginare ambiziose prospettive di délocalisation de la pensée, ossia di spaesamento del pensiero come fa Jullien, preferisco far riferimento a quella che mi pare la senz’altro più modesta, ma a mio avviso più plausibile prospettiva di un etnocentrismo critico, di cui parlava anni fa Giovanni Jervis (Contro il relativismo), sulle orme di Ernesto De Martino.[5]
Sono convinta che, come da anni per parte nostra, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di fare sull’Osservatorio Cina di Inchiesta, occorra restituire visibilità ai soggetti concreti e plurali che in quell’orizzonte sono presenti.[6] Certo, c’è una Grande Narrazione ufficiale che si fa sempre più assertiva e stentorea,[7] e che si pretende l’unica legittimata ad esistere, mostrando fra l’altro crescente insofferenza per la libertà di ricerca al di fuori della Cina, come la vicenda delle sanzioni irrogate dalla RPC contro parlamentari e ricercatori della UE ci ha rivelato:[8] ma proprio per questo è più che mai necessario prestare ascolto a voci diverse, che non sono meno cinesi di quelle dell’attuale leadership della RPC, dai ragazzi di Hong Kong di cui viene soppresso ogni spazio di autonomia ai cittadini di Taiwan a cui sempre più spesso accade, sul suolo europeo e dentro istituzioni europee, di vedersi invitati a cancellare il nome stesso della loro patria (come se l’annessione alla Cina continentale fosse già avvenuta…), agli intellettuali che il 26 febbraio hanno sottoscritto un manifesto per la pace e di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina prontamente oscurato dalle autorità, che evidentemente preferiscono dar fiato sulla rete al clamore bellicista pro Putin.[9]
Anche questi sono cinesi, interpreti della grande tradizione intellettuale del loro paese, come era cinese Li Zehou (1930-2021), uno dei pensatori più significativi dell’epoca post-maoista scomparso qualche mese fa, nella cui originale elaborazione di un largo e inclusivo umanesimo si facevano incontrare Confucio e Marx, e molte altre suggestioni, incluse quelle di Kant e del nostro Benedetto Croce.[10] Nonostante tutti i pregiudizi correnti sulla presunta reciproca estraneità e impenetrabilità delle Culture, è da un sacco di tempo e attraverso sentieri innumerevoli che Cina e Occidente si sono dialetticamente incontrati e incrociati (e nell’Italia che ha dato i natali a Matteo Ricci lo si dovrebbe forse sapere più e meglio che altrove).
Credo potremo dire che la nostra cultura comincerà davvero ad accostarsi alla multiversa realtà del mondo cinese quando imparerà a chiamare per nome le persone, le individualità concrete che vi dimorano, e allora riannodando, rielaborando ed espandendo i fili di tanti incontri e percorsi forse potrà finalmente progettare un orizzonte transculturale che non si traduca in apologetica della nuova superpotenza emergente e in ammirazione del suo crescente autoritarismo, ma che si riallacci a quelle radicali istanze di umanità e di giustizia (仁義 rényì) trasmesse dalle sue grandi tradizioni spirituali.
[1] M. Scarpari, “Cina, la Grande Assente”, www.inchiestaonline.it 21 aprile 2022.
[2] A. Crisma, “Quale ruolo per la centralità della Cina nello spazio pubblico? Proposte, esperienze, fragore di silenzi e clamore di Grandi Narrazioni”, Sinosfere 14 marzo 2021 www.sinosfere.com
[3] A. Crisma, “Pensare la Cina in un orizzonte interculturale: prossimità e distanza di un Altrove”, in G. Paqualotto (a cura di), Per una filosofia interculturale,Mimesis 2008, 79-112; Ead., “Sinologia e filosofia, confronto con la Cina e riflessione interculturale”, in E. Magno, M. Ghilardi (a cura di), La filosofia e l’Altrove,Mimesis 2016, 189-206; Ead., “Come si pensa la Cina? La dimensione storica contro i comparatismi astratti”, www.inchiestaonline.it 20 ottobre 2014.
[4] A. Cheng, La Chine pense-t-elle? Collège de France/Fayard 2009; Ead., Storia del pensiero cinese, trad. di A. Crisma, Einaudi 2000.
[5] G. Jervis, Contro il relativismo, Laterza 2005.
[6] A. Crisma, “La Cina su Inchiesta”, Inchiesta 50/210, ottobre/dicembre 2020, 75-81 (anche in www.inchiestaonline.it )
[7] A. Crisma, “Ritorno a Confucio e Grandi Narrazioni: il controverso ruolo della storia nella Cina d’oggi”, Paradoxa, XIV, 4, ottobre/dicembre 2020, 83-98.
[8] A. Crisma, M. Scarpari, V. Capecchi, Per la libertà di ricerca: solidarietà agli studiosi colpiti dalle sanzioni del governo cinese” www.inchiestaonline.it 7 aprile 2021
[9] A. Crisma, M. Scarpari, V. Capecchi, “Ucraina, cosa fa la Cina? Manifesto cinese (subito oscurato) contro la guerra, www.inchiestaonline.it 1 marzo 2022
[10] Li Zehou, La via della bellezza. Per una storia della cultura estetica cinese, trad. di A. Crisma, Einaudi 2004.
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