Alberto Bradanini: L’ Afganistan, un paese martoriato tra Oriente e Occidente

| 13 Ottobre 2021 | Comments (0)

 

 

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Le informazioni che giungono quotidianamente alla nostra attenzione su questo martoriato paese sono frammentate, spesso filtrate o manipolate. In un mondo ormai orwelliano le parole hanno perso il loro significato proprio. Pace, progresso e libertà si usano per descrivere guerra, distruzione e schiavitù. Occorre muoversi in punta di piedi. Oggi la conoscenza è ritenuta una facile acquisizione, mentre a uno sguardo attento non può sfuggire che siamo sudditi del regno della manipolazione, i cui pilastri sono costituiti da flash televisivi, articoli sotto dettatura, social network dominanti, inviati improvvisati. Davanti a una narrativa di segno unico, solo una minoranza tenta di uscire dal labirinto visitando biblioteche, librerie o qualche sito politicamente scorretto, sfidando il tedio ancor prima dell’inattendibilità.

Le distorsioni semantiche assumono poi un aspetto ancor più tragico quando si ha a che fare con universi lontani e ignoti come l’Afganistan, di cui ormai parla con dovizia di particolari persino il droghiere sotto casa. Su temi di politica estera, la Grande Menzogna è universale e sistematica. Giornali e tv dei paesi occidentali attingono le notizie di base (o il silenzio su alcuni eventi, secondo convenienza) da tre agenzie di stampa, Reuters, AP (Associated Press), AFP (Agence France Presse), tutte con base finanziaria e proprietaria a Wall Street, allineate dunque agli interessi imperiali e corporativi americani.

Nel 1848, il Manifesto di Marx ed Engels affermava che un fantasma si aggirava per l’Europa e il suo nome era comunismo. Oggi un diverso fantasma si aggira per il Vecchio Continente (e non solo), e il suo nome non è comunismo, ma più banalmente confusione/impotenza: la nave in cui siamo imbarcati sembra ingovernata e senza meta, sebbene poi così non sia, poiché una potente oligarchia la guida da remoto a tutela di privilegi infiniti, mentre i bisogni dei popoli vengono ancora una volta calpestati.

Alla luce di tale premessa, il tema Afganistan offre una diversa lettura. Il paese ha un’estensione doppia dell’Italia (652.000 kmq contro 302.000) ed è abitato da 38 milioni di persone. Nella classifica stilata dalle Nazioni Unite, in termini di reddito pro-capite occupa la posizione 209 su 213 nazioni del mondo. Solo cinque paesi (iniziando dal fondo) sono più poveri dell’Afganistan: Somalia, Burundi, Malawi, Sud Sudan e Rep. Centroafricana. Il paese, e non sembri paradosso, è anche uno dei paesi con il più basso debito pubblico (circa il 16% del suo Pil).

Se è importante comprendere le ragioni dell’improvvisa partenza degli Usa dall’Afganistan, lo è innanzitutto capire perché ci sono andati, portandosi dietro tra l’altro le colonie europee della Nato che con i problemi americani nell’area nulla avevano a che vedere (l’Italia da sola ha pagato un tributo di 54 soldati morti e 700 feriti, spendendo in totale 8,7 miliardi di euro). Secondo alcuni, eventi altrimenti incomprensibili acquistano talvolta significato con la teoria del caos, alla quale si fa ricorso per illustrare la strategia di una generale destabilizzazione di paesi e regioni senza un fine apparente. Se applicata all’Afganistan, tuttavia, tale teoria di caotico ha solo le macerie delle città bombardate, con migliaia di vittime innocenti, poiché gli obiettivi erano chiari sin dall’inizio.

All’alba del 12 settembre 2001, l’America si sveglia ferita e frastornata. Tuttavia, invece di negoziare con i talebani la possibile consegna dei sospettati, tra cui Osama Bin Laden (sul quale manca tuttora la prova che fosse davvero coinvolto), gli americani sono assetati di vendetta. Essi hanno fretta di ricordare a tutti che i padroni del mondo son sempre loro e di cogliere l’occasione per espandere la loro presa militare nella regione. È così che una nazione che solo in ipotesi aveva a che fare con l’atroce attentato di New York (15 dei terroristi erano sauditi, due emiratini, uno libanese e uno egiziano) viene occupata e devastata.

