Donata Meneghelli: Per la letteratura. Qualche riflessione a partire dalla crisi degli studi umanistici

| 8 Novembre 2012 | Comments (0)

 

 

 

 

DIBATTITO SUL RUOLO INTELLETTUALI

 

1. Crisi?

Da un po’ di tempo si sente sempre più spesso parlare di crisi della letteratura, dell’insegnamento della letteratura, degli studi letterari; sempre più spesso ci si interroga sul suo ruolo (se pure ancora ne ha uno), sul suo significato culturale e sociale. Negli ultimi anni sono usciti L’Adieu à la littérature. Historire d’une dévalorisation [L’addio alla letteratura. Storia di una svalorizzazione] di William Marx, La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov, La littérature, pour quoi faire? [La letteratura, per farne cosa?] di Antoine Compagnon, L’avenir des humanités. Économie de la connaissance ou cultures de l’interprétation? [L’avvenire degli studi umanistici. Economia della conoscenza o culture dell’interpretazione?] di Yves Citton, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno degli studi umanistici di Martha Nussbaum, Petite écologie des études littéraires. Pourquoi et comment étudier la littérature? [Piccola ecologia degli studi letterari. Come e perché studiare la letteratura?] di Jean-Marie Schaeffer, per citare solo i titoli più recenti nei quali circola un verbale di decesso lasciato in sospeso1.

Questo insieme di domande, lamenti o grida di allarme sta diventando un topos del discorso accademico e/o intellettuale ormai talmente abusato che Flaubert, se fosse vivo, non esiterebbe a inserirlo nel suo Dizionario dei luoghi comuni, o addirittura nel Catalogo delle idee chic. E del resto, nel Dizionario, leggiamo (veramente!) alla lettera e: «epoca (la nostra). Inveire contro. Lamentarsi perché manca di poesia. / Chiamarla “epoca di transizione, di decadenza”»2.

Ciò non toglie che sicuramente qualcosa è successo o sta succedendo, ed è impossibile non accorgersene. Da una parte, la letteratura appare marginalizzata nei rapporti di forza tra i media, la sua centralità nella formazione individuale è tramontata, altri linguaggi, altre forme comunicative hanno conquistato l’egemonia nel ruolo di catalizzatori dell’immaginario; viene sempre più spesso “dissolta” in nozioni più ampie come «i mezzi di comunicazione, i vari strumenti espressivi, le molteplici forme della cultura»3, oppure liquidata da molti commentatori come una pratica e un oggetto inesorabilmente obsoleti. Dall’altra, gli studi letterari hanno perso gran parte del loro peso e del loro prestigio sia nell’insegnamento secondario che nei curricola universitari. Questo secondo aspetto, tra l’altro, ha un carattere duplice. La crisi degli studi letterari partecipa di una crisi più generale delle scienze umane rispetto all’avanzata di un “sapere” (le virgolette sono d’obbligo) non tanto scientifico quanto, come ha notato giustamente Remo Ceserani, tecnocratico e applicativo4. Nello stesso tempo, però, gli studi letterari sembrano aver perso molta della centralità di cui godevano, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, all’interno dello stesso campo delle scienze umane.

Detto questo, non è chiaro fino in fondo a che cosa si alluda esattamente quando si parla di “crisi” nel contesto di tali discussioni. Se si tratti di una crisi che investe la produzione e la circolazione editoriale della letteratura, e soprattutto della “buona” letteratura (della letteratura di qualità, della letteratura “alta”, dei classici, del canone… tutte nozioni oggi molto problematiche), oppure che investe la sua fruizione, vale a dire la lettura (quanto si legge e cosa). A tale proposito, Schaeffer sgombra il campo da una serie di equivoci e – ancora una volta – di luoghi comuni, ricordando che «mai, nella storia dell’umanità, si è letto tanto quanto oggi», e che «il tasso di alfabetizzazione delle generazioni attuali è molto superiore rispetto a quello che esisteva alla fine del XIX secolo», anche grazie a internet, che è insieme causa ed effetto della capacità diffusa di leggere e scrivere5. E conclude affermando che quella che viene chiamata “crisi della letteratura” non è una crisi delle pratiche letterarie, ma dei modi sclerotizzati in cui la letteratura viene indagata, concepita, insegnata, trasmessa dalle istituzioni delegate a questo scopo: scuola, università, comunità scientifiche, centri di ricerca6.

