Valerio Romitelli: Il libro di Santo Peli sul terrorismo nostrano all’epoca dell’occupazione nazista e del collaborazionismo repubblichino
Recensione del libro di Santo Peli Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Rizzoli, 2014
Se in questo mondo così oscuramente perturbato resta ancora qualcuno che trova assurda una definizione come quella di “guerre umanitarie”, a maggior ragione dovrebbe pensare lo stesso della definizione del nemico globale come “terrore”, “terrorismo”. Accettare una simile definizione significa infatti non capire nulla di cosa sia questo nemico, con la probabile conseguenza, tra le tante, di scambiare per amici e alleati quelli che sono invece i reali nemici.
Perché? Perché il terrore o il terrorismo, da quando mondo è mondo, non è che un mezzo bellico, tra i tanti, come cannoni e carri armati, di solito usato da chi per fare guerra non dispone di questi ultimi. Basti leggersi il massimo teorico occidentale della guerra, quel Carl Von Clausewitz che è obbligatorio studiare a mena dito in ogni accademia militare. Nel suo Della Guerra è scritto infatti a chiare lettere che compiere atti uccisioni o stermini atti a terrorizzare le popolazioni del paese considerato nemico deve essere considerata pratica bellica come qualsiasi altra. Così, ad esempio, hanno fatto deliberatamente anche gli alleati angloamericani “liberatori”, coi bombardamenti che hanno raso al suolo intere città italiane e tedesche, per non parlare delle atomiche sul Giappone, prevedendo espressamente di colpire anche popolazioni civili, nella convinzione di alienarne in tal modo il sostegno ai propri governi e costringere questi ultimi alla resa. Con modi e mezzi infinitamente meno tecnologici, più nudi e crudi, lo stesso hanno fatto in Italia le formazioni partigiane comuniste quali i Gruppi e le Squadre di Azione Patriottica direttamente contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti repubblichini.
Conoscere perché e come queste formazioni hanno agito permette di capire il ruolo non trascurabile avuto da questo tipo di terrorismo nella Resistenza, e dunque anche nei precedenti bellici della fondazione della Repubblica nella quale viviamo. Ma non solo. Oggi permette anche di capire una cosa quanto mai attuale: che non ha mai senso parlare di terrorismo in sé e per sé, o peggio di condannarlo sempre e comunque in quanto tale, perché il problema sta piuttosto nelle circostanze e nelle strategie belliche che lo rendono possibile.
Dal punto di vista dell’opinione pubblica italiana, simili considerazioni rischiano di risultare subito blasfeme, data la devastante stagione del terrorismo tra gli anni ’70 e ’80 il quale intendeva rompere il quadro di pace entro il quale si stavano allora svolgendo i pur accesi conflitti sociali e politici, nel sogno perverso e avventuristico di creare un quanto mai improbabile clima di guerra civile. E tali considerazioni rischiano di risultare ancora più scandalose oggi che tutta l’Europa, dopo gli attentati di Parigi, sembra trovare la tanto attesa, e finora mai realizzata, unità politica, proprio grazie alle pratiche dell’antiterrorismo.
Ma siamo proprio sicuri che i costi politici e culturali di tali pratiche, più di trent’anni fa in Italia e oggi forse in tutta Europa, siano inferiori ai supposti rassicuranti benefici che dovrebbero portare?
Per porsi con cognizione di causa una simile domanda è dunque quanto mai utile reinterrogarsi sull'”imbarazzante” caso nostrano di un terrorismo, quello dei Gap e delle Sap tra il ’43 e il ’45, che non può non essere considerato benevolmente, a meno di non considerare in tal modo i suoi nemici nazisti e collaborazionisti repubblichini.