Gli Stati Uniti aggiungono di aver invaso l’Afganistan (e altri paesi della regione) per combattere il terrorismo ed esportarvi quella meraviglia di democrazia in cui vivono, alla quale tutti i popoli del mondo aspirerebbero se solo ne avessero la possibilità. Mentre in Occidente il dibattito si concentra sul costo dell’intervento (finanziario e in termini di soldati deceduti), passano in secondo piano, come si trattasse di dettagli, i lutti e le sofferenze di milioni di afgani (e di altri popoli), i quali, se sopravvissuti alle bombe, sono costretti a vivere nella precarietà e nella miseria estreme. Dietro nomi di nazioni e luoghi lontani si oblitera l’esistenza di milioni di persone come noi alle quali è stato tolto il futuro e che chissà quando potranno aspirare a un minimo di sicurezza, lavoro, protezione sociale.

Il terrorismo, poi, è un fenomeno politico e dunque con gli strumenti della politica deve essere affrontato e sconfitto. Nell’immediato, semmai, occorrono indagini d’intelligence, non certo gli eserciti, notoriamente incapaci di utilizzare il bisturi. Solo le guerre in Iraq e Siria (che tra l’altro hanno fatto sorgere l’Isis insieme alle sue atrocità) hanno causato un milione di morti e milioni di rifugiati, mentre povertà, instabilità e frammentazione sono funzionali al neocolonialismo e all’asservimento di popoli e nazioni.

Un pensiero s’impone a questo punto: qualora fossimo presi dalla tentazione di pensare di essere inutili al mondo, dovremmo riflettere su quanto segue: agli Stati Uniti sono stati necessari quattro presidenti, migliaia di vite umane (38.000 afgani, la maggioranza civili, e 2312 soldati americani deceduti, oltre a 20.000 feriti), lo sperpero di due mila miliardi di dollari e venti anni di devastazioni di infrastrutture per sostituire il governo talebano di allora con un altro governo talebano. Tuttavia, nel passaggio dalla situazione A alla situazione B, solo in apparenza simile alla prima, c’è chi ha perso e chi ha guadagnato. Hanno perso gli afgani, insieme alla speranza di una vita decorosa, mentre a guadagnare è stata l’industria americana della guerra – che oltre a produrre armi controlla media, università, entertainment e via dicendo, settori da essa ampiamente finanziati – insieme alle mire imperialiste (l’aggettivo non è di moda, ma è quello corretto) della repubblica nordamericana.

Inoltre, la mitologia che gli americani abbiano portato in Afganistan progresso e benessere, interessandosi davvero al destino del popolo afgano rivela tutta la sua fondatezza se solo si guarda allo stato nel quale hanno lasciato il paese dopo vent’anni d’occupazione. E non è certo casuale se le rivelazioni di Jullien Assange (un eroe del nostro tempo, che giace in una prigione britannica per aver rivelato le atrocità commesse dagli americani in Afganistan e altrove) sono sistematicamente ignorate dalla grande narrazione. Per confermare la totale perdita di credibilità degli Stati Uniti in tema di diritti umani basterebbe un veloce scorrere dell’elenco dei colpi di stato (e tentativi di) dal secondo dopoguerra in avanti (educativo al riguardo “Covert regime change”, Lindsay A. O’Rourke, Ed. Cornell University Press, London, 2018). Alcuni di questi sono noti anche al pubblico più distratto: Grecia, Turchia, Iran, Cile, Guatemala, Nicaragua, invasioni e guerre (Vietnam, Grenada, Panama, Baia dei Porci-Cuba, Iraq, Siria, Libia), torture (Abu Graib, Guantanamo, prigioni segrete), omicidi al drone (Soleimani), sorveglianza di amici, nemici e propri cittadini (Eduard Snowden) e via dicendo. Solo le guerre in Iraq, Libia e Siria hanno causato oltre un milione di morti e milioni di rifugiati.