 

2. Risposte?

Rispetto a questa situazione, a questi cambiamenti e a queste paure, le risposte sono diverse. C’è chi, come Todorov, imputa questa crisi alle poetiche formaliste, allo strutturalismo, e insieme a una sorta di iperfetazione della teoria, e auspica un ritorno al testo come spazio in cui sperimentare un «ampliamento interiore» e una più profonda comprensione della condizione umana, soprattutto nei suoi aspetti etici ed empatici:

Tale ampliamento interiore […] non può essere formulato in proposizione astratte, ed è per questo che facciamo tanta fatica a descriverlo; rappresenta piuttosto l’inclusione nella nostra coscienza di nuove maniere di essere, accanto a quelle che già possediamo. […] Ciò che i romanzi ci donano non è un nuovo sapere, ma una nuova capacità di comunicazione con esseri diversi da noi; in questo senso, partecipano più della morale che della scienza7.

Posizione che appare un po’ sconcertante da parte di uno dei protagonisti della teoria letteraria del Novecento, soprattutto nel momento in cui si associa a un’insofferenza forse eccessiva nei confronti degli strumenti di analisi, che invece (ci tornerò) hanno o possono ancora avere una forte valenza politica.

Anche Martha Nussbaum insiste sugli aspetti etici ed empatici, brandendo gli studi umanistici in generale, e non solo la letteratura, proprio come arma contro la tecnocratizzazione del sapere: «La capacità di pensare e argomentare da sé appare a molti superflua, se tutto ciò che vogliamo sono risultati di natura quantificabile in termini commerciali»; mentre lo «spirito umanistico» stimola il «pensiero critico, la sfida dell’immaginazione, la vicinanza empatica alle esperienze umane più varie, nonché la comprensione della complessità del mondo nel quale viviamo»8. Tutto vero, ci mancherebbe altro. Solo che simili (sacrosante) rivendicazioni si accompagnano a una visione quasi “strumentale” della letteratura, in base alla quale un’economia di mercato forte richiede «l’apporto degli studi umanistici e artistici».

Quindi, non siamo costretti a scegliere fra una forma di educazione che promuove il profitto e una forma di educazione che promuove la buona cittadinanza. Un’economia fiorente richiede le stesse qualità formative che rafforzano la buona cittadinanza, e in realtà i partigiani di quella che chiamerò “formazione per il profitto”, o (in termini più generali) “formazione per la crescita economica”, sposano una visione impoverita di ciò che è richiesto proprio per raggiungere il loro scopo9.

Non credo che Marchionne o la Goldman Sachs potranno essere convertiti, anche perché, come è ormai chiaro a tutti, profitto e generica crescita economica sono in netta opposizione (per non parlare della decrescita e delle sorti del pianeta). E ho qualche dubbio che le multinazionali scoprano un bel giorno di avere bisogno di creatività, senso critico o flessibilità mentale, doti le cui quotazioni di mercato appaiono oggi piuttosto basse. Ma ne ho ancora di più sul fatto che la letteratura, per garantire la propria sopravvivenza, debba dimostrare di “servire” a qualche cosa: allo sviluppo di un’economia fiorente, di una cittadinanza responsabile, di una capacità di comprensione dell’Altro. Questa strategia di difesa mi sembra non solo perdente ma sbagliata per due ragioni. Primo, perché finisce implicitamente per legittimare quella stessa logica che vorrebbe combattere. Secondo, perché qualunque richiamo a una fantomatica missione educativa dei testi letterari dovrebbe insospettirci: si comincia da lì e non si sa bene dove si arriva, probabilmente alla censura, a cui infatti approda, suo malgrado, Nussbaum:

[…] ci sono tante opere d’arte che stimolano simpatie inopportune. […] La componente immaginifica della formazione democratica richiede un’attenta capacità di selezione10.

Certo, non bisogna dimenticare che Non per profitto è poco più di un pamphlet, e che Nussbaum ha scritto cose di ben altro peso e di ben altro spessore sulla dimensione etica della letteratura11. Ciò non toglie che le dichiarazioni appena citate appaiano un po’ imbarazzanti e stranamente inadeguate a fare i conti tanto con gli sfaccettati fenomeni letterari, quanto con la crisi sociale e culturale che stiamo attraversando.

Più lucida e interessante mi sembra la posizione di Schaeffer, di cui voglio sottolineare soprattutto tre aspetti. In primo luogo, Schaeffer decostruisce la nozione normativa di “letteratura” che è ancora egemone all’interno di larghi settori delle istituzioni educative e scientifiche, mostrandone l’inadeguatezza in rapporto alle trasformazioni che hanno investito il campo letterario e, più in generale, culturale: dalle dinamiche di democratizzazione che dal XIX secolo riconfigurano incessamente i rapporti tra cultura alta e cultura popolare, al cinema e alla televisione come forme di diffusione della finzione (anche letteraria), fino all’entrata in scena – come abbiamo già visto – del supporto elettronico. Poi, compie un’indagine serrata sullo statuto epistemologico degli studi letterari. Infine, propone una serie di strategie euristiche e insieme pragmatiche per riposizionare, anche istituzionalmente, lo studio della letteratura nella più vasta area delle scienze umane.

