Cinzia Nalin: Pagine eccentriche 3. Sulla lingua. Boris Pahor, un triestino sloveno

| 1 Settembre 2021 | Comments (0)

 *

 

Boris Pahor, un triestino sloveno

La lingua è probabilmente l’elemento dove confluisce di più la connotazione di appartenenza ad un gruppo etnico culturale. L’espressione verbale dei propri sentimenti, delle emozioni e alla fine della cultura, è un pilastro della parte della personalità connessa al proprio gruppo e alla certezza di essere capiti e apprezzati. Nominare un elemento, un oggetto caro, un fiore, un essere amato, attraverso il proprio idioma è donare al significante quella sfumatura di familiare e domestico che lo fa differire dal significato universale. Si potrebbe parlare di un lessico familiare che ricorda panorami e profumi di casa.

Questo ritratto d’autore ha come analisi centrale l’elemento e la percezione della lingua nell’opera dello scrittore di cui si tratta: Boris Pahor.

L’autore subì nel corso della sua esistenza alcuni gravi traumi legati alla sua appartenenza alla comunità slovena e quello più connotativo fu proprio di non poter più parlare, leggere e scrivere la lingua madre. Lo sloveno infatti dagli anni venti divenne espressione in forma verbale e scritta proibita dal regime fascista a quella parte della città di Trieste che era abitata dagli sloveni, odiati dall’ideologia mussoliniana al pari di ebrei e zingari. Come questo divieto di parlare la sua lingua, come ogni cosa dell’universo sensibile, si caricò di una funzione salvifica e perciò non fu solo una ferita sanguinante e tragica ma divenne anche una via di fuga dai tragici fatti legati alle persecuzioni razziali e politiche legate al nazi fascismo.

Boris Pahor nasce a Trieste nel 1913 quando la città era un porto fiorente dell’Impero austroungarico. La città era un bacino multiculturale, multietnico e multireligioso dove convivevano e si rispettavano, prosperando, varie culture ognuna con la propria lingua. Qui cresce la famiglia slovena dello scrittore in una discreta agiatezza economica. La comunità slava era benestante e fiorente anche culturalmente, essa ritrovava e riconosceva del Narodni Dom,(Casa del Popolo) un grande centro aggregatore importante per l’etnia slovena: esso era un centro culturale e sociale con annesse sale da concerto, biblioteche e un sontuoso teatro. Quest’ultimo bellissimo edificio liberty divenne negli anni fucina delle arti centrate sulla conservazione di cultura e tradizione della nazione slava. Nel Narodni Dom si studiava, preservava e faceva evolvere la storia e la lingua viva dell’etnia. Un fondamentale punto di riferimento per gli sloveni che vivevano a Trieste, città allora lontana da essere etichettata come italiana o altro: era un porto ricco che ospitava tranquillamente le popolazioni sia dell’entroterra che della costa, assieme a diverse altre culture. Nel 1920, il 13 luglio, dopo la fine della Prima Guerra mondiale e il tramonto dell’ Impero Asburgico, le squadracce di un fascismo nascente e dilagante con il suo carico di violenta prepotenza ed intolleranza, dettero alle fiamme il Teatro, e l’incendio segnò il bambino Pahor. Questo trauma per il piccolo Boris e per tutta la sua comunità fu una ferita che non si rimarginò mai. Di lì a poco arrivò il divieto di parlare la lingua slovena e di insegnarla nelle scuole, che si trasformò in quel punto centrale sulla produzione e formazione sulle quali si soffermano queste righe: vedere negata la propria cultura attraverso quello che è il fulcro dove si raccoglie la cultura sociale e quella interiore e personale, ossia il proprio modo di esprimere idee e sentimenti.

Particolarmente significativo per l’impatto della legge fascista legata all’italianizzazione anche della lingua di quelle zone di confine risulta il racconto “La farfalla sull’attaccapanni” (in “Il rogo nel Porto”1959). Lo scritto racconta come nell’anno 1924 una bambina, in classe, fu attaccata per le trecce all’attaccapanni per aver formulato una domanda ad un compagno in sloveno, per tre volte. Questa narrazione stigmatizza la situazione drammatica della comunità colpita nel cuore della propria essenza dalla forzata italianizzazione di usanze, cognome, narrazioni e terre abitate da altre culture.

Nel prosieguo della sua vita Pahor sarà attraversato dalla questione dell’importanza della lingua più volte, e paradossalmente questa risulterà anche la sua salvezza. La convergenza della conoscenza contemporanea dell’italiano, dello sloveno, del croato, non senza una sommaria conoscenza dei rudimenti del tedesco, gli permisero nella prigionia dopo il 1943, a Salò sul Lago di Garda, di essere un interprete linguistico per facilitare la comunicazione tra i carnefici e altri prigionieri jugoslavi. Questa posizione gli ottenne dei privilegi nel campo di prigionia e una situazione meno pesante.