Evitando accuratamente di avventurarsi in qualsiasi considerazione simile a quelle fin qui esposte ed attenendosi al più rigoroso imperativo storiografico di documentare e narrare i fatti così come rilevabili da fonti certe e letteratura autorevole, Santo Peli ha offerto finalmente il quadro il più possibile esaustivo della storia dei Gap, con ampi riferimenti anche a quella in gran parte successiva delle Sap. Il titolo del suo saggio con opportuna prudenza è Storie di Gap, ove il plurale sta proprio a indicare la provvisorietà della ricostruzione proposta, data l’inevitabile lacunosità della sua documentazione spesso sottolineata dallo stesso autore.
“Il lungo e laborioso processo che sfocerà in una guerra partigiana dalle proporzioni più che ragguardevoli, sostiene Peli per spiegare l’importanza storica dei Gap, per tutta la prima fase è caratterizzato da battaglie difensive, da rastrellamenti disastrosi, da incertezze sul modello di guerra da adottare, da forti divisioni tra partiti antifascisti.
Per cinque-sei mesi sono i pochi gappisti che operano in città a dimostrare che la Repubblica Sociale Italiana non è in grado di proteggere nemmeno i suoi maggiori esponenti, e che si possono attaccare i temutissimi soldati tedeschi. Le loro imprese sul piano strettamente militare sono piccola cosa, ma sul piano simbolico la rottura dell’ordine nazifascista parte soprattutto da qui” .
Eppure: “Eppure, i Gruppi di azione patriottica, componente esigua ma rilevante del movimento di Resistenza, occupano un posto del tutto marginale nella memoria collettiva, come anche nella storiografia della Resistenza. Senza le ricorrenti polemiche connesse alla strage delle Fosse Ardeatine, e la mai sopite deprecazioni del “delitto Gentile”, dei gappisti si sarebbe forse persa la memoria” (p. 4).
A questa dimenticanza, nota sempre Peli, ha concorso una circostanza particolare:
“(…) quando nei primi anni Settanta prende avvio un proficuo rinnovamento della storiografia della Resistenza (…) meno subalterno alle logiche dipartito, la vicenda dei Gap ne viene solo sfiorata, perché a bloccare una revisione critica delle prime eroicistiche narrazioni interviene la stagione delle Brigate Rosse. Fin dalla nascita. le organizzazioni terroristiche di sinistra si autorappresentano come avanguardie rivoluzionarie ed evocano la Resistenza “rossa “, di cui i Gap sarebbero stati i più decisi esponenti, come un sentiero mitico sul quale tornare” ( p. 7).
Ecco due i poli dai quali Storie di Gap tiene a distanziarsi: da un lato, le narrazioni eroicistiche fornite “a caldo”, ma confermate anche in seguito da parte comunista; dall’altro, la mitologia coltivata dalle BR, e anche da altri gruppi terroristi tra gli anni ’70 e ’80, secondo la quale il gappismo a suo tempo avrebbe tracciato un sentiero da ripristinare trent’anni dopo.
L’intento di Peli sta quindi nel descrivere il più possibile dall’interno la vicenda di questi partigiani “di città” , creati dal Pci reclutando soprattutto tra operai oltre che tra reduci della Guerra di Spagna, ma anche tra giovani intellettuali, per compiere uccisioni anche a freddo di nazisti e repubblichini, nonché sabotaggi e attentati dinamitardi. Lo scopo era offrire esempi incoraggianti per tutta la Resistenza, ma almeno inizialmente e anche a volte in seguito saranno i partigiani “di montagna” a essere convocati per supplire occasionalmente alla carenza di gappisti. Così pure non di rado saranno questi ultimi a trovare rifugio tra le bande lontane dai centri urbani, tanto più controllati quanto più incisiva risultava l’attività terroristica.