Quanto ai diritti delle donne, a fronte di qualche migliaio libere di istruirsi e circolare senza velo a Kabul negli anni dell’occupazione, milioni di contadine sono vissute di stenti nel resto del paese. Si dimentica poi che negli anni ’80, quando l’Afganistan era occupato dai sovietici e le donne vivevano senza restrizioni, libere di muoversi, andare all’università e via dicendo, gli americani finanziavano e armavano islamisti radicali e talebani che di quegli stessi diritti facevano strame.

Gli eventi dell’11 settembre offrono dunque all’espansionismo americano l’occasione per fare avanzare il processo di destabilizzazione politica, sociale e umanitaria della regione – sebbene l’Afganistan non sia collocato nel Medio Oriente in senso stretto, alcune sue caratteristiche ne fanno un attore geopolitico che incide significativamente su tale quadrante – attraverso interventi armati che negli anni successivi si estenderanno a Iraq, Siria, Libia, e tramite gli amici sauditi a Bahrein e Yemen (della serie fa parte anche l’assistenza al colpo di stato di al-Sisi in Egitto e a un altro tentato in Turchia nel luglio 2016, attraverso Fethullah Gülen che vive e prospera negli Stati Uniti). Pur disponendo già di 800 basi militari in 80 paesi, il posizionamento di truppe Usa in Afganistan e la strategia del divide et impera era altresì funzionale a un’accentuata intimidazione dell’Iran, a contenere i rivali strategici, Russia e Cina, a creare altri failed states e a impedire la rinascita di quel nazionalismo arabo/mussulmano che dai tempi di Nasser costituisce il principale nemico del colonialismo Usa nella regione, perché suscettibile di difendere le risorse energetiche nazionali e di opporsi alle intimidazioni di Israele e in misura minore dell’Arabia Saudita. Ora, nel 2021, il lavoro sporco è stato portato a termine. Sono stati normalizzati o destabilizzati quasi tutti i paesi arabi/mussulmani che impensierivano Usa e alleati (ad eccezione dell’Iran, che resta nel mirino).

Pensare poi che gli Stati Uniti si siano trovati d’improvviso davanti a una partenza precipitosa sarebbe un’ingenuità. Non è immaginabile che la nazione militarmente più potente al mondo, presente in Afganistan da 20 anni e che 18 mesi prima aveva concordato con i Talebani l’uscita dal paese, sia stata colta di sorpresa. La successione degli eventi è stata invece programmata, comprese le sbavature, come l’affollamento in aeroporto o qualche attentato, mentre i Talebani stanno sostanzialmente rispettando i patti, rendendosi conto che in caso contrario verrebbero puniti con droni letali inviati dal Pakistan, che a sua volta non è in grado di opporsi: gli americani, infatti, oltre a elargire aiuti economici rilevanti a questo paese, ne controllano il dispositivo nucleare.

La seconda ragione che ha spinto la repubblica nordamericana a lasciare l’Afganistan è costituita dalla perdita di centralità geopolitica del teatro mediorientale. Oggi è la Cina a rappresentare la sfida principale all’egemonia Usa e dunque è giunto il momento di traslocare in Estremo Oriente.

Nei prossimi mesi, con la partenza delle truppe Usa e alleati, Cina e Russia, in cambio di investimenti e commercio per far crescere l’economia afgana, chiederanno al governo talebano l’impegno a controllare radicalismo e terrorismo, che rischierebbero altrimenti di travalicare oltre frontiera, rispettivamente verso il Xinjiang cinese (dove dagli anni ’90 il separatismo uiguro ha perpetrato numerosi attentati, con migliaia di vittime, tra morti e feriti) e l’Asia Centrale, tra cui alcune province della Federazione Russa. Per la Cina, l’Afganistan – con cui condivide un confine comune di settanta chilometri – è dunque un paese che ha a che fare con la sua sicurezza interna.

La Cina detterà però le sue condizioni, poiché cooperazione economica e sfruttamento delle risorse del sottosuolo hanno bisogno di pace e stabilità. Difficilmente poi Pechino si farà sedurre dall’opzione militare inviando soldati in una terra piena di insidie. La presenza cinese si limiterà a investimenti, commercio e scambi frontalieri, lasciando ai talebani l’onere della sicurezza domestica.

