Luciano Canfora: La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone
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Per segnalare il libro di Luciano Canfora La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Laterza 2014 riportiamo un suo testo pubblicato nella nuova rivista on line di Laterza Eutopiamagazine.eu e una intervista pubblicata su Il Manifesto
1. Luciano Canfora: Alle origini dell’utopia
[Eutopiamagazine.eu, 5 aprile 2014]
Quando nel 1516 Thomas More diffuse – a Lovanio presso l’editore Martens – il suo celebre scritto Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova Insula Utopia diede, con quel doppio titolo, vita ad un gioco verbale che deriva dalla pronuncia di due diverse parole greche, o meglio modellate sul greco, che però si pronuncerebbero, in inglese, allo stesso modo: ou-topos (= luogo che non esiste) ed eu-topos (= luogo felice). Il gioco era intenzionale perché lasciava aperte due possibilità. Suggeriva che la felicità – cioè lo Stato perfetto – coincide con un luogo inesistente, ma lasciava anche adito alla interpretazione più ottimistica: che cioè “un luogo di felicità” potrebbe comunque esistere, o forse è già esistito o addirittura esiste da qualche parte. Perciò il trattatello si presentava come relazione di viaggio, onde adombrare appunto che il luogo felice esistesse da qualche parte sul pianeta. (Analogo procedimento adottò Tommaso Campanella, quasi un secolo dopo, nel 1602, con le isole descritte dal nocchiero di Colombo nella Città del Sole.)
Il modello era antico: quello delle “isole dei beati”, dove approda fortunosamente Odisseo nell’Odissea o anche Giambulo nel secondo libro di Diodoro Siculo (I sec. a.C.). L’idea, antichissima, era che dunque da qualche parte ci fosse, nel pianeta, la sede della felicità. Gli antichi Greci avevano però concepito in proposito anche un’altra idea, molto meno ottimistica, che cioè la felicità (“l’età dell’oro”) appartenesse ad un tempo remotissimo e ormai smarrito per sempre. È l’altro grande autore della grecità arcaica, Esiodo, che la pensa in tal modo e affida questa concezione della “storia come caduta” al suo poema, Le opere e i giorni, dove, al principio, sviluppa la parabola mitico-storica delle cinque età dell’uomo, tutte in discesa.
L’utopia antica è dunque o un viaggio nello spazio o un viaggio nel tempo. In entrambi i casi molto problematico. Inutile dire che il motivo del viaggio nel tempo poteva comportare anche un’idea propositiva: auspicare che quel tempo felice ritornasse, immaginare cioè che “l’età dell’oro” fosse – come ebbe a scrivere Saint-Simon – davanti a noi, nel nostro futuro, non alle nostre spalle. Un tale idoleggiamento per lo più statico, quasi mai accompagnato da impegni di lotta mirante ad attuare la “felicità”, veniva deriso dai comici ateniesi del V e IV secolo a.C. per i quali tale visione era una delle tante stravaganze, o follie, dei filosofi.
La storia della critica dell’utopia è non meno interessante della storia dell’utopia. Entrambe sono istruttive per noi, che siamo oggi destinatari di una predicazione ingannevole a proposito dell'”Europa unita” come luogo “felice” finalmente raggiunto da popoli a lungo infelicissimi come gli europei. L’inganno è palese e perciò non se ne parla quasi mai: l’unione giova ai potenti e schiaccia e ricatta tutti gli altri. Non è notissimo, ma merita un cenno, il fatto che la voce Utopia dell’Enciclopedia Italiana (vol. XXXIV, 1937) sia dovuta a Delio Cantimori, all’epoca libero docente di storia del cristianesimo all’Università di Roma, e che si concluda indicando la “riorganizzazione pacifica dell’Europa”, propugnata da Coudenhove-Kalergi, come una delle tipiche utopie moderne.
Notazione lessicale: secondo la bellissima voce EUROPA (εὐρώπη) del Thesaurus Graecae Linguae di Henri Estienne, la parola, cioè il nome proprio “Europa”, significa “dai begli occhi”, cioè “dagli occhi grandi”, in quanto gli occhi grandi furono un cardine del canone della bellezza femminile greca. E infatti Giunone era detta “βοῶπις”, cioè “dagli occhi bovini”!
