Aldo Ridolfi: Dal saggio di Antonia Stringher su Selva di Progno un messaggio che va oltre le montagne
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La pubblicazione di un libro è sempre un “lieto evento”. Per infinite ragioni. Molte delle quali si palesano subito, ad apertura di testo, chiare ed esplicite. Altre sono meno immediatamente presenti, richiedono non tanto acume o particolari sensibilità critiche ma sforzo immaginativo.
Così è anche per il volume di Antonia Stringher, Selva di Progno Brunge, Gianni Bussinelli, 2024.
L’autrice da anni si occupa del territorio in cui è nata e in cui ha vissuto. Studiandone la parlata: il cimbro, un idioma di origine tedesca in uso in queste terre lessiniche fin dal 1300. Raccogliendone e conservandone le memorie: di uomini e di cose, di eventi e di modi di essere, di immagini e di scritti. Orientando un lavorio che è stato – ed è – quotidiano, perseverante, instancabile verso la concretezza di un volume di 340 pagine, che diventa, a partire dall’agosto del 2024, quasi la conditio sine qua non per potersi avvicinare a quella terra, a quelle montagne, a quelle persone, a quella parlata. Ciò Stringher fa oggi, nel Terzo millennio, l’epoca del tramonto della civiltà contadina: per Pasolini “una tragedia”, per Camon “la civiltà contadina è morta”. Oggi, nel momento in cui un potente colpo di spugna rischia di spazzare via tradizioni, usi, costumi, memorie, il libro di Stringher rimarrà lì a dire tutto quello che ha da dire. Perché una terra ha bisogno di essere aiutata ad esprimere se stessa.
Leggendolo, ma anche solo scorrendolo, guardandone la ricchissima iconografia, soffermandosi qua e là, si ha subito chiara l’operazione storica, geografica, antropologica – ma forse, e fondamentalmente, filosofica – che l’autrice ha compiuto: guidarci, senza dirlo, senza sbandieramenti, senza supponenza a scoprire come quello “spazio” è diventato nel corso dei secoli un “territorio”. E questa non è geografia soltanto, è filosofia: Kant, come ci ricorda spesso Franco Farinelli, “scriveva di filosofia ma insegnava geografia”!
Il territorio che ci racconta Antonia è il “suo” territorio, ma anche il nostro, di valligiani, ma anche il nostro di umani in quanto umani. Ci riconosciamo tutti nel libro di Antonia, lei ci ha restituito le contrade, i sassi del Progno, il contrabbando, le strade, i ponti,… Ci ha restituito la memoria, ha cercato di sconfiggere la malattia di Alzheimer di cui soffrono non solo gli uomini ma anche le cose.
Finché c’è vita c’è speranza, si dice. Possiamo aggiungere anche che finché c’è libro c’è memoria. E allora i fratelli Branzi, checché accada al territorio per opera dei cambiamenti climatici o per umana distrazione, lì nel libro rimangono e mi auguro che l’auspicio che Antonia esprime a p. 214 – che quella casa “rimanga patrimonio culturale del paese” – non si riduca a flatus vocis. Poi ci sono le contrade, censite con amore meticoloso. Sono ventisette, se ho contato bene. Tutte diverse, tutte con il loro fascino estetico e storico. Ineguali nella disposizione degli edifici, nel sito scelto, nei suoi abitanti, ma tutte convergenti, unanimi, concordi.
E ancora quella citazione dell’Editto di Saint Cloud a proposito del cimitero del capoluogo. Era il 1806 e a noi viene alla mente la grandezza di Foscolo. La sua ombra che fa capolino a Selva – Brunge ci consente di passare alla seconda parte di questa immersione nelle parole.
Fin qui è tutto ciò che si vede, ciò che subito si palesa, ciò che è esplicito e innegabile.
Ma nel libro di Antonia c’è qualcos’altro, qualcosa che rimane nell’ombra, che quasi teme di esibirsi, che per vederlo bisogna un poco sporgersi in avanti.
Il volume, infatti, si avvale di un contributo del professor Marco Pasa, il nostro geostorico che ha dedicato la sua vita ad indagare il passato cercando spesso di attualizzarne il significato. Qui egli tratta Selva di Progno durante i secoli della colonizzazione cimbra, irrinunciabile sguardo senza il quale sfuggirebbe gran parte del genius loci di questa terra. E insiste, Pasa, sul ruolo, da lui sempre insistentemente sottolineato, di San Pietro in Silvis nella civilizzazione di queste terre. E ritorna sull’affascinante lettura del Passo “Pertica” come corruzione di “Portica”, una porta aperta verso il Nord.
L’autrice ha anche chiesto al professor Luca Crisma di illustrare il ciclo pittorico presente nella Cappella feriale adiacente alla Parrocchiale. Con le sue due pagine, tutta una sequenza di pitture, una galleria di santi, una pedagogia di immagini rimasta valida fino a noi, ma oggi travolta – l’immagine, sacra e profana – da una dimensione effimera e davvero transeunte, lontana, lontanissima da una percezione atavicamente parsimoniosa che nella nostra civiltà informava di sé tutte le cose.
Ma non è tutto.
Antonia, nella sezione dedicata alle persone di Selva, illustra la figura di Aulo Crisma, maestro elementare di lei stessa, ma soprattutto nonno di Luca e curatore di una sezione (“Osservatorio Comunità montane”) della rivista on line Inchiesta dedicata alla Lessinia. “Questa è la storia di un giovane maestro”, così principia Antonia. E la storia la racconta, fino alla fine (che fine non è), fino a quando dice che a Selva Aulo ritornava ogni estate. E noi lo vediamo ancora seduto tranquillo nel suo giardino con accanto Vittorio, il fondatore di Inchiesta che ospita questo contributo.
Ecco cosa riesce a mettere in moto un libro. Getta ponti tra persone e tra terre lontane e diverse. Sa trasformare la diacronia in sincronia. Anche quando il libro è cartaceo. Soprattutto quando è cartaceo.
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