Cinzia Nalin: Pagine eccentriche 6. Pasolini, la purezza e la lingua

| 11 Marzo 2022 | Comments (0)

 

Cinzia Nalin: Pasolini, la purezza e la lingua

Nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini si sente la necessità di dire ancora qualcosa di lui, su di lui. Dopo un periodo infinito dalla sua scomparsa, nel quale troppe voci avevano taciuto e dimenticato il grande intellettuale, da circa quindici anni si leggono anche troppe parole. Sì, troppe, perché Pasolini ha scritto molto ma era scarno di parole, e soprattutto, quando le diceva, faceva in modo di soppesarle, pensarle prima di dirle. Perché il linguaggio è un’arma anche, e comunque è un’attività umana problematica e ambivalente, persino ambigua se usata male. Per questo sento la fatica immane di esprimermi su un personaggio che delle parole fece il suo mestiere ma anche la sua missione, e tra le tante parti del suo testamento c’è proprio il rispetto per la sacralità della parola.

Desidero fermarmi sull’uso che Pier Paolo fece e si adoperò per insegnare, l’uso di questa “monade logica” di cui lui percepiva la sacra apparizione nel gruppo umano. Il poeta pensava a quando l’uomo pronunciò per la prima volta le parole osservando le cose che apparivano attorno a lui, nel mondo, nel cielo, nell’acqua, nell’altro da sé e nelle profondità insondabili e inquietanti dell’animo umano. L’uomo guardando una nuvola per la prima volta la nominò, e questa capacità lo rendeva immensamente sensibile e tremò di piacere estatico. Sentì di essere più completo del suo creatore che non parlava perché bastava a sé stesso. L’uomo no, era già una parte, una parte fenomenica, imperfetta: ma nominava. E questo faceva dell’essere nuovo una perfezione nella sua emozionante imperfezione: un ossimoro. Forse anche per questo Pasolini amò sempre gli ossimori, perché riandavano alla sacrale purezza delle origini che erano un inizio di ambivalenza perenne.

Pasolini si era impossessato, grazie alla sua cultura classica e alla sua sensibilità sviluppata, di quella grazia arcaica e raffinata che dormiva dentro al guscio delle parole, questo “astuccio” nei secoli aveva creato attorno alla purezza del significato primitivo ed emotivo, troppe incrostazioni e sovrastrutture culturali che appartenevano più alla storia e alla politica, probabilmente alla sociologia, dell’uomo che non alla radice arcaica che collega la parola al suo significato. L’inizio della bipartizione desaussuriana tra un significato puro, primo, che colleghi all’idea universale, vede la comparsa del significante traditore. Sì, mi permetto di chiamarlo così perché ha cambiato la valenza primigenia con le sovrapposizioni culturali delle molte fasi storiche che lo hanno improntato e distorto.

L’intellettuale casarsese ebbe questa percezione e questa capacità di scavo nella cultura greca cercando di riportare alla luce il rapporto della parola con la sua purezza di nascita. Pasolini scese volentieri nella profondità ctonia della parabolé greca là dove giace il mito e lo portò in superficie per costruire attorno ad esso delle opere riconsegnate al loro naturale collegamento con la realtà della percezione e del dolore umano. Questa operazione straordinaria riuscì e Pasolini ebbe la capacità di attualizzare l’antico e il puro con il moderno im-puro nel suo personale ossimoro. Mentre percorreva le viscere del tunnel che attraversa i secoli che separano la cultura greca da quella della ragione settecentesca, dal profondo, Pier Paolo riesce in un’operazione veramente unica: aggancia dai meandri del tempo, la cultura giudaico cristiana che tanto aveva operato nella trasformazione del significato classico al significante deformato. Scoprendo  la purezza anche nella radice della religiosità cattolica la impastò formando un’opera poetica di straordinaria efficacia, non solo ad una analisi formale ma soprattutto nell’evocazione emotiva di ogni traccia che vibri dentro al lettore.

A questo punto Pasolini immette, sia nelle prime raccolte poetiche che nella prosa successiva la sua scoperta che rende contemporanea la percezione sacrale della parola: il dialetto, o meglio i dialetti. L’intellettuale capisce come in anni di rivoluzione industriale e consumismo che concorsero alla deformazione omologante conclusiva del linguaggio, i dialetti fossero la forma più antica di ogni piccola patria  che nomini a modo suo, per la prima volta, le cose che vede e sente, rinnovando il miracolo.

Per questo motivo l’autore, nato a Bologna il 5 marzo 1922, scrive in dialetto le sue prime poesie e i suoi romanzi romani. In questi ultimi alternando la parlata delle classi sottoproletarie, portatrici del sacro agonizzante, all’ italiano, un italiano che guarda liricamente, con occhi purissimi, ai tragici cambiamenti di costume.

Pasolini dalla parola greca si ricollegò al dialetto facendo in esso vivere tutte le contraddizioni di un novecento, anche avanzato e post bellico, denunciando i pericoli che l’omologazione ad una lingua nazionale nascondeva.

Ciò che mi sembrava interessante sottolineare dell’uso della lingua nelle opere di Pasolini è il rispetto estremo per le parole che lui ebbe e che noi ora non abbiamo nel ricordarlo. Troppo poche furono per decenni quelle spese per lui trucidato, e forse troppe ora che lui non c’è più. Forse perché i morti tacciono.

Category: Arte e Poesia, Libri e librerie

About Cinzia Nalin: Nasce e vive a Venezia, si diploma al Liceo Classico e si laurea col massimo dei voti in Lettere Moderne a Ca’ Foscari. Si specializza nello studio critico dell’ Otto-Novecento italiano e francese. Segue il metodo critico psicanalitico di Francesco Orlando, che fu colui che la spinse all’applicazione della psicanalisi alla letteratura. Ha scritto saggi critici su Pasolini, Parise e Nievo. Studiosa di Pasolini e di autori che provengono dal nord est e dal confine con l’Austria e la Slovenia, si interessa di cinema e fa parte del collegio di lettura del Festival del Cinema di Trieste “Mattador”. Studiosa anche di Storia e Filosofia, intreccia nei suoi saggi ed articoli una visione trasversale della letteratura che non prescinde da ciò che crea il totale dell’animo umano nella produzione artistica. Ha presentato i suoi saggi in sedi quali l’Ateneo Veneto. Ha gestito a Venezia la libreria Serenissima. Ora gestisce una libreria indipendente a Bologna, La Luce Verde in Piazza Aldovrandi, e agisce da operatrice culturale.

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