Massimo Canella: Invito alla lettura 8. Gianni Sofri. L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944-1945
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Invito alla lettura 8. Gianni Sofri. L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944 –1945. Società editrice il Mulino, 2021
Le istituzioni durevoli si reggono in via sussidiaria sulla possibilità di usare la forza, ma in via principale sulla capacità di conservare il consenso ai propri principi fondamentali, che fan generalmente riferimento a una narrazione fondativa. Questa narrazione può essere svolta, come nell’antichità, nei modi enigmatici del mito, o basarsi, come nella modernità, su una lettura politicamente orientata di fatti storici di cui si ha una memoria abbastanza precisa. La lettura politica non ha come proprio obiettivo la fedeltà alla verità storica, e quindi può confliggere con i risultati delle oneste ricerche vuoi per quanto può inventare o esagerare, vuoi soprattutto per quanto può omettere. Esistono fasi storiche in cui andare a recuperare le circostanze o gli avvenimenti omessi può creare difficoltà serie, e momenti più rasserenati in cui può invece contribuire a una maturazione civile e a una migliore integrazione sociale. Nulla toglie al valore storico ed attuale dei principi affermati dalla Rivoluzione americana il fatto che George Washington fosse un grande proprietario di schiavi e un grande accaparratore di terre indiane, ma riflettervi ora aiuta senz’altro la “democrazia” fondata nel XVIII secolo a cercare di superare in positivo i problemi rimasti da allora irrisolti nel rapporto con i discendenti degli schiavi e coi nativi. Nulla toglie all’ammirazione per la romantica, giovanile passione degli eroi del Risorgimento la constatazione del suo carattere socialmente minoritario, della fortunata fortuità delle circostanze che ne permisero l’esito favorevole e della divaricazione fra i sogni di gloria e l’arretrata realtà del Paese; su un piano soggettivo essa suscitò quell’irosa disillusione cui diede voce con versi non sempre eufonici il Carducci, ma i suoi tratti obiettivi vennero rapidamente individuati ed esposti con amara lucidità dai migliori esponenti del nuovo ceto dirigente. Questa realtà venne consapevolmente (e inevitabilmente) offuscata da una complessata retorica di Stato nella narrazione per il popolo, ma ora nessuno può veder rischi per le istituzioni nell’integrare a questa i riferimenti a tutte le circostanze e a tutti gli sviluppi che hanno accompagnato l’accidentato percorso della nazione.
Le circostanze che consentirono la nascita della nostra Repubblica (il patto costituzionale, e a monte la libera dialettica fra le forze politiche nel periodo resistenziale e post-resistenziale) sono certamente meno controverse dei casi sopra citati, anche perché l’originaria diversità dei riferimenti sociali e geopolitici dei contraenti del patto, rafforzata dalle persistenze del passato, non poteva dare luogo a una vera e propria “leggenda” condivisa. E’ però vero che molto a lungo i nuovi poteri, anche di opposizione, fomentarono per senso di responsabilità una visione non sempre realistica del moto di liberazione dall’oppressione tedesca e repubblichina. In realtà, come ricorda Gianni Sofri nel suo intrigante volumetto su “L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944-1945”, edito dal Mulino, “il ridestarsi a nuova vita dopo le sofferenze e le divisioni della guerra fu per molti (in una certa misura per tutti) un processo lungo e doloroso, nel quale ricordi e sentimenti offesi si accompagnavano alla voglia, ma anche alla fatica, del ricostruire. Una grande opera, pacata e dolente insieme, come quella di Claudio Pavone, sarebbe apparsa – salutata molto positivamente dagli studiosi – solo quarantasei anni dopo la Liberazione. (Pavone aveva cominciato peraltro a far conoscere le sue idee, manifestando la propria autonomia da una storiografia “ufficiale”, spesso partitica e retorica, già alla fine degli anni Cinquanta.) Né vanno dimenticati gli importanti contributi di tanti altri studiosi a questo processo pluridecennale di vera e propria liberazione del pensiero” (pp.79-80).
