Nello Rubattu: Paolo Mieli e gli schiavi fonte di progresso

| 3 Ottobre 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

DIBATTITO SULLA STORIA DEI RAPPORTI TRA CAPITALE E LAVORO Sul Corriere della sera, del 30 settembre, è apparso un lungo articolo di Paolo Mieli, sul progresso tecnologico e sociale avvenuto grazie alla tratta degli schiavi. Un articolo interessante che presenta un libro in uscita della casa editrice il Mulino di Markus Rediker La nave negriera.

L’articolo, inutile ricordarlo è scritto bene e si fa leggere altrettanto bene. Paolo Mieli sa scrivere. Ma è la tesi che ci rimane ostica. In pratica l’articolo afferma che nonostante il fatto che la tratta degli schiavi sia stata una tragedia, ha comunque prodotto dei fatti positivi: i neri hanno scoperto nuovi mondi e nuovi modelli di civiltà; i lavoratori dei cantieri di Liverpool, dove si costruivano le navi negriere, per la prima volta si ribellarono ai turni di lavoro e alle paghe troppo basse, dando così vita al primo sciopero sindacale della storia del mondo occidentale: Strike, si dice così in inglese proprio per questa ragione; infine, le imbarcazioni che trasportavano gli schiavi, furono alla base di importanti innovazioni tecnologiche nel campo delle costruzioni navali. Quei velieri, subirono un impulso tecnologico innovativo, grazie al fatto che essendo gli schiavi un bene di grande importanza economica, gli armatori avevano tutto l’interesse a migliorare i loro viaggi verso l’America.

Tutto vero. Ma falso allo stesso tempo.

Che le tragedie umane portino a miglioramenti è un luogo comune condiviso da molti e viene spesso spiegato con molti esempi spesso e volentieri pesanti da digerire: i forni crematori e l’organizzazione dei Lager, sono stati migliorati grazie alla morte di sei milioni di ebrei; gli armeni in fuga dai massacri in Turchia, portarono con loro capitali finanziari e umani importanti che sono serviti ad accelerare lo sviluppo dell’economia della Francia del Sud. I marsigliesi dovrebbero ringraziarli; il miglioramento tecnologico del Nord Italia, è stato in buona parte favorito dalla rapina delle ricchezze del sud borbonico da parte della casa sabauda; e se il prezzo attuale dei pomodori delle piane campane è ancora competitivo, lo si deve allo sfruttamento di manodopera nera e dell’Est europeo; infine, molti centri storici abbandonati di mezza Italia, oggi stanno ancora in piedi, perché quei tuguri, si riescono ancora affittare a prezzi vantaggiosi a popolazioni di immigrati.

Nella vulgata comune, si dice sempre che le guerre, i grandi disastri, quando terminano, producono sempre successivi periodi di sviluppo. Tommaso Marinetti, elogiava la guerra come un fenomeno necessario perché liberava le nazioni dalle “zavorre umane inutili al progresso”, che in una Nazione “proletaria” come quella italiana – così affermava Benito Mussolini – bloccavano lo sviluppo e la sua storia progressiva.

Haussmann, il grande architetto francese, nell’ottocento, la pensava nella stessa maniera e senza tanti riguardi mise a ferro e a fuoco una parte consistente di Parigi per liberarla della parte più povera, dando così vita a costruzioni moderne, con gradi di conforto che le vecchie catapecchie, abitate dai “miserables” parigini, non si potevano neanche sognare.

Insomma, la lezione sembra sempre la stessa: le disgrazie fanno del bene, sono un modello possibile di sviluppo.

Ma davvero è l’unico?

Penso proprio di no: lo sviluppo tecnologico non ha bisogno di vedere scoppiare le bombe a Hiroshima e Nagasaki, per progredire. Basterebbe semplicemente utilizzare una parte dei nostri soldi in ricerca e indirizzarli verso lo studio di tecnologie in grado di fare diventare il nucleare una energia pulita (quella senza scorie, tanto per intenderci); come non è scritto da nessuna parte che per provare l’efficacia di un fucile bisogna puntarlo su un essere umano: potrebbe tranquillamente essere provato in un poligono; e non c’è davvero nessun bisogno di abbattere tutte le foreste per capire i disastri che questo produce a livello climatico.