Dopo la sconfitta del socialismo può sembrare che non resti nulla, se non utopie. Ma l’utopia è una cosa di enorme importanza, che in realtà è ancora davanti a noi.
La sua storia è assai lunga e ha inizio nella Grecia antica. Qui sono riconoscibili tre tipi diversi di utopia: quella di origine urbana, quella che potremmo definire aristocratica e quella ellenistica. Quest’ultima si sviluppa nell’epoca in cui la Repubblica romana domina il Mediterraneo intero, seppur in conflitto con altre forze, spirituali e sociali : un’utopia nettamente cosmopolita.
L’utopia urbana è rappresentata dalla commedia di Aristofane, un grande personaggio, vissuto nel V secolo prima dell’età nostra, che parlava di utopia anche quando sembrava trattare d’altro. Basta scorrere i titoli delle undici commedie che ci ha lasciato per vedere come l’utopia circoli dappertutto. L’utopia della pace, ad esempio – negli Acarnesi e nella Pace – concepita in una fase in cui tutto il potere ad Atene è bellicista.
O l’utopia della ricerca della felicità attraverso la fuga dalla città, come negli Uccelli, la celebre commedia in cui si immagina una città celeste, rifugio di chi abbandona l’Atene terrestre durante la “caccia alle streghe” dell’anno 415 a.C. O ancora Lisistrata, in cui si affronta il tema dell’uguaglianza dei sessi di fronte alla guerra. Alla fine della sua carriera Aristofane scrive il Pluto sul tema della ricchezza e Le donne al parlamento, la più anti-utopistica delle sue commedie.
Prima di descriverne il contenuto, occorre chiarire che “ciò che oggi chiamiamo ‘popolo’ era cosa del tutto diversa nelle repubbliche cosiddette democratiche dell’antichità”. Ce lo ricorda Alexis de Tocqueville nel suo grande libro Sulla democrazia in America: “quando ci viene raccontato che ad Atene tutti i cittadini prendevano parte agli affari pubblici, occorre tener presente che i cittadini in tutto non erano più di ventimila su una popolazione complessiva di 350.000 abitanti. Tutti gli altri erano schiavi, che svolgevano le funzioni attribuite oggi al ‘popolo’ o anche al ceto medio. Con il suo suffragio universale, Atene dunque era in fondo una repubblica aristocratica, che dava ai nobili uguali diritti a governare”. Aggiungiamo un dato: Tucidide, contemporaneo di Aristofane, attesta che i frequentanti l’assemblea non erano più di cinquemila, dunque una minoranza nella minoranza.
La commedia di Aristofane è un documento essenziale per comprendere questa realtà politica e sociale. L’avvio delle Donne al parlamento consiste in un cambio di regime che consegna alle donne – che ad Atene non godevano di alcun diritto – il governo della città. Nottetempo, approfittando del sonno dei mariti, le donne si travestono da uomini e all’alba occupano l’assemblea e fanno passare un decreto in forza del quale tutto il potere passa alle donne. Una trasformazione brusca e radicale, che fa di queste brave donne, fino ad allora preoccupate solo degli equilibri familiari, delle vere e proprie militanti comuniste. Si produce un cambiamento totale nell’organizzazione sociale. Prassagora, la loro leader, dà prova di uno straordinario talento politico e di non comuni capacità oratorie, nonostante ad Atene l’insegnamento della retorica fosse riservato unicamente agli uomini provenienti dagli strati sociali superiori.
“Dichiaro che occorre che tutti mettano i propri beni in comune – proclama Prassagora – che tutti dispongano di una parte di tali beni e che vivano in modo che non ci siano più il ricco e il povero, che uno coltivi un grande appezzamento di terra e l’altro non ne abbia a sufficienza neppure per farsi seppellire”.