“L’anno mancante” di Gianni Sofri è la storia di una ricerca personale, estranea al filone principale dei suoi interessi accademici, che viene raccontata come in una soggettiva cinematografica. Poco dopo la laurea egli fu chiamato a collaborare al Dizionario Biografico degli Italiani, la straordinaria impresa dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana che ne pubblicò il primo volume (Aaron – Albertucci) nel 1960 ed il centesimo ed ultimo (Vittorio Emanuele I – Zurlo) nel 2020, con più di trentamila biografie disponibili ora anche on line. Verso la metà degli anni Novanta, quando si giunse alla lettera F, venne invitato a redigere la voce su Arsenio Frugoni, uno dei suoi professori di storia alla Normale di Pisa, il cui interessamento era stato determinante per la chiamata dell’Istituto. A tal fine, fra il 1994 e il 1995, collaborò ed entrò in amicizia con Chiara Frugoni, medievista di rilievo e figlia di Arsenio. Poté ricostruire senza problemi la sua giovinezza di studente brillante, molto vicino al mondo vivace e potente della Chiesa bresciana e in particolare all’Oratorio della Pace dei Filippini; e di come poi alla Normale di Pisa, sodale fra gli altri di Vittore Branca, fosse considerato magna pars della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, di cui era assistente, prima di trasferirsi alla Segreteria di Stato vaticana, il bresciano Giovanbattista Montini; e di come poi si dividesse fra studi e insegnamento, venisse chiamato alle armi nel 1941 e finisse, fra fine del 1941 e estate del 1943, distaccato all’Istituto Italiano di Cultura di Vienna. Problemi anche minori comportò la ricostruzione della sua carriera scientifica, scolastica e universitaria del dopoguerra. Dovette consegnare però la voce del dizionario, che sarebbe stata pubblicata nel 1998, senza esser riuscito a capire cosa avesse fatto esattamente Frugoni in un periodo che fu significativo per tutti: quello della Repubblica Sociale.
Anche se asseriva di aver sempre detestato i laghi, perché erano una via di mezzo fra la montagna e il mare e lui non amava le mezze misure, Benito Mussolini aveva finito con lo stabilire il centro del suo “ultimo atto” a Gargnano presso Salò, sulla riva bresciana del Garda: a Villa Feltrinelli viveva con la famiglia e un ufficiale delle SS addetto alla sua persona e nella Villa delle Orsoline, a circa un chilometro di distanza, si recava ogni giorno a lavorare; non distante, sorvegliata da un altro ufficiale delle SS, la villa di Claretta Petacci, da cui a quanto pare, ma di questo Sofri non parla, Mussolini si recava ogni sera. Circa a metà del percorso che Mussolini percorreva ogni giorno si era insediato l’Ufficio di collegamento della Wehrmacht presso il Duce, dipendente direttamente da Berlino, in cui lavorava anche una segretaria, Luise von Benda, che avrebbe sposato il feldmaresciallo Alfred Jodl dell’Oberkommando Wehrmacht, finito non bene a Norimberga. Responsabile dell’Ufficio era il tenente colonnello Hans Jandl, viennese, non sostituibile se non per ordine del Fuehrer: il suo compito ufficiale pare consistesse soprattutto nel presentare a Mussolini la situazione sui vari fronti nel modo più ottimistico possibile. In questo ufficio, dal giugno 1944, venne chiamato a lavorare per qualche giorno alla settimana, come “insegnante di italiano di Jandl”, un giovane professore del liceo scientifico che, con quei chiari di luna, andava su e giù da Brescia in bicicletta: Arsenio Frugoni.