Non è razionale che per cambiare un modello economico obsoleto sia necessario mettere alla fame milioni di esseri umani. I cambiamenti si possono fare anche apportando modifiche strutturali e senza per questo sconvolgere la vita delle persone.

Il problema è come vengono impiegate le risorse, quali sono le tecnologie che si intendono adottare e quali sono i fini che ci prefiggiamo. Certo, se l’economia rimane solo un problema privatistico e non la si dota di “senso” collettivo, difficilmente ci si rende conto che i processi di accumulazione della ricchezza e il loro sviluppo sono strettamente legati ai modelli di miglioramento sociale.

Sicuramente, la nascita della borghesia industriale, ha seguito dalla sua nascita il modello della rapina delle risorse. Dell’accumulo nelle mani di pochi. Ma da nessuna parte è scritto che debba essere così. Anzi, oggi dopo due secoli, davvero in tanti, sono convinti che quel modello di sviluppo, forse, tanto razionale non lo è più: il sistema legato strettamente al capitale, distrugge molto di più di quanto produce.

La corsa al progresso economico, spesso e volentieri, è una corsa fra competitori drogati che appena arrivati al traguardo, crepano di infarto per doping.

Ciò che viviamo in molti casi è una idea errata di progresso che permette nell’attuale, di costruire e possedere una Ferrari, ma danneggia irreparabilmente fondi globali, regalando così futuri disastri alle generazioni che verranno.

Il progresso, quando non è regolato è una disgrazia. La parabola del dottor Jekyll e mister Hyde, ogni tanto dovrebbe farci riflettere. Nessun progresso fine a se stesso è in realtà un progresso. Bisogna metterselo in testa.

Se oggi esiste tanta miseria nel mondo è perché il progresso tecnico non è mai stato equilibrato. Soprattutto è sempre stato monodiretto: schiere di architetti occidentali, sono andati a costruire in Africa grattacieli mangia energia, pensandoli come innovativi. Questo perché, nessuno di loro conosceva la tecnologia del mattone crudo o l’uso del compasso nubiano. Quello che un tale modo di pensare ha provocato è che in tutta l’Africa si è dato vita alla più grande produzione di edifici inutili e costosi della storia dell’architettura mondiale. Edifici, che siccome non sono sostenibili in contesti diversi da quelli nei quali sono stati concepiti, sono caduti nella stragrande maggioranza dei casi in rovina. Per contro, edifici, ospedali e ponti messi su con materiali e tecnologie locali, non solo sono costati di meno, ma hanno da sempre il pregio di durare nel tempo, peraltro non richiedendo chissà quali spese per tenerli in efficienza. Basta per questo andarsi a controllare le costruzioni di Fabrizio Carola, uno che la scuola l’ha fatta nell’università belga della Cambre, fondata da Henry Van de Veld e ha lavorato per una vita negli stati dell’Africa centrale.

Di modelli di progresso, poi, non esiste solo il nostro, al contrario: bisogna abituarsi a pensare che ne esistono molti e tutti come il nostro, con luci e ombre.

Il vero problema del modello di conoscenza occidentale è la sua autoreferenzialità. Perché ritiene cioè, di essere l’unico progressivo. E’ una convinzione così radicata che porta a guardare con benevolenza agli errori che produce. E non guardando a fondo gli errori, non fa altro che accelerarne la sua crisi.

Il progresso in se non esiste, diceva qualcuno, esistono i prodotti del progresso. E se un modello è in crisi come il nostro, vi sarà pure una ragione.

Sicuramente una di queste è che tutte le innovazioni che sono state accumulate non tengono in nessun conto dello spreco che producono. Questo rende il nostro sistema estremamente debole difronte a nuovi competitors che potendosi presentare sul mercato a costi inferiori guadagnano quelle fette di mercato che erano nostre. E spesso il processo viene messo in essere direttamente dal nostro sistema. Andatevi a leggere cosa vuol dire per il sistema industriale il termine delocalizzazione. I padroni del vapore occidentale, per immettere merci a basso costo nel nostro mercato, delocalizzano in paesi poveri togliendo così risorse di lavoro al proprio e finanziarizzando in maniera eccessiva il processo di produzione della ricchezza.

Il nostro è un modello di progresso che nasce su un presupposto falsato che non tiene conto che la ricchezza non deve essere essere solo accumulata ma distribuita.