L’autore di cui si tratta in questo approfondimento, scrisse parecchie opere che descrivono le sue esperienze di emarginazione e dolore legato all’ appartenenza culturale: la più sconvolgente e importante è “Necropoli”( 1964). Fu tradotta in francese e poi in numerosissime altre lingue e gli valse una candidatura al Premio Nobel. La narrazione nel libro che si incardina sull’esperienza di Pahor nei campi di sterminio risulta cruda e realistica e si legge come una testimonianza fondamentale della privazione della caratteristica umana in sé, non disgiunta dalla profonda elisione dell’empatia, elemento naturale della comunità umana: infatti là dove prevalgono solo i bisogni primari e il terrore l’uomo si sente solo con l’indifferenza per ogni altro sentimento. Il prigioniero rasato, denudato, affamato, negato nella sua stessa esistenza aliena la contingenza facendola convergere nell’unica arcaica pulsione di sopravvivenza. Il protagonista, l’autore stesso e le sue esperienze, grazie alla sua funzione di interprete e per questo anche di infermiere, cerca di mantenere inalterata la capacità di provare sentimenti e amore per coloro di cui si prende cura. Non disgiunta dalla straordinariamente semplice e sincera osservazione e partecipazione alle voragini più profonde della perversione degli abissi del Male.

Per questa sua opera è considerato, con Levi, una delle voci più alte e significative della descrizione di ciò che fu il campo di sterminio attraverso gli occhi di chi ci visse e si salvò.

La nota interessante per questo discorso è fissata, nuovamente, sul problema della lingua. Infatti anche nei vari lager dove Pahor fu internato come prigioniero jugoslavo e per questo considerato appartenente ad una delle “razze” da sterminare, a Dachau, Natzweiler-Struthof, Hurzungen, Bergen Belsen, egli era destinato alle camere a gas, e si salvò ancora una volta grazie alla conoscenza e comprensione di vari idiomi, e come bilingue. Fece un breve corso di infermiere e fu destinato a curare malati gravi, terminali, che parlavano vari idiomi e a collaborare con altri infermieri e medici prigionieri antinazisti di tutta Europa.

Ecco come la drammatica ferita di quando era bambino si trasformò in una risorsa di sopravvivenza dalla follia della Shoah. Questa drammatica occasione di salvezza regalò a Boris Pahor anche la possibilità di vedere il dramma disumano con altri occhi; uno sguardo pacato e senza picchi emotivi caratterizza la sua scrittura sincopata e carica di mute lacrime, e tuttavia particolarmente coinvolgente: attira in una oscena quotidianità di dolore e rende partecipe il lettore di orrori inenarrabili. Sembra, a chi legge, di sentire odori, di vedere fumosi e tossici interni, interminabili terrazzamenti percorsi da pigiami a righe, tessuti con chili di peli e capelli accantonati dopo la quotidiana rasatura disumanante inflitta ai prigionieri. Lo scrittore deve questa profonda e pacata empatia soprattutto alla capacità di mettersi in contatto con il mondo interiore e familiare dei moribondi. La possibilità attraverso la lingua di penetrare i faticosi respiri e approdare a paesaggi, colori, ricordi, madri, amici e fidanzate di esseri che trovarono in questa comunanza un ultimo sollievo prima del forno.

Sono convinta che il proprio idioma ci identifichi e ci consoli anche nei ricordi e sono altrettanto convinta che conoscere l’altro e la sua lingua ci confermi che esistono sistemi di pensiero collettivi che cuciono le differenze linguistiche. La conoscenza dei metodi di espressione è anche la comprensione dell’amore e del dolore come elemento universalizzante e la possibilità di cum-patire il dolore di uno nel dolore di tutti. E’ quello che accade nella storia e nella narrazione di Pahor nella cui cellula centrale troviamo, non a caso, la profondità del credere nell’amore e nella sua possibilità di sopravvivenza oltre la morte attraverso l’accudimento e la vicinanza tra uomini e tra simili, nella sofferenza e anche nella gioia. Il credo nella vita dello scrittore è inciso nelle parole del suo narrare, la tenera ed elevata capacità di vedere il proprio viso in chi soffre persecuzioni ed atrocità.

La lingua propria, la possibilità di parlarla e riconoscersi in essa lancia un arco verso la conoscenza del linguaggio dell’altro per scoprire che l’inconscio collettivo o, se si vuole, il cuore umano, soffre e ama nello stesso modo. Questa è già una via di salvezza verso e contro chi lavora invece su diversità inesistenti e divisive.

Per questo motivo percorrere un autore che si fa storia, una storia complessa come quella della città e delle terre di frontiera verso Oriente, risulta interessante come tutte le passeggiate fuori dal vcentro per viottoli quasi sconosciuti.

Category: Arte e Poesia, Culture e Religioni, Libri e librerie, Osservatorio Europa

About Cinzia Nalin: Nasce e vive a Venezia, si diploma al Liceo Classico e si laurea col massimo dei voti in Lettere Moderne a Ca’ Foscari. Si specializza nello studio critico dell’ Otto-Novecento italiano e francese. Segue il metodo critico psicanalitico di Francesco Orlando, che fu colui che la spinse all’applicazione della psicanalisi alla letteratura. Ha scritto saggi critici su Pasolini, Parise e Nievo. Studiosa di Pasolini e di autori che provengono dal nord est e dal confine con l’Austria e la Slovenia, si interessa di cinema e fa parte del collegio di lettura del Festival del Cinema di Trieste “Mattador”. Studiosa anche di Storia e Filosofia, intreccia nei suoi saggi ed articoli una visione trasversale della letteratura che non prescinde da ciò che crea il totale dell’animo umano nella produzione artistica. Ha presentato i suoi saggi in sedi quali l’Ateneo Veneto. Ha gestito a Venezia la libreria Serenissima. Ora gestisce una libreria indipendente a Bologna, La Luce Verde in Piazza Aldovrandi, e agisce da operatrice culturale.

Leave a Reply




If you want a picture to show with your comment, go get a Gravatar.