Sofri racconta del “muro di gomma” che incontrò in tutti gli ambienti bresciani, soprattutto in quelli cattolici in cui il suo insegnante era così ben inserito (tanto da meritarsi in morte una lunga lettera alla famiglia di un Montini divenuto papa), quando cercò di farsi spiegare la sua posizione, pur registrando quasi unanimi attestazioni di stima, anche a sinistra. Le testimonianze raccolte, anche di parte tedesca, asseriscono che non nascondeva la sua estraneità al fascismo, avrebbe addirittura omesso di fare il saluto romano quando il duce passava; l’ufficiale tedesco con cui più era in contatto, Otto Joos, sostenne in un dattiloscritto che avrebbe rivelato a lui di essere un comandante partigiano. Il Bresciano, sede dei ministeri repubblicani, era un territorio tutt’altro che sicuro: forte la presenza delle molteplici milizie repubblichine, sempre più isolate e aggressive, attorno alle sedi dei ministeri della Repubblica; forte e tutt’altro che omogenea la presenza partigiana, in montagna operavano la più importante delle formazioni partigiane cattoliche dette Fiamme Verdi, una brigata di Giustizia e Libertà, una brigata Garibaldi e una a questa vicina ma autonoma, il cui comandante Raffaele Menici venne a un certo punto rapito e ucciso come traditore, sulla base di false accuse, dalle Fiamme Verdi, vicenda ricostruita nei dettagli da Mimmo Franzinelli. Un rapporto repubblichino al duce affermava che il vero capo delle Fiamme Verdi fosse il vescovo, e effettivamente risulta che dal luglio 1944, con Roma liberata, Pio XII avesse definito accordi di collaborazione con gli Americani e muovesse le sue pedine nell’Alta Italia col tramite di monsignor Montini. Per quanto fosse necessario per tutti conservare un rapporto di non belligeranza con la gerarchia, l’appartenenza cattolica non evitò il martirio, per uccisione o per morte nei campi, di molti militanti e anche leader spirituali delle Fiamme Verdi, tutti provenienti questi ultimi – un nome: Telesio Olivelli – dall’ambiente dei Filippini e dell’Oratorio della Pace cui Frugoni apparteneva e che non aveva smesso di frequentare. D’altro canto risulta, da una fotocopia annerita! che Frugoni abbia scritto una dolente commemorazione di Giovanni Gentile, il filosofo assassinato ideatore e gestore, fra l’altro, del progetto dell’Enciclopedia Italiana, su “Leonessa”, settimanale della Federazione bresciana dei Fasci repubblicani: rivista risultata poi irreperibile a Sofri anche nelle biblioteche in cui era inserita in catalogo. Chi sa chi vi aveva scritto cosa, e in quali circostanze, in un mondo in cui si navigava a vista, ma in cui dopo il 25 aprile sarebbe occorso apparir come eroi per lo meno in potenza, in un clima che non si prestava ai distinguo. Il fatto che Joos mettesse Frugoni in relazione con la presentazione delle domande di grazia al duce, che vi apponeva il visto “favorevole”, fa inclinare verso l’idea che, in sintonia con alcuni esponenti militari tedeschi, l’ambito cattolico avesse pensato di poter piazzare a Gargnano un proprio uomo in grado di mediare il mediabile, evitando scontri e repressioni eccessive in cambio di determinati comportamenti. Sofri cita, come studio documentato su questa tipologia di fatti, “Tregue d’arme. Strategie e pratiche della guerra in Italia fra nazisti, fascisti e partigiani” di Roberta Mira, edito da Carrocci. Ho raccolto casualmente nella vita qualche testimonianza in merito. Mi han raccontato di gentlemen agreement fra reparti tedeschi e una brigata di Giustizia e Libertà nel Piacentino, relativa al trattamento e allo scambio dei prigionieri pur nel perdurare delle ostilità, mentre nella vallata adiacente, presidiata dai garibaldini, c’era una guerra totale senza regole. Un membro della segreteria di Vittorio Mussolini mi ha raccontato nella sua vecchiaia di missioni segrete e rapporti sopravvissuti fra pezzi del vecchio Stato trovatisi al Nord e al Sud, con contatti p. es. con personalità come l’ammiraglio de Courten, che continuò a esser ministro fino a De Gasperi. Ho letto le dichiarazioni del partigiano monarchico ed agente britannico Edgardo Sogno, che racconta di aver lavorato, d’intesa con un settore dei servizi inglesi, per il recupero preventivo alla futura coalizione anticomunista dei “patrioti” della Decima Mas di Junio Valerio Borghese, della divisione partigiana antititina Osoppo poi decimata dal garibaldini (occasione in cui morì il fratello di Pasolini), di altre realtà, rete di rapporti riemersa nei torbidi degli anni Settanta – mentre un’altra parte dei servizi britannici riforniva lealmente i garibaldini più ragionevoli riconoscendo la loro maggiore capacità militare. Né va dimenticato il modo con cui le SS di Karl Wolff si disimpegnarono nel 1945 da una resistenza all’ultimo sangue, lasciando alla deriva i sodali italiani e rioffrendo sotto traccia i propri competenti servigi all’interno del nuovo quadro geopolitico. Siamo nel tempo in cui si studiano i documenti sulla guerra civile senza i paraocchi dell’ideologia, della retorica o anche della responsabilità repubblicana. Oggi anche noi anziani siamo i posteri degli attori di quelle vicende. Dovremmo esercitare la carità della comprensione, senza imitare il comportamento di colui che, nei versi di Bertolt Brecht, “arrivò all’undicesima ora / e ci spiegò con grande sicumera / come andavano portati / i pesi che lui non aveva portato”. Nel caso di Frugoni, comprendendo che chi si fa carico di certi ruoli complessi e ambigui poi non vuole più parlarne, e nessuno dei suoi contemporanei vuole che se ne parli più.