Alcuni osservatori anticipano che gli Usa, prima di lasciare il suolo afgano, potrebbero aver già sparso qualche seme velenoso, finanziando e armando gruppi locali contro il governo talebano e i suoi amici cinesi (e russi), confidando che l’Afghanistan mantenga anche nei confronti della Cina la reputazione di essere la tomba degli imperi (dopo esserlo stato per quello britannico nel XIX secolo, quello sovietico nel XX e quello americano nel XXI).

Pechino non ha ancora riconosciuto il nuovo governo, ma è solo questione di tempo, essendo tra i pochi paesi ad aver mantenuto aperta la propria ambasciata a Kabul. La Cina non intende interferire negli affari interni e lavora a un’ipotesi inclusiva, la formazione di un governo di talebani con altri partiti, favorendo così una maggiore moderazione nella gestione del paese, tenendo anche conto che i talebani non sono più di 70.000 in un paese di quasi 40 milioni di abitanti. Non potendo governare solo con il terrore, essi avranno bisogno di consenso, all’interno e all’esterno delle frontiere, e dunque gli spazi di compromesso non mancano, purché beninteso guerriglia e terrorismo non tornino a dominare la scena.

Una volta raggiunta la pacificazione, Pechino mira allo sviluppo di moderne infrastrutture, strade e ferrovie, che attraverso il territorio afgano le consentano di raggiungere l’Iran, ricco di gas e petrolio, di cui il gigante asiatico ha grande necessità. È già pronto il progetto per la costruzione di una strada – sinora inesistente – che dal confine afgano-cinese raggiungerà Kabul che dovrebbe poi proseguire verso la frontiera iraniana. La Cina dovrà però adoperarsi per favorire la difficile collaborazione tra l’Iran sciita e i talebani sunniti salafiti (gli hazara, popolo sciita e di lingua farsi, sono solo il 15/20 per cento della popolazione complessiva).

Non va dimenticato, infine, che il recentissimo ingresso della Repubblica Islamica nella Shanghai Cooperation Organization (settembre 2021) prelude a un’accentuata cooperazione triangolare con Cina e Russia, con benefici di risulta anche sull’Afganistan.

Le prospettive non sono dunque così funeste come vorrebbe una certa narrativa. Che gli afgani siano comunque padroni del loro destino, poiché il paese appartiene a loro. Sarà utile d’altra parte che la Comunità internazionale – da intendersi come la maggioranza delle nazioni del mondo e non solo ‘Stati Uniti e propaggini europee’ – si renda disponibile ad assistere il nuovo governo, con discrezione, su richiesta e nel massimo rispetto della sovranità afgana, promuovendo lo sviluppo di istituzioni aperte, democratiche e rispettose dei diritti di tutti, insieme a un vasto programma di ricostruzione del paese, il cui sviluppo è stato bloccato da venti anni di guerra e devastazioni pretestuose e di stampo neocoloniale.

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i diversi incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran e a Pechino. È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Category: Guerre, torture, attentati, Osservatorio Cina, Osservatorio Europa, Osservatorio internazionale, Osservatorio Stati Uniti

About Alberto Bradanini: Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Roma La Sapienza nel 1974. Entrato in carriera diplomatica nel 1975, ricopre diversi incarichi alla Farnesina e all’estero, tra cui Belgio, Venezuela, Norvegia e Nazione Unite (Direttore dell’Unicri, Istituto di ricerca delle Nazioni Unite sul crimine e la droga, dal 1998 al 2003). Si è occupato di Cina per lunghi anni, trascorrendo in quel paese dieci anni in diversi momenti, in particolare dal 1991 al 1996 quale Consigliere Commerciale presso l’Ambasciata a Pechino, quindi Console Generale d’Italia ad Hong Kong dal 1996 al 1998. Alla Farnesina ha svolto l’incarico di Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina dal 2004 al 2007, ed è stato responsabile dell’ufficio istituzionale internazionale di Enel (2007-08). Alberto Bradanini è stato quindi Ambasciatore d’Italia in Iran dall’agosto 2008 al dicembre 2012 e infine Ambasciatore d’Italia a Pechino dal 2013 al 2015. È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

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