Sono d’accordo con Schaeffer su molti punti, e il suo libro meriterebbe senza dubbio un’analisi più approfondita. Ma qui voglio prendere un’altra strada. Quella di affermare sic et simpliciter l’importanza della letteratura, certo fuori da qualunque visione normativa, postulando che non c’è bisogno di difenderla o di giustificarla. Sulla scorta, se vogliamo, dello splendido paradosso che Brecht fa pronunciare a Galileo: «La verità, quando è troppo debole per difendersi, deve passare all’attacco»12.

Raggrupperò i “valori” – la parola non mi piace, ma non riesco a trovarne una migliore – che la letteratura è (ancora) in grado di attualizzare o di mettere in gioco sotto tre rubriche fondamentali, le quali del resto, prevedibilmente, si intrecciano e si sovrappongono di continuo: valori di ordine concettuale, valori linguistico-retorici, valori cognitivi. Queste tre rubriche, a loro volta, posso essere sussunte sotto una qualità o attività più generale: la letteratura pensa.

 

3. La letteratura pensa

Nel 1977, nella Lezione pronunciata in occasione dell’istituzione della cattedra di Semiologia letteraria al Collége de France, Roland Barthes designava con il concetto greco di Mathesis una delle «forze» della letteratura: la sua forza propriamente conoscitiva. Nel discorso di Barthes (il quale si rifà del resto al significato originario del termine), Mathesis indica la capacità della letteratura di «assumere in sé» una molteplicità di cognizioni tecniche, antropologiche, storiche, geografiche, filosofiche, di farsi enciclopedia mobile, centrifuga, di tutti i saperi e di tutte le scienze:

Se […] tutte le nostre discipline, tranne una, dovessero essere espuntate dall’insegnamento, l’unica che dovrebbe essere risparmiata è la disciplina letteraria, poiché nel monumento letterario sono presenti tutte le scienze. È in questo senso che si può dire che la letteratura, quali che siano le scuole alle quali essa dichiara di appartenere, è assolutamente, categoricamente realista: essa è la realtà, o, per essere più precisi, essa è il bagliore del reale. Tuttavia, e in ciò è veramente enciclopedica, la letteratura fa ruotare le cognizioni: essa non ne fissa, non ne feticizza nessuna; essa dà loro una collocazione indiretta, e questa collocazione indiretta è preziosa. Da una parte, permette di designare delle conoscenze possibili – insospettate, incompiute: la letteratura opera negli interstizi della scienza: nei suoi confronti essa è sempre in ritardo o in anticipo […]. Dall’altra parte, il sapere che la letteratura mobilita non è mai assoluto né ultimo […]. Per il fatto che mette in scena il linguaggio, invece, semplicemente, di utilizzarlo, la letteratura introduce il sapere nell’ingranaggio della riflessività infinita: attraverso la scrittura, il sapere riflette incessantemente sul sapere, in base a un discorso che non è più epistemologico ma drammatico13.

In anni più recenti, molti altri si sono interrogati sulla capacità della letteratura di raccogliere, riconfigurare e interpretare le conoscenze; di produrre pensiero e soprattutto di mettere in questione – secondo sue proprie modalità – la conoscenza stessa. La riflessione filosofica sulla letteratura ha varcato i confini classici dell’estetica per aprirsi ad uno spettro molto più ampio di questioni che delineano i contorni di una vera e propria «filosofia della letteratura»: dai fondamenti logici ed antropologici della finzione al rapporto della letteratura con la verità, dalla funzione cognitiva della letteratura (che tipo di conoscenza acquisiamo dalla letteratura? Si tratta di una conoscenza che la letteratura esibisce o provoca? Possiamo esprimere questa conoscenza in termini preposizionali senza banalizzarla?) alla possibilità di fondare una nuova etica a partire dal particolare tipo di esperienza che offrono i testi letterari (empatia, knowing what it’s like, etc.)14. Dal canto loro gli studi letterari – talvolta in convergenza con la riflessione filosofica, talvolta invece percorrendo strade parallele se non divergenti – hanno ripreso e sviluppato i suggerimenti di Barthes, non solo indagando le strategie attraverso le quali i testi letterari «assumono in sé» la molteplicità dei saperi scientifici e più in generale culturali, ma chiedendosi se esiste una modalità di pensiero letteraria, che tipo di pensiero producono i testi letterari e come conosce o pensa la letteratura15.