“Dum nos rerum capti circumvectamur amore”, vicende sempre affascinanti, ci siamo quasi scordati di evidenziare l’aspetto letterariamente e metodologicamente più pregevole dell’opera, che consiste nella costruzione di un’ipotesi, pur dubitativa, attraverso la narrazione minuta delle fasi, dei dubbi e delle scelte del ricercatore. L’indice, che segue non la cronologia dei fatti ma quella delle indagini, può darne l’idea: all’esposizione de “Il fatto” seguono i “Ricordi di famiglia”, i “Ricordi controversi”, le “Complicazioni tedesche” (le comunicazioni di Joos) e poi “Frugoni giovane”, “Uno scritto su Gentile”, “Dopo la guerra, il ritorno”, “Frugoni professore di liceo: una cronologia”, “Interrogativi e silenzi” – fino al conclusivo capitoletto dal titolo un po’ alla Alberto Sordi “Ipotesi su come fece Frugoni ad arrivare a Salò e a operarvi, a quanti pare, abbastanza tranquillamente, per un anno”.
Si tratta di un percorso non riassumibile, ispirato a una curiosità moralmente onesta e intellettualmente rigorosa, utile pedagogicamente, che vale la pena di seguire nelle parole dell’autore. Nessuno come Gianni Sofri del resto può essere testimone della necessità di intendere l’importanza, a fianco dei fattori di lungo periodo che possono essere individuati, delle complessità, delle accidentalità, dei percorsi soggettivi, delle situazioni mal definite. Testimone anzi tutto col suo percorso scientifico: laureatosi con una tesi sui cattolici liberali toscani del Risorgimento, gli occorse di occuparsi d’Asia in quanto, chiamato a Torino da un suo professore che dirigeva un’enciclopedia storica, dovette sostituire all’ultimo minuto l’incaricato della redazione di dieci paginette sulla Cina, in un modo che fu apprezzato. Il contatto con Carlo Poni lo appassionò poi al dibattito sul “modo di produzione asiatico” individuato da Marx ed Engels, che concerneva fondamentali problemi strategici per i rivoluzionari della Terza Internazionale alle prese con l’azione in paesi non industrializzati come la Cina e l’India (e in parte la stessa Russia): si trattava in sostanza di decidere se spingere questi paesi direttamente verso il socialismo, o lottare per il loro transito per un regime capitalistico borghese. In un’intervista a “Una città” del 2016 Sofri sostiene che ciò che lo salvò dalla prosecuzione di un iniziale entusiasmo ideologico filocinese fu, dopo la pubblicazione sui “Quaderni Piacentini” di un articolo irriverente sulla politica estera di Pechino, ripreso da “Les temps modernes” di Sartre”, l’apertura su “Tel Quel” di “Le cas Gianni Sofri” da parte di un maoista francese, che lo accusava di soggettivismo e di molte altre malefatte previste dal suo gergo ideologico-giudiziario. L’interesse per Gandhi, e di conseguenza per il mondo indiano, fu stimolato a suo dire da un’altra delusione: la constatazione della prontezza senza autocritiche con cui il “non violento” italiano Aldo Capitini, fino ad allora considerato con condiscendenza come fautore ingenuo delle teorie di un rappresentante della borghesia indiana come Gandhi, veniva assunto post mortem come icona delle battaglie della sinistra italiana. Lo studio della vita di Gandhi lo mise poi di fronte ad un altro percorso originale: un indiano del Sudafrica appartenente alla casta dei commercianti, che lottò a lungo solo per la piena emancipazione della sua