Un discorso che assomiglia a quello che avrebbe fatto tre secoli più tardi Tiberio Gracco, mentre si batteva per i diritti dei contadini di Roma. Nel caso di Aristofane la contrapposizione riguarda donne e uomini, anche se alcuni uomini prendono le parti delle donne e della causa comunistica. Le regole stabilite sono che si mangia tutti insieme, si vive insieme in un edificio senza porte e che non ci sia possesso esclusivo neppure in materia sessuale. Questo fa sì che qualcuno si chieda come faranno i figli a riconoscere i padri e che gli venga risposto che i bambini vedranno i propri genitori in tutti gli adulti.
Qual è lo scopo che si prefigge Aristofane con questa storia? Secondo alcuni quello di fare una malevola caricatura delle utopie diffuse negli strati sociali più poveri di Atene. Altri scorgono una critica del pensiero platonico. Platone nel testo fondamentale del comunismo antico – la Repubblica, vero e proprio manifesto dell’utopia aristocratica – si rifà ad istanze egualitarie circolanti già molto prima di lui, ma introduce come sua peculiare innovazione la “comunanza delle donne” che scatena la reazione di Aristofane. Tra gli antecedenti remoti spicca Caronda, di Catania, il quale aveva scritto un codice di leggi. Secondo tale codice chi avesse voluto modificare la legge avrebbe dovuto presentarsi all’assemblea con una corda intorno al collo, in modo che, se per caso la sua proposta fosse stata respinta, sarebbe stato impiccato seduta stante. La novità dell’impostazione di Caronda – secondo quanto riferisce lo storico Diodoro Siculo – consisteva soprattutto nell’onnipresenza dello Stato nella vita privata dei cittadini. Con una attenzione tutta particolare alla questione dell’alfabetizzazione. Il legislatore catanese infatti era convinto che il benessere discende dalla cultura. Gli illetterati, non essendo in grado di esercitare i loro diritti, sono uomini il cui spirito è paralizzato.
Altri autori utopistici si potrebbero ricordare, come ad esempio Falea di Calcedone, che proponeva la uguale ripartizione della proprietà rurale. Ma torniamo a Platone. Il quale, se letto attraverso Aristotele, rischia di apparire come un utopista e non come portatore di un progetto politico concreto. In realtà Platone cercò di mettere in pratica le sue idee attraverso ripetuti soggiorni in Sicilia. E nel farlo rischiò la vita, cadendo nelle mani dei pirati e finendo nelle prigioni del tiranno siracusano Dionigi.
Il terzo genere di utopia è quella ellenistica, che si divide in due grandi scuole di pensiero: la stoica e l’epicurea, il cui maggiore rappresentante nella letteratura romana fu Tito Lucrezio Caro. Lucrezio visse al tempo della guerra civile tra Cesare e Pompeo e fu contemporaneo di Cicerone. Nel suo grande libro De rerum natura Lucrezio ci presenta il suo ideale di felicità epicurea: osservare dall’alto di un bastione ‘fortificato di saggezza’ lo spettacolo dei contrasti tra gli uomini, quali il desiderio di ricchezza, la follia delle guerre civili, la battaglia per il potere. L’unica salvezza è quella del saggio che – come Eraclito e Democrito – ride o piange per la stessa ragione e cioè a causa della follia degli uomini. Per parte sua Lucrezio propugna il ritorno alla cosiddetta vita prior, cioè lo stadio dell’evoluzione umana caratterizzato da una egualitaria vita non fastosa, ma ridotta ai bisogni essenziali.
Sul versante stoico emerge la figura del fondatore, Zenone. Lo stoicismo risente di molte e diverse influenze, tra cui quella della religione solare che considera gli uomini parte del grande corpo della natura, che tutti ci lega e ci fa parenti. È anche questa una visione che produce utopia. Diodoro Siculo (I a.C.), influenzato dallo stoico Posidonio, fornisce un racconto romanzesco che racchiude un progetto utopico. Protagonista è Giambulo, il quale viene condotto su un’isola felice, l’isola degli adoratori del sole. Essi conoscono tutte le lingue e non hanno bisogno di lavorare, perché la natura produce frutti a sufficienza per tutti e il sole è sempre allo zenit. Tutti dunque possono dedicarsi alla conoscenza, ignorando ogni chiusura familiare e amando tutti i propri bambini senza distinzione, onorando e festeggiando periodicamente il sole.
