Maria Concetta Fogliaro: Third Person (2013) di Paul Haggis
Niente è come sembra nell’ultimo film di Paul Haggis. In una camera avvolta nella penombra e immersa nel silenzio, un uomo, ripreso di spalle, siede davanti a una scrivania. Preda dei suoi pensieri, la figura sulla scena – che ha di fronte a sé lo schermo di un computer, nel quale si intravede una pagina bianca – sembrerebbe intenta a svolgere un compito, che tuttavia non riesce a svolgere. Inaspettatamente la voce fuoricampo di un bambino, che gli sussurra «Guardami», la induce a voltarsi e a guardare indietro. Intanto, la macchina da presa cattura l’immagine di un bicchiere d’acqua, nel quale, da lì a poco, l’uomo affonderà cinquanta centesimi di euro. Così inizia il film: prima si precisano i contorni; poi, pian piano, il soggetto – inizialmente una sagoma in ombra, calata in un «eterno ma non immobile» tempo – emerge alla luce e lo spettatore intuisce di trovarsi di fronte a una realtà complessa, cui allude l’avanzare della macchina da presa.
Se partiamo da ciò che sembra, Third Person (USA, Regno Unito, Germania, Francia, Belgio, 2013, 137’) – presentato in anteprima mondiale nel 2013 al Toronto International Film Festival e uscito negli Stati Uniti nel 2014 – è un racconto corale in cui si intrecciano diverse storie, che si sviluppano in tre città differenti: Parigi, Roma e New York.
A Parigi Michael (un intenso Liam Neeson), scrittore americano, vincitore con il suo primo lavoro del premio Pulitzer, si è rifugiato nella camera di un albergo per cercare – pare – di scrivere il suo nuovo romanzo. Qui viene raggiunto dalla sua amante Anna (Olivia Wilde), giornalista con ambizioni da scrittrice, donna ancora acerba, apparentemente fredda, ma, in realtà, profondamente fragile. Michael tiene un diario, nel quale annota frasi scritte in terza persona, che Anna riuscirà in parte a leggere e che provocherà una scossa dolorosa nella loro relazione.
Contemporaneamente, a Roma, Scott (Adrien Brody), ambiguo uomo d’affari americano – che si procura da vivere rubando modelli di abiti di alta moda – fa la conoscenza di Monika (Moran Atias), una gitana, che racconta – a quello che crede essere un ricco americano – la storia del rapimento della sua bambina. Scott, mosso in realtà da suoi segreti demoni, decide di seguire la donna alla ricerca della figlia, in un’avventura che li condurrà nell’Italia del Sud, in Puglia, e che li vedrà, alla fine, innamorarsi e pronti a iniziare una vita insieme.
A New York Julia (Mila Kunis) – un’ex attrice di soap opera, ormai lontana dai privilegi dello star system e costretta a lavorare come cameriera in un hotel di lusso per poter sopravvivere – è impegnata in una difficile battaglia legale contro il suo ex compagno Rick (James Franco), un affermato artista newyorkese. Assistita dal proprio avvocato Theresa (Maria Bello) – l’unica figura al suo fianco da quando è iniziata la sua caduta in disgrazia –, Julia deve combattere per poter vedere suo figlio, dopo esserne stata allontanata per via di un incidente – secondo Rick volontariamente provocato, ma la cui intenzionalità in realtà non è stata mai dimostrata –, che avrebbe potuto causare la morte del bambino. Infine, a tutte queste storie si affianca la vicenda di Elaine (Kim Basinger), la moglie di Michael. Tormentata da un rapporto doloroso con un marito che sa infedele e pronto, forse, a lasciarla per sempre, e che ama – e da lui è riamata – con tutta l’anima, Elaine è una donna segnata dal dolore straziante e inconsolabile per la perdita del loro unico figlio.