gente, e pur conservando le abitudini personali tradizionali si ispirò largamente alla cultura occidentale (di cui apprezzò peraltro la corrente vegetariana); conobbe i testi sacri dell’induismo attraverso gli studi britannici, lesse la Bhagavad Gita tardi e si convinse ancor dopo che la lotta per l’emancipazione non poteva limitarsi alla comunità indiana del Sudafrica, ma doveva estendersi a tutti gli Indiani allora sotto la dominazione inglese. Suoi punti di riferimento sarebbero stati per Sofri pensatori come Tolstoj con la “non resistenza al male” del suo cristianesimo anarchico, Thoreau con la sua “civil disobedience” alla guerra col Messico, il critico d’arte Ruskin coi suoi scritti di sociologia e un signor Carpenter di idee liberali che fabbricava da sé le proprie scarpe; ma anche il gioielliere giainista Raychandbhai, che come i suoi correligionari portava la mascherina per non inghiottire inavvertitamente i moscerini, e quindi la tradizione indiana di rispetto degli esseri viventi. Sofri è certo che il suo assassinio, nel 1948, sia stato disposto dal leader dell’opposizione violenta agli Inglesi Savarkar, con cui era in polemica già da prima della Grande Guerra e da cui discende la destra induista dell’attuale premier Modi: portatori di una ideologia (terribile) radicata nel sistema castale indiano, sconvolto ma non sradicato dallo sviluppo ineguale del capitalismo. Certo nell’Europa sconvolta dalle guerre mondiali e dai fascismi le proposte di Gandhi non potevano avere grande ascolto. Purtroppo, come dice anche Sofri, non servivano alla bisogna.
Tornando a “L’anno mancante”, merita una menzione l’appendice dedicata a un “normalista dai capelli rossi”, il cui approdo a Gargnano nei primi mesi del 1945 avrebbe convinto Frugoni, secondo una testimonianza verbale di Joos, a non farvi più ritorno. L’indagine di Sofri giunge alla conclusione che si tratti di Silvio Furlani, studente della Normale con Frugoni, studioso di storia molto brillante, di madre austriaca e di simpatie naziste, usato anche lui come interprete per la sua conoscenza della lingua tedesca. Furlani sarebbe rimasto implicato in gravi azioni di violenze, anche contro la comunità israelitica, nel precedente periodo dell’occupazione tedesca di Pisa, e poi certamente restò al seguito delle truppe tedesche come portamunizioni fino alla battaglia finale coi Russi sul lago ungherese Balaton. L’ipotesi di Sofri è che la presenza di una persona che lo conosceva benissimo e di umori non moderati avrebbe fatto saltare le coperture di cui Frugoni fino ad allora aveva goduto da parte del gruppo di tedeschi interessato alla sua attività. L’aspetto più interessante riguarda il seguito: difesosi valorosamente nelle inchieste che lo riguardarono nel dopoguerra, vinto un concorso alla biblioteca della Camera dei Deputati, Furlani ne raggiunse la direzione, posizione invidiabile per vari motivi, diventando “un personaggio di rilievo nella cultura pubblica italiana ed europea, e nella stessa vita politica, per una riconosciuta competenza sui sistemi elettorali e il funzionamento dei parlamenti. In rete si trova una ricca messe di notizie sulla sua persona, i suoi studi, i riconoscimenti anche internazionali che gli fruttarono e l’interesse vivo che tuttora raccoglie. Aveva i capelli rossi” (p. 101).
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