Al termine dell’età romana si viene affermando una realtà inquietante, che demolisce l’impero dall’interno: la Chiesa cristiana. Il cristianesimo dilaga a partire da un libro elementare, che è – per così dire – il romanzo biografico dell’eroe eponimo di quella religione: il Nuovo Testamento. In rapporto al livello della cultura pagana precedente, l’alfabetizzazione elementare delle masse cristiane, fondata su un unico libro, porta con sé un elemento di barbarie. I contadini, i coloni, i barbari che hanno conosciuto il libro e l’alfabeto grazie alla diffusione del Nuovo Testamento ci appaiono come una realtà inquietante, molto al di sotto del livello intellettuale degli abitanti delle isole del sole. Ma si sa che la storia non ha alcun obbligo di adattarsi alle previsioni dei filosofi.
2. Luciano Canfora: In nome del principio di realtà
[Intervista di Paolo Ercolani, Il Manifesto, 26 marzo 2014]
Se per Aristotele la rappresentazione teatrale produce la purificazione liberatrice delle passioni umane più irrazionali e quindi deleterie, tanto che il più grande dei suoi discepoli, Teofrasto, si spinge a definire la tragedia come la messa in scena della «catastrofe di un destino eroico», allora comprendiamo il motivo di fondo che ha spinto Luciano Canfora a riassumere la questione dell’utopia in questi termini: Aristofane contro Platone. Il teatro del primo, insomma, nella fattispecie della commedia «Ecclesiazuse» («Le donne all’assemblea»), come cura catartica rispetto alle passioni utopistiche, e foriere di regimi liberticidi, contenute nell’opera filosofica e politica del secondo.
Esce in questi giorni l’ennesima fatica del noto filologo barese, con il titolo La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone (Laterza, pp. 448, euro 18). L’incontro è stata l’occasione per discuterne gli snodi fondamentali.
D. La «crisi dell’utopia», come già emergeva nelle pieghe del suo libro precedente («Intervista sul potere», Laterza 2013), sembra più una crisi dello studioso Canfora che, da uomo della sinistra radicale, sente ora di dover evidenziare, pur senza il manicheismo di Popper, eccessi e drammi del pensiero utopistico da Platone a Marx. È così?
R. Ho sempre avversato l’espressione «sinistra radicale»: a) perché radicale è aggettivo comunque connesso alla figura deteriore di Marco Pannella e dei suoi seguaci; b) perché la autocompiaciuta definizione di «sinistra radicale» è appannaggio di esponenti dannunziani come Bertinotti e Vendola; c) sin dal 1976 ho scritto e cercato invano di far pubblicare su «Rinascita» che i comunisti dopo la seconda guerra mondiale sono diventati, con grande merito, i protagonisti principali della lotta per una democrazia progressiva; non potevano, se non riducendosi a macchiette patetiche, pretendere di rimanere le stesse persone che nel 1917–1920 sognarono l’attualità della rivoluzione e furono sconfitti. Il movimento comunista dopo la seconda guerra mondiale è stato la migliore incarnazione della socialdemocrazia: movimento politico fondato da Carlo Marx e Federico Engels. Per chiarezza: il movimento comunista è agli antipodi della nevrosi radicale. Solo nella confusione mentale sessantottesca i due concetti rischiarono di confondersi.
D. Veniamo al libro, e alla sua riproposizione della vexata quaestio che vede in Aristofane l’aggressore del nucleo concettuale della «Repubblica» platonica.
R. Nel 220° anniversario della dissertazione del grande, e dimenticatissimo, studioso tedesco Morgenstern, mi è parso giusto riprendere dalle basi una discussione che si trascinava tra alterne vicende. Ho preferito enucleare i due punti cruciali: 1) tutti ammettono coincidenze, anche verbali, tra la commedia aristofanea «Ecclesiazuse» e il quinto libro della «Repubblica»; 2) l’obiezione che rendeva i moderni esitanti o protesi a ricercare spiegazioni assurde consisteva nella cronologia (Aristofane verrebbe prima). In realtà la data dell’«Ecclesiazuse» è più tardiva di quel che si crede e Platone, per parte sua, aveva già diffuso il nucleo del suo pensiero sulla «kallipolis» prima del viaggio in Sicilia (389 a.C.).