Questo è ciò che, a prima vista, può apparire nella vibrante e intricata trama pensata e messa in scena dal regista canadese. Ma, come sempre nel suo cinema – come in Crash – Contatto fisico (Crash, USA, Germania, 2004), vincitore di tre premi Oscar nel 2006, o come Nella valle di Elah (In the Valley of Elah, USA, 2007), del quale memorabile rimane l’immagine finale dell’alzabandiera «con le stelle e strisce rovesciate di un’America che chiama aiuto» –, ben più profondo è lo sguardo di Haggis. Maestro della sceneggiatura – sua è la penna dietro i capolavori di Clint Eastwood Million Dollar Baby (USA, 2004) e Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo Jima, USA, 2006) –, il regista dà vita in questo suo ultimo film a una storia sofisticata, dal ritmo avvincente e dalla struttura narrativa complessa, impregnata di simmetrie e di ambiguità.
Fin dall’inizio il regista, con la sua macchina da presa, dissemina con cura indizi e cattura dettagli, che creano unità nel flusso di immagini e parole, solo all’apparenza incoerente e frammentato. Ben presto, infatti, si rompe la struttura lineare del tempo e si intuisce che le vicende narrate si svolgono in una dimensione temporale che non è più quella reale: vi sono quindi due temporalità, una reale e una altrettanto potente che nasce dallo sforzo creativo dello scrittore. È una sorta di racconto nel racconto, che prende vita dal mondo creativo del protagonista (Michael), che presenta se stesso come «un uomo che prova emozioni solo attraverso i personaggi che crea». Quest’uomo, attraverso la scrittura, cerca di elaborare il suo grande lutto (la perdita del figlio) e trasforma la sua fuga da esso in un racconto polifonico, nel quale il suo personale dramma esistenziale prende forma.
Quello di Michael è il tentativo disperato di varcare un muro fino ad allora vissuto come insuperabile, fatto di sensi di colpa, di sentimenti e di pensieri spesso confliggenti. In questo intreccio di storie atemporali, che nascono da un fondo che è temporale, il personaggio di Elaine – che rappresenta il rapporto di Michael con l’ambivalenza della verità – è quello che, nelle poche ma efficaci sequenze in cui appare, tiene insieme le due diverse temporalità del film. Attraverso i dialoghi telefonici con Michael, Elaine svela i due differenti livelli narrativi del racconto cinematografico, emergendo pian piano come l’elemento chiave – insieme ai dettagli messi a fuoco nelle diverse sequenze del film – cui il regista si affida per consentire allo spettatore di decodificare la narrazione visiva. Tutti gli altri non sono veri personaggi: come i «pupi» del teatro siciliano, sono maschere, creazioni strumentali nate dalla mente dello scrittore che non possiedono una reale profondità psicologica.
Third Person è un film coinvolgente, che pretende di essere guardato con la stessa minuziosa cura con cui è stato girato e che mette sicuramente in crisi chi non rinuncia a una visione affettata e sentimentale delle relazioni interpersonali; un film in cui «Bianco» – come scrive Michael – è «Il colore della verità. Il colore dell’onestà. E il colore delle menzogne che lui racconta a se stesso». Haggis stesso mente sapendo di mentire: la storia d’amore fra la scaltra gitana e lo sfuggente americano – forse un tributo al gusto per l’assurdo della commedia all’italiana contemporanea – è alquanto improbabile e, infatti, l’happy ending si stempera in una dimensione quasi onirica.
Per tutto il film, la musica, curata da Dario Marianelli, trascina lo spettatore da una sequenza all’altra e – sostenuta dal montaggio perfetto realizzato da Jo Francis – costituisce l’altro filo invisibile che, insieme alla temporalità ordinaria scandita dalle telefonate e ai dettagli disseminati lungo tutto il racconto, lega fra loro le storie portate in scena. Splendida la fotografia, affidata a Gian Filippo Corticelli, e intensi i primi piani dei personaggi. L’uso frequente dei campi lunghissimi, nelle riprese in esterno, è un omaggio all’Italia e alla città di Roma in particolare – dove è stato girato, fra il centro storico e gli Studios di Cinecittà, la maggior parte del film –. In un cast eccezionale, che può contare sulla presenza di alcune fra le più importanti stelle del firmamento hollywoodiano, brilla una splendida Kim Basinger, non più il simbolo erotico che travolgeva Mickey Rourke in 9 settimane e 1/2 (9 1/2 Weeks, USA, 1986), ma qui ritratta come un’intensa donna matura, sensualissima nei suoi tormenti e forte nel suo amore.
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