 

4. Come pensa la letteratura?

Si può dare una prima risposta a questa domanda, forse banale ma ineludibile. La letteratura pensa attraverso l’incorporazione, la “messa in scena” di contenuti filosofici o ideologici nel tessuto del testo: attribuendoli a personaggi fittizi, come avviene con «La leggenda del Grande Inquisitore» che Ivan racconta ad Aljoša nei Fratelli Karamazof, e che costituisce (tra le altre cose) una spietata requisitoria sui rapporti tra religione, etica e giustizia sociale; o a una voce narrante più o meno vicina a quella dell’autore, come nella teoria della storia enunciata alla fine di Guerra e Pace, sulla quale non a caso il filosofo Isaiah Berlin ha potuto scrivere un saggio magistrale16. Questa messa in scena, però, come sottolinea acutamente Pierre Macherey, trasforma quei contenuti in una forma particolare di conoscenza o di verità: ne fa un enigma sempre differito, una posta in gioco «che non si dà indipendentemente dal processo attraverso il quale è ricercata». Si tratta, insomma, di un pensiero impuro, messo in situazione, radicato in una contingenza, esposto al rischio e allo scacco.

[…] questa verità non è accessibile nella forma di una verità pura, e come tale esente da qualunque rischio di deriva, di equivoco o di errore; al contrario, essa non acquista senso e forma [figure] che sullo sfondo di queste approssimazioni o deformazioni, così come emerge nel movimento pratico della vita […]; la letteratura sarebbe dunque, a differenza della filosofia dei filosofi, un pensiero in atto, colto nel suo prodursi in un dato tempo e in un dato luogo, attribuito a un punto di vista singolare […]17.

Una seconda risposta, forse un po’ meno scontata, è che la letteratura pensa attraverso ciò che viene definito «paratesto»: prefazioni, autocommenti, lettere, interviste, dichiarazioni. Si tratta di luoghi strategici dove si sviluppa un pensiero che non solo avvolge il testo letterario, ne accompagna la produzione e la ricezione, ma vi penetra dentro, lo percorre come una corrente elettrica capace di accendere o riattivare molteplici reti di significazione, in una tensione dialettica mai risolta tra legge generale e caso esemplare che sposta o negozia continuamente le stesse soglie del testo. Si tratta, è facile comprenderlo, di un pensiero relazionale, che convoca sempre i lettori in quanto bersagli, antagonisti, interlocutori immaginari; e di un pensiero bifocale, perché insieme autoriflessivo (l’opera pensa se stessa) e aperto su gli infiniti percorsi che legano l’opera al mondo, alla realtà storica e sociale, alla tradizione, ai codici culturali, ai saperi extra-letterari.

Altre risposte sono ipotizzabili, se invece di puntare su zone specifiche (il paratesto, il discorso dei personaggi, i commenti o le generalizzazioni enunciate dalla voce narrante) consideriamo il testo letterario nella sua globalità, secondo una prospettiva trasversale.

La letteratura pensa attraverso una sovversione sistematica dei limiti del linguaggio, che è all’incirca quanto suggerisce Barthes nel passo che abbiamo citato. Rendendoci consapevoli, per esempio, del fatto che il linguaggio non è (mai) uno strumento neutrale e trasparente che veicola il pensiero o le rappresentazioni, ma un sistema complesso che parla alle spalle (e al di là delle intenzioni) del suo autore, o che comunica in maniera indiretta, dicendo molto più di quanto sembri affermare. Ed è in questo senso che gli strumenti di analisi letteraria possono anche diventare (e sono stati) armi per decostruire le stratificazioni ideologiche di cui il linguaggio è intriso, come mostra – per fare solo un esempio – l’opera di un grande teorico della letteratura, Michail Bachtin.

La letteratura pensa problematizzando la categoria del possibile, secondo una tradizione che dalla Poetica di Aristotele arriva fino a Musil e alla narrativa controfattuale, ossia a tutti quei romanzi che, come La svastica sul sole di Philip Dick, ci mostrano ciò che la realtà avrebbe potuto/potrebbe essere. La letteratura pensa attraverso la metafora, come ci hanno insegnato, tra gli altri, Richard Boyd, Max Black, Lakoff e Johnson: metafora che è uno strumento straordinario di concettualizzazione o di indagine dei fenomeni; e che – grazie alle somiglianze e alle connessioni che crea tra campi semantici e/o esperenziali anche lontanissimi – può svolgere addirittura una funzione analoga a quella dei modelli nella scienza18.

Sempre collocandoci in una prospettiva trasversale, un’ulteriore risposta è che la letteratura pensa attraverso la mimesis praxeos, intesa non solo e non tanto come rappresentazione di azioni ma come strumento di comprensione della (e di riflessione sulla) dinamica dell’azione umana, secondo la lettura di Aristotele fornita da Paul Ricoeur. In altre parole, una delle modalità fondamentali di pensiero della letteratura è il racconto, inteso non come genere letterario (testo narrativo breve), ma come «messa in intrigo», per riprendere la definizione di Ricoeur. Su questo punto vale la pena di soffermarsi un po’ più a lungo, per ragioni che appariranno chiare tra poco.

