Aulo Crisma: Ballata senza nome
BALLATA SENZA NOME, di Massimo Bubola, edizione Frassinelli, l’ho letto tutto di un fiato. La narrazione, pregna di forza evocativa, prende lo spunto dalla storia del Milite Ignoto, scelto nella basilica di Aquileia da Maria Bergamas, madre di un soldato, uno dei tanti morti senza nome nella Grande Guerra. Sono undici le bare allineate sui catafalchi ai lati dell’altare. A lei il compito di indicare quella che sarà traslata a Roma, all’Altare della Patria a rappresentare le migliaia e migliaia di caduti. E sono undici i soldati che raccontano la loro vita. Sono undici morti che parlano. Ricordano il loro lavoro, i propri cari, progetti, sogni, speranze, le sofferenze nelle trincee.
Il figlio di Maria Bergamas, nato a Gradisca d’Isonzo, in territorio allora austroungarico, aveva disertato per andare a combattere nel campo italiano, come tanti altri italiani delle terre irredente.
Nessuno ha composto ballate per quegli italiani che vivevano nelle province orientali arruolati nell’esercito di Checo Bepe, Francesco Giuseppe. Mio papà era stato uno di quelli.
Fu richiamato alle armi e destinato all’artiglieria il 26 luglio del 1914. Aveva trentotto anni e sei figli e un settimo in arrivo. Perché anche lui, che aveva sempre manifestato i suoi sentimenti italiani, non saltasse dall’altra parte del fronte, fu mandato a combattere contro i Russi, a Przemysl, in Galizia. Le truppe zariste cinsero d’assedio la grande piazzaforte dal 24 settembre all’11 ottobre. Dopo un intervallo di 29 giorni l’assedio riprese, senza ricorrere alle armi. Era sufficiente attendere. Nel forte dove c’era mio padre era scomparso anche l’ultimo topo. Non c’era più niente da mangiare. Dopo quasi quattro mesi di resistenza gli Austriaci si arresero. Era il 22 marzo !915.
I pochi giorni tra l’arrivo della cartolina precetto ed il reclutamento mio padre li occupò a provvedere più legna che poté per consentire il funzionamento del forno in cui mia madre cuoceva il pane che le famiglie contadine confezionavano in casa. Il figlio più grande aveva undici anni, il secondo dieci. Il primo frequentava l’Imperial Regio Ginnasio di Capodistria per diventare prete. Il secondo era già in grado di aiutare la mamma e, in seguito, di lavorare nella campagna insieme con l’altro fratello. Anche le sorelle ancora piccole potevano dare una mano aiutando le più piccole. Dal papà non