D. Lei parla di uno «scandalo Platone». Il filosofo greco rivoluzionario al punto di proporre quell’emancipazione egualitaria della donna a cui non pervennero neppure Marx ed Engels. Eppure il pensiero femminista non l’ha amato. Ci spiega il suo punto di vista?
R. Conviene distinguere due piani: da un lato l’effetto di rottura costituito dalla proposta platonica della parità uomo-donna (libro IV della Repubblica), dall’altro il presupposto intrinsecamente «maschile» della formula «comunanza delle donne» (libro V). Questa formula implica chiaramente una visione distorta che finisce con l’equiparare donne e beni materiali come proprietà. Ed è proprio su questo punto debole, contrastante col presupposto della parità, che fa leva efficacemente Aristofane nella commedia «Le donne all’assemblea», soprattutto nel finale. Come mi è accaduto di scrivere, Aristofane fa saltare la Kallipolis platonica, assumendo come punto di forza proprio questa contraddizione.
Resta il fatto che l’intuizione della parità è un enorme passo in avanti nei confronti della mentalità greca di età arcaica e classica: la controprova di ciò è nella ostilità dispiegata dai Padri della chiesa cristiana contro Platone, per l’appunto a causa della propugnata idea della parità uomo-donna.
D. In più punti del suo libro emerge una rivalutazione del cosiddetto socialismo utopistico, a tratti persino dileggiato da Marx ed Engels. Può spiegarci il senso della sua «riscoperta?»
R. L’espressione socialismo utopistico spetta soprattutto ad Engels, nel troppo celebre opuscolo «Il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza» (consistente nei primi capitoli dell’anti-Dühring). Nel III capitolo del «Manifesto del partito comunista» – nel quale vengono passati in rassegna i socialismi precedenti – vengono collocati sotto una luce negativa sia i passatisti che auspicano un ritorno alle società arcaiche, bollati come «socialismo medievale», sia i socialisti francesi contemporanei protesi alla attuazione di riforme sociali radicali. Come è chiaro si tratta di cose molto diverse, messe tutte insieme e sommariamente definite tutte utopistiche. Oggi constatiamo che il progetto di trasformazione totale dei rapporti di produzione in senso collettivistico è finito su un binario morto e che invece il gradualismo riformistico della socialdemocrazia appare come la sola forma concreta di rinnovamento della società. Di conseguenza i cosiddetti «utopisti» sono diventati i «realisti» e i loro critici «scientifici» sono rifluiti nel grande mare dell’utopia.
D. Uno dei tratti più storiograficamente azzardati del suo libro consiste nell’istituzione di un nesso fra la coppia Socrate/Platone e Hegel/Marx. Quali i punti di contatto e di difformità da lei evidenziati?
L’analogia tra le due coppie filosofiche è di immediata evidenza. Marx stesso considera il proprio pensiero un capovolgimento materialistico del nucleo originale del pensiero hegeliano. Inoltre, al di là degli elementi biografici, ricordo il tragitto che un tempo veniva sintetizzato nella formula «da Socrate a Platone, dal concetto all’idea» (capovolgimento in senso idealistico del pensiero di Socrate). La difficoltà, semmai, consiste nel fatto che di Socrate, diversamente che di Hegel, non abbiamo l’opera scritta, bensì le molte parafrasi dovute ai suoi allievi. Il più geniale dei quali, cioè Platone, ha escogitato la trovata di mescolare il suo proprio pensiero con quello del maestro (Socrate è persona loquens di tutti i dialoghi, tranne i Nomoi).
D. Platone rappresenta la ragione utopistica, costantemente alla ricerca del «sogno di una cosa». Aristofane la ragione beffarda, pronta a colpire la prima con le armi del realismo e dell’ironia. Quali, secondo lei, gli esiti di questa dialettica storica?
R. La vittoria del realismo beffardo nei confronti di ogni genere di proposta innovativa, bollata come utopistica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripetersi sistematicamente tale scenario. Il realismo beffardo fa capo al senso comune, che talvolta vien voglia di definire «il sesto senso degli idioti».
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