In questa accezione, racconto (o narrazione, secondo una terminologia più invalsa in ambito italiano) designa un modo di comprensione di fenomeni eterogenei: le azioni e/o gli eventi diventano intelligibili e dotati di senso grazie alla loro strutturazione secondo rapporti temporali che assumono valore di nessi causali, diventano operatori di razionalità. Così, in Tempo e racconto I, Ricoeur definisce la «messa in intrigo» o configurazione narrativa:

l’operazione che unifica in un’azione intera e completa il diverso costituito dalle corcostanze, dai fini e dai mezzi, dalle iniziative e dalle interazioni, dai rovesci di fortuna e da tutte le conseguenze non volute derivate dall’azione umana19.

O, ancora:

Comprendere la storia vuol dire comprendere come e perché gli episodi successivi hanno condotto a questa conclusione, la quale lungi dall’essere prevedibile, deve essere congrua con gli episodi raccolti. […] l’arrangiamento configurante trasforma la successione degli eventi in una totalità significante, che è il correlato dell’atto di raccogliere gli avvenimenti e fa sì che la storia si lasci seguire20.

Ma l’atto configurante è molto più dell’organizzazione di una serie di eventi in un testo secondo i principi di coerenze e di intelligibilità. Il racconto in quanto sintesi dell’eterogeneo è ciò che permette di rifigurare il tempo umano, di semplificarne e dominarne le aporie; è dunque un sistema simbolico che media l’esperienza e in quanto tale si trova il centro di un processo complesso che Ricoeur definisce «triplice mimesis». C’è una «struttura prenarrativa dell’esperienza» (mimesis I) che è il presupposto dell’attività di configurazione:

[…] l’esperienza in quanto tale ha una iniziale narratività che non deriva, come si dice, dalla proiezione della letteratura sulla vita, ma che costituisce un’autentica domanda di racconto21.

Possiamo concepire questa «struttura prenarrativa» nei termini di un dispositivo concettuale, di una competenza, di un insieme di codici, di un repertorio, ma anche di una serie di elementi che funzionano come induttori di racconto. Esiste insomma una correlazione o una solidarietà/complicità tra le strutture narrative del testo e la temporalità della praxis, che fornisce una sorta di ancoraggio, consentendoci di riconoscere nel racconto elementi che ci sono in qualche modo familiari e nello stesso tempo di azionare la macchina narrativa. Ma solo la configurazione (mimesis II), ossia il testo narrativo (e soprattutto letterario), inserisce quegli elementi, vale a dire il guazzabuglio di azioni particolari che costituiscono la quotidianità, in una totalità temporale effettiva e in tal modo conferisce ad essi significato.

Lo stesso racconto, tuttavia, non avrebbe valore se non fosse capace di agire sulla realtà (storica, politica, esistenziale) degli individui. Attraverso la lettura, il testo modella l’esperienza – reale e immaginaria – dei suoi destinatari (mimesis III), ci fornisce strumenti per interpretare le storie potenziali in cui siamo immersi senza capirle, senza vederle, per venire a patti con la finitezza, l’impotenza e la morte, e in questo modo riscatta «l’implicazione passiva dei soggetti dentro storie che si perdono in un orizzonte nebuloso»22. Dalla visione di ogni evento in termini relazionali, ossia per il contributo che fornisce allo sviluppo di un intrigo, al potere di circoscrivere delle sequenze individuando un esito, una fine; dalla possibilità di problematizzare gli stessi rapporti tra cause ed effetti, tra connessione logica e connessione temporale, all’intrigo come «straordinario laboratorio del probabile»23, il racconto si presenta, nella riflessione di Ricoeur, come una strategia epistemologica fondamentale in cui si saldano letteratura e vita. È la letteratura, insomma, a sua volta «laboratorio» privilegiato del racconto, che ci consente di pensare il tempo, o addirittura che lo pensa per noi: e possiamo dire, come minimo, che non è poco.

Le riflessioni di Ricoeur hanno segnato un evento memorabile negli studi letterari, filosofici e, più in generale, nelle scienze umane. Negli ultimi vent’anni, l’idea che il racconto corrisponda a una forma di comprensione si è talmente diffusa da diventare un altro candidato potenziale per quel nuovo Dizionario dei luoghi comuni ancora in cerca del suo Flaubert. Secondo gli approcci più recenti, il racconto è un vero e proprio stile o strumento cognitivo, che produce un tipo di sapere alternativo rispetto ad altre modalità di pensiero e di indagine (argomentative, scientifiche, astratte). David Herman, uno dei più accesi fautori di questo approccio cognitivo, scrive:

[…] le storie sono un potente strumento di pensiero, vale a dire uno strumento cognitivo utilizzato come strategia di organizzazione o di problem-solving nei più diversi contesti. […] Invece di concentrarsi su come le persone interpretano le storie […] la ricerca sul racconto come strumento cognitivo sottolinea il modo in cui le storie supportano o sviluppano l’intelligenza stessa24.