Inoltre, bisogna tenere conto che la filosofia occidentale dà molto valore al “superamento del limite”. Solo che il superamento del limite, l’azione in eccesso che produce, non necessariamente è fonte di progresso. Quel modello di progresso, normalmente crolla su stesso, distrugge irreparabilmente quanto crea e i relitti che produce sono spesso peggiori delle innovazioni.

Purtroppo nell’etica occidentale, figlia del romanticismo con cui tutti siamo in qualche maniera imparentati, e lo è anche Mieli, l’eccesso è diventato lo spazio archetipico che si ritiene capace di creare “innovazione”. Anche per questo tutto ciò che è eccessivo nelle società occidentali attrae, fa sognare. Perché l’eccesso viene recepito come “sfida”, quindi come superamento del limite e perciò (almeno come dicono gli psicanalisti) come un valore in grado di sconfiggere la morte.

Perciò, sapere che la morte di milioni di schiavi, la loro messa in cattività, si possa considerare un fattore di progresso, ci conforta.

Ma questo non rende chiaro come si produce progresso. Soprattutto chi e come.

Per esempio, fa dimenticare che dei barbuti vichinghi, erano arrivati già molto prima di Cristoforo Colombo in America; che le popolazioni dell’India del Sud, avevano già per loro conto esplorato tutto l’Oceano Pacifico con imbarcazioni super veloci, i catamarani, che volavano su una media di venti nodi, mentre i velieri di Colombo, a malapena raggiungevano i quattro. Oggi quei catamarani, figli di quella antica tecnologia indiana, nelle competizioni internazionali, raggiungono i 120 kilometri orari! Una velocità oggi impossibile per qualsiasi barca, a vela o a motore che sia. E tutto questo senza sprecare neanche una goccia di carburante e senza doversi dotare di sofisticate navi o di dispendiosi equipaggi!

Ma, ricordano molti storici, i popoli precolombiani, non conoscevano l’uso del cavallo. Animale che è stato per l’Occidente fonte di grandi progressi. Vero. Solo che gli occidentali sono stati secoli a cercare di capire come gli Incas facessero arrivare l’acqua nei loro campi a quattromila metri d’altezza, senza utilizzare strumenti meccanici per le risalite. Alla fine, scoprirono che gli Incas, avevano sviluppato una tecnologia avanzatissima che partendo dai principi dei vasi comunicanti, regolava le acque e il loro deflusso.

Il vero problema è che in Occidente è ancora vero l’assunto leninista che ha suo tempo ricordava che per una rivoluzione si ha bisogno soprattutto di morti. Cioè di forza bruta. Perché il nostro, è ancora un modello di progresso che si basa sulla contrapposizione dialettica del vincitore e del vinto e vede la vittoria come una sintesi.

Che lo si voglia o meno la pensiamo come Hitler o come un qualsiasi altro dittatore da strapazzo di questo mondo: non è la conoscenza, il progresso tecnologico che ci fa vincere, ma solo la distruzione del nostro avversario, il fatto di dominarlo.

Noi non abbiamo un rapporto dialettico con il resto del mondo. Forse anche per questo, l’unico “progresso” che conosciamo è il nostro.

Gli occidentali, quando arrivarono in America non sapevano dell’uso di certi animali da trasporto: i lama, per esempio, che per le civiltà precolombiane erano di uso normale. Gli spagnoli, davano semplicemente valore ai loro carri, ai loro cavalli e ai loro muli che ritenevano più importanti imponendone l’uso e per questo provocando dei grandi pasticci: “La ragione”, sottolineò una volta un antropologo inglese con una sottile dose di umorismo “E’ che gli occidentali non sapevano dell’uso di altri animali, semplicemente perché a Londra o a Madrid, i lama non ci sono mai stati, gli asini si”.

 

 

 

Category: Dibattiti, Libri e librerie, Politica

About Nello Rubattu: Nello Rubattu è nato a Sassari. Dopo gli studi a Bologna ha lavorato come addetto stampa per importanti organizzazioni e aziende italiane. Ha vissuto buona parte della sua vita all'estero ed è presidente di Su Disterru-Onlus che sta dando vita ad Asuni, un piccolo centro della Sardegna, ad un centro di documentazione sulle culture migranti. Ha scritto alcuni romanzi e un libro sul mondo delle cooperative agricole europee. Attualmente vive a Bologna

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