ScialaRuga. Suoni e musiche fra passato e futuro.
Intervista a Fabio Macagnino.
D.: Chi sono e che cosa significa “ScialaRuga”?
R.: ScialaRuga è un progetto aperto che ruota intorno ad una mia idea di collaborazione con diversi musicisti. In passato ho collaborato con Francesco Loccisano (Chitarrista), in questo momento collaboro con Vincenzo Oppedisano, Martin Abel Cagnotti, Antonio Moscato, Raffaele Pizzonia e Massimo Cusato.
ScialaRuga è l’unione di due parole: Sciala e Ruga. Fa riferimento alla strada (Ruga), perchè ci piace immaginare di suonare in luoghi in cui si riesce a creare un’ atmosfera di convivialità (sciala) e a sognare ad occhi aperti, i nostri unici obiettivi. La strada, le piccole “rughe” ci riportano ad una dimensione di “vicinanza” tra i musicisti e l’ascoltatore, per cui anche se suoniamo sui palchi, facciamo il possibile per mantenerci a “livello della strada”.
D.: Quindi mettiamo subito i puntini: un disco in calabrese. Una lingua che sembra aspra ma che invece suonata da voi diventa comprensibile. Come ci siete riusciti?
R.: Cerchiamo di “distillare” dalla nostra lingua quelle sonorità che ad un livello meno “conscio” riescono ad emozionare, indipendentemente dalla loro provenienza geografica…forse dico una cosa poco esatta, ma credo che ad un certo livello esista una sorta di “meta-linguaggio” che supera le barriere “etniche” e permette la comunicazione ad un livello “emozionale”. Per cui, quello che ci interessa è il puro suono emesso dalla nostra lingua, dalla quale cerchiamo di trarre sonorità a volte “malinconiche” e per certi versi “liriche”.
D.: Ho seguito tre vostri concerti in Calabria e c’erano persone da tutta Italia. Segno che il calabrese può quindi essere una lingua musicale…
R.: Siamo continuamente alla ricerca di quei “pass-partout” che fanno riferimento ad un “paesaggio sonoro” riconoscibile a livello internazionale… Niente di nuovo. Ad esempio i Sigur Ros: fanno musica legata alla loro terra, ma che è poi completamente internazionale. Così noi proviamo a comporre dei testi che stanno a cavallo tra quel “modo” tipicamente popolare di cui parla Pasolini, «così deliziosamente misto di rozzezza squisita, prezioso infantilismo, dialetto cruscaiolo, purismo volgare, religiosità allegra e pagano moralismo», e una ricercata composizione che tenga anche conto della metrica, della rima. Insomma un approccio “meditato” che ci aiuta ad allontanarci da una enclave folcloristica.
D.: Che cosa significa essere “figli della Locride” oggi?
R.: Significa essere europei! Questo è un territorio fertile, nello spazio di pochi chilometri, con 42 comuni, esiste una scena culturale molto vivace, fatta di registi, attori, artisti e molti musicisti, molte band che propongono la loro musica senza affidarsi alle cover. Significa essere cresciuti in un contesto con diversi festival importanti: Roccella Jazz, Kaulonia Tarantella Festival, Ai confini del Sud, festival questi che ci hanno permesso di imparare, studiare, “copiare”, osservare, sognare di emulare i big della musica, esattamente come un musicista che vive a Berlino, Parigi, Roma… Sì, significa essere normali! Il problema è che diamo un’ altra immagine di noi… La solita immagine stereotipata fatta di “nduja-melanzanesott’olio”, “Franco o Franco”, “tradizione-tarantella-’ndrangheta”.
D.: Vi siete staccati parecchio, pur mantenendo le tradizioni, dalle tarante classiche. Una scelta valida. Perché?
R.: La tarantella fa ormai parte del nostro bagaglio culturale, ci siamo anche noi in passato “ubriacati” col vino della riscoperta e della promozione della nostra identità culturale, ma adesso abbiamo gettato tutto ciò alle nostre spalle, come dato acquisito. Come ha detto Raiz nel suo concerto al Kaulonia Tarantella Festival: «Se mi tagliate le vene vedrete che nel mio sangue scorre la tammorriata». Nel suo lavoro c’è una mistura di elementi che provengono dalle sue origini geografiche, ma completamente trasformati secondo istanze sue soggettive e completamente contemporanee. Così, anche per noi è importante utilizzare i materiali che provengono dalla nostra terra, ma solo fino al punto in cui ciò permette di non far pensare che questa musica proviene dall’Alaska… Giusto fino al punto di non farsi omologare…
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