Tutto ciò è dettagliatamente raccontato da Peli, il quale, raccogliendo e selezionando la più svariata ed eterogenea documentazione disponibile ( documenti inediti o poco noti, diari, lettere, testimonianze orali, inclusi), ricostruisce anche, città per città, le difficoltà di reclutamento mai venute meno per le disgregazioni e i vuoti a volte completi creati dalle continue repressioni; dà conto della persistente penuria di finanziamenti spesso sopperita dalla pura e sofferta abnegazione dei singoli; computa con precisione le operazioni compiute e il loro andamento discontinuo; ne sottolinea le differenze a seconda dei contesti, ma anche del loro evolvere nel corso del tempo; dà opportunamente grande rilievo alle parole usate dai protagonisti di tale esperienza limite, da “soldati senza uniforme”, né esercito, consapevolmente votati al massimo sacrificio.
Si vengono così a conoscere i loro travagli : l’isolamento ai quali l’ambiente urbano li condannava, il ritrarsi di non pochi di fronte al compito dell’uccisione a freddo, i dubbi sull’eventualità che l’azione terrorista provocasse rappresaglie su innocenti, le difficoltà a rispettare le rigidissime regole della clandestinità, l’esorbitante e sprezzante temerarietà, le paure per la tortura in caso di cattura, l’atroce destino di morte di tanti dopo indicibili tormenti. Ma Peli narra e analizza con precisione anche successi e sconfitte dei Gap, con particolare attenzione alle vicende dei loro nuclei più famosi e dei loro protagonisti più celebrati, quali Giovanni Pesce, Ilio Barontini, Bruno Fanciullacci, Dante Di Nanni e tanti altri.
All’estate del ’44 viene fatto risalire l’inizio del declino dei Gap a vantaggio di altro tipo di organizzazione decisa sempre dal Partito, ma questa volta per adeguarsi alla linea importata da Togliatti con la famosa “svolta di Salerno” dell’aprile: le Squadre di Azione Patriottica. Anziché attentatori professionisti “a tempo pieno” scelti solo tra comunisti, queste ultime sono formate “combattenti disponibili part time”, senza esclusioni per non comunisti, ma avendo sempre le città come primo teatro operativo. Una sorta di via mezzo tra i Gap e la bande di montagna, nella prospettiva della “massificazione della lotta” (p.114) indispensabile a quella tanto attesa e più volte rinviata eventualità d’insurrezione generale.
Ulteriore merito, sia pur indiretto, di Storie di Gap sta nel offrire il destro per respingere una svalutazione di questa esperienza come semplice conseguenza dell’adesione dei suoi protagonisti all’ideologia comunista: stante l’opinione oggi dominante secondo la quale tale ideologia equivaleva ad una sorta di religione si potrebbe essere tentati a credere che i gappisti si comportassero come puri e semplici fanatici. Ma così non fu e il libro di Peli, pur senza interessarsi a tale polemica, ricostruisce molteplici fatti che lo dimostrano.
Anzitutto, le numerose e non trascurabili divergenze tra quanto il Pci si attendeva dai Gap e quanto gli stessi combattenti dei Gap si attendevano dal Pci. Due esempi tra i tanti possibili: se i dirigenti di quest’ultimo si dichiararono delusi per l’assenza gappista, sia negli scioperi del marzo ’44, sia di fronte alle deportazioni che ne seguirono ( p. 109), un gappista d’eccellenza come Pesce maturò tanti dissensi nei confronti della politica comunista, da inviare una relazione di critica a tutto campo – opportunamente riportata integralmente da Peli (p. 155).
Né si può credere che questi terroristi, agendo in solitudine, spesso la più estrema, fossero sempre e solo assorbiti dal compito di ledere il nemico, senza tenere in nessun conto dei consensi che le loro azioni potevano riscuotere. Storie di Gap, pur dando conto dei tanti gesti clamorosi e indotti da scelte spavalde del tutto personali, attesta fuori di ogni dubbio che pensiero primo della maggioranza dei gappisti fosse proprio l’effetto simbolico, oltre i costi in termini di rappresaglie, che ogni loro operazione poteva avere sulle popolazioni civili.
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