Ciò significa che negli ultimi vent’anni si è registrato un interesse culturale crescente nei confronti del racconto oltre i confini degli studi letterari: molti hanno parlato di una «svolta narrativa» che ha investito e sta ancora investendo i campi disciplinari, la produzione e la trasmissione del sapere, le procedure di analisi e, più in generale, il modo in cui un insieme di osservatori variamente collocato (dalle comunità scientifiche ai mass media) decifra e interpreta la realtà25. Lo studio della narratività ha varcato i confini della letteratura, del mito, del folklore, tradizionalmente i suoi domini elettevi, per imporsi non solo nelle scienze umane o in campi caratterizzati da una indubbia dimensione linguistica e/o testuale (giurisprudenza, storiografia, psicanalisi, antropologia), ma in ambiti considerati per tradizione non narrativi, dalle arti visive alle scienze sociali o naturali, dalla teoria della comunicazione al marketing, dalla propaganda politica alla medicina.

 

5 . Conclusioni: a cosa serve la letteratura

Evviva! In quanto studiosi di letteratura, dovremmo esserne contenti e tirare un sospiro di sollievo, pensando che almeno ci salverà il racconto. Si potrebbe pensare, infatti, che la «svolta narrativa» implichi una nuova centralità della nostra disciplina: in fin dei conti, non è forse la letteratura il luogo in cui il racconto si manifesta in modo più ricco ed esemplare? E che dunque, attraverso il racconto, gli studi letterari esportino in altri campi e in altre discipline modalità di comprensione e di pensiero elaborate a partire dalla letteratura o prodotte dalla letteratura, come ha sostenuto Remo Ceserani nel libro che abbiamo più volte citato26.

Può darsi che sia ver o: che con la svolta narrativa la letteratura riconquisti una (perduta) posizione di prestigio nel campo delle scienze umane e forse anche nel campo più vasto della conoscenza; che essa possa ricollocarsi a un qualche incrocio di una nuova rete interdisciplinare. Ma le cose non mi sembrano così semplici, e le ricadute sulla letteratura di questa egemonia del racconto o della narrazione che dir si voglia sollevano direttamente o indirettamente parecchi problemi27. Qui mi limito ad affrontarne due, sui quali voglio concludere

Il primo è: quali racconti? Attraverso quali storie siamo invitati a pensare? I modelli di racconto (letterario) che vengono esportati in altri campi disciplinari, che apertamente o meno vengono elevati a paradigma, sono spesso quelli del romanzo “classico”, nei sui aspetti – potremmo aggiungere – più normativi (o comunque interpretato in termini normativi). In altre parole, il “racconto ben fatto”, dove tutti i conti tornano, costituito da un flusso temporale non necessariamente lineare ma coerente, unitario, in cui gli eventi trovano posto; un flusso che segue la misura degli orologi e dei calendari, che ci dà la certezza che qualunque buco, salto o frattura verrà alla fine saturato. Come sappiamo, invece, il modernismo e il postmodernismo hanno sviluppato una critica radicale al racconto, sottolineandone l’inadeguatezza proprio in quanto strumento cognitivo ed epistemologico, aprendo un divorzio tra letteratura e narratività che si e protratto per larga parte del XX secolo. Questo divorzio è sintetizzato perfettamente in una notissima pagina dell’Uomo senza qualità:

[…] gli venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: «Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro». Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: «allorché», «prima che» e «dopo che»! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco. Da questo il romanzo ha tratto artisticamente vantaggio; il viandante ha un bel camminare per la strada maestra sotto una pioggia torrenziale o gemere coi piedi nella neve a venti gradi sotto zero, il lettore non ne ricava che un sentimento di benessere […]. Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. […] a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un «corso» si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos28.

Troppe sono le risonanze di questa pagina di Musil per poterle seguire nello spazio che ci rimane. Basti dire qui che la critica della ragione narrativa si è sviluppata anche a partire da una nuova nozione di realismo e da un rifiuto della verosimiglianza aristotelica. Quando mai – dicono implicitamente o esplicitamente non solo Robert Musil ma William Faulkner, James Joyce, Marcel Proust, Virginia Woolf – la vita umana ha avuto un inizio, un centro, una fine? Quando mai la memoria, la percezione individuale, ha seguito l’ordine cronologico o anche solo un principio di coerenza? Quando mai il tempo esistenziale ha coinciso con quello degli orologi e dei calendari? Bisogna chiedersi, allora, se la valorizzazione del racconto non si affermi contro la linea antinarrativa (e “sovversiva”) della letteratura del Novecento, fondata su un pensiero che rifiuta di naturalizzare o addomesticare la realtà, i fenomeni, l’esperienza. Anche Ricoeur, del resto, che pure difende l’ordine del racconto, ha dovuto riconoscere che l’attività di configurazione «resta l’opera di ciò che conviene chiamare una violenza dell’interpretazione»29.

Veniamo ora al secondo problema. E qui riprendo – provocatoriamente – proprio la domanda che avevo all’inizio rifiutato, ma in tutt’altro senso: a che cosa serve la letteratura? Che cosa vogliamo farcene in quanto lettori? Perché, come ha scritto Nabokov in un romanzo molto bello, «nel bene come nel male, è il commentatore ad avere l’ultima parola»30.

Sempre più spesso, nella cultura contemporanea, vediamo emergere due opposte concezioni della letteratura. Da una parte, un’idea di letteratura come luogo del disordine categoriale, delle tensioni irrisolte, come esperienza straniante che suscita e incrementa l’inquietudine, che diffonde «il turbamento nell’esercizio del pensiero»31. E in questa concezione, per tornare un’ultima volta al pamphlet di Nussbaum, svolgono un ruolo fondamentale anche i testi non “politicamente corretti”. Dall’altra, una concezione “normalizzante”, secondo la quale la funzione della letteratura è quella di calmierare le lacerazioni della Storia, di risolvere le contraddizioni dell’ideologia, di ricondurre il disordine del mondo entro schemi più leggibili e rassicuranti, perfettamente esemplificata dalle posizioni di un critico come Franco Moretti:

il “piacere” letterario […] nasce […] dalla percezione di una forma capace di ridurre, di “legare” le tensioni e gli squilibri che caratterizzano l’esperienza quotidiana32.

In questa prospettiva, la letteratura diventa essa stessa una «strategia di problem-solving» per navigare in un mondo sempre più complesso, inafferrabile, insieme globale e parcellizzato; e svolge essenzialmente una “funzione di adattamento”, ci insegna non solo a patteggiare con la realtà ma ad accettarla. Tra queste due concezioni, è forse venuto il momento di fare una scelta.

 

 

1 Per chi fosse interessato, ecco le indicazioni bibliografiche dei saggi in questione : W. Marx, L’Adieu à la littérature. Histoire d’une dévalorisation, Paris, Minuit, 2005; T. Todorov, La letteratura in pericolo, Milano, Garzanti, 2007; A. Compagnon, La littérature, pour quoi faire?, Paris, Fayard, 2008; Y. Citton, L’avenir des humanités. Économie de la connaissance ou cultures de l’interprétation ?, Paris, La Découverte, 2010 ; M. Nussbaum, Non per profitto, Bologna, il Mulino, 2011; J.M. Schaeffer, Petite écologie des études littéraires, Vincennes, Thierry Marchaisse, 2011.

2 G. Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni, Milano, Adelphi, 1980, p. 49.

3 R. Ceserani, Convergenze. Gli strumenti letterari e le alter discipline, Milano, Bruno Mondadori, 2010, p. 1. Ma si veda anche il Report del 1993 della American Comparative Literature Association: «Questi modi di contestualizzare la letteratura nei campi più vasti del discorso, della cultura, dell’ideologia, della razza e del gender sono così diversi dai vecchi modelli degli studi letterari […] che il termine “letteratura” potrebbe non essere più adeguato per descrivere il nostro oggetto di indagine». Ch. Bernheimer (a cura di) Comparative Literature in the Age of Multiculturalism, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1995, p. 42.

4 R. Ceserani, Convergenze, cit., p. 3.

5 J.-M. Schaeffer, Petite écologie des études littéraires, cit., p. 9.

6 Ibidem, pp. 14-15.

7 T. Todorov, La letteratura in pericolo, cit., pp. 76-77.

8 M. Nussbaum, Non per profitto, cit., p. 65 e p. 26.

9 Ibidem, p. 29.

10 Ibidem, p. 123.

11 Si vedano almeno M. Nussbaum, Love’s Knowledge. Essays on Philosophy and Literature, New York and Oxford, Oxford University Press, 1990, e Id., La fragilità del bene: fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna, il Mulino, 2011.

12 B. Brecht, Vita di Galileo, Torino, Einaudi, 1963, p. 40.

13 R. Barthes, Lezione, in Sade, Fourier, Loyola, seguito da Lezione, Torino, Einaudi, 2001, pp. 180-181.

14 Su questi temi la bibliografia ha ormai raggiunto proporzioni imponenti. Sulla filosofia della letteratura si vedano almeno: Ph. Sabot, Philosophie et littérature. Approches et enjeux d’une question, Paris, PUF, 2002; R. Eldgidge (a cura di), The Oxford Handbook of Philosophy and Literature, New York and Oxford, Oxford University Press, 2009. Sulle questioni della finzione e della verità letteraria, si vedano almeno: N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Roma-Bari, Laterza, 2008; P. Lamarque, S.H. Olsen, Truth, Fiction and Literature, Oxford, Calrendon Press, 1994; J.M. Schaeffer, Pourquoi la fiction, Paris, Seuil, 1999. Sulla dimensione etica della letteratura, si vedano i già citati testi di Nussnaum.

15 P. Macherey, À quoi pense la littérature?, Paris, PUF, 1992.

16 I. Berlin, Il riccio e la volpe e altri saggi, Milano, Adelphi, 1986. È chiaro che gli esempi potrebbero essere moltiplicati, anche limitandosi agli autori con più marcata vocazione filosofica, da Dante a Shakespeare, da Diderot a Gorge Eliot, per non parlare della contaminazione tra saggio e romanzo che ha svolto un ruolo cruciale nella letteratura del Novecento (si pensi solo a Musil, a Borges o a Calvino).

17 P. Macherey, Littérature et/ou Philosophie, 25 maggio 2011, in http://philolarge.hypotheses.org/date/2011/05 (ultima consultazione: marzo 2012). Traduzione mia.

18 R. Boyd, Th. Kuhn, La metafora nella scienza, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 98.

19 P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. I, Milano, Jaka Book, 1984, p. 9.

20 Ibidem, p. 112.

21 Ibidem, p. 121.

22 Ibidem, p. 123.

23 Ibidem, p. 275.

24 D. Herman, Narrative As a Cognitive Instrument, in D, Herman, M. Jahn, M.-L. Ryan (a cura di), Routledge Encyclopedia of Narrative Theory, London and New York, Routledge, 2005, p. 349.

25 M. Kreiswirth, Narrative Turn in the Humanities, in Routledge Encyclopedia of Narrative Theory, cit., pp. 377-382. Anche sul racconto nei diversi ambiti e nelle diverse discipline, la bibliografia ha armai raggiunto proporzioni quasi ingestibili. Si vedano almeno: C. Nash (a cura di), Narrative in Culture, London and New York, Routledge, 1994; S. Heine, R. Sommer (a cura di), Narratology in the Age of Cross-Disciplinary Research, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 2009; Ch. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, Fazi, 2008; Y. Citton, Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche, Paris, Éditions Amsterdam, 2011,

26 R. Ceserani, Convergenze, cit.

27 Affronto più estesamente queste questioni nel mio libro Contro il racconto? Nell’era della narratività totale, Milano, Morellini, in corso di stampa

28 R. Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1996, vol. I, p. 739.

29 P. Ricoeur, Tempo e racconto, cit., p. 111.

30 V. Nabokov, Fuoco pallido, Milano, Adelphi, 2002, p. 30.

31 P. Macherey, Littérature et/ou Philosophie, cit. Tradizione mia.

32 F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, p. 177.

 

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About Donata Meneghelli: Donata Meneghelli è professore associato di Letterature comparate e Teoria e storia dei generi letterari all’Università di Bologna. Dal 2003 al 2005 ha insegnato presso il Master europeo su letteratura e immagine (LITEVA (Literary Text in the Visual Age), coordinato dall’Università di Leuven, occupandosi in particolare dei rapporti tra testo narrativo e fotografia. I suoi interessi si concentrano sulla teoria e la storia del romanzo: in questo ambito si è occupata della riflessione sul romanzo di Henry James, di narratologia, del nouveau roman, degli usi critici della biografia, dell’adattamento teatrale e cinematografico, approfondendo i rapporti tra letteratura e cinema, di letteratura e pittura tra ilXIX e il XX secolo, del romanzo italiano contemporaneo. Ha scritto saggi su Joseph Conrad, Jean Rhys, Alain Robbe-Grillet, Sophie Calle, la letteratura italiana della migrazione. Tra le sue pubblicazioni: Una forma che include tutto (Il mulino, 1997), Teorie del punto di vista (La nuova Italia, 1998), Opere e vite (numero monografico della rivista «Inchiesta letteratura», Dedalo, 2000), Finzioni dell’io nella letteratura italiana dell’immigrazione («Narrativa», n. 28, 2006), Racconto/Narrazione, in Dizionario tematico della letteratura, vol. III (UTET, 2007), Sophie Calle: tra fotografia e parola, in Guardare oltre, a cura di S. Albertazzi e F. Amigoni (Meltemi, 2008), La tension entre la forme et l’informe dans le roman du XXe siècle («Formules», 2009). Attualmente svolge ricerche sui rapporti tra letteratura e arti visive e sta preparando un volume sulla teoria del racconto in diversi campi disciplinari. È anche traduttrice dall’inglese e dal francese di testi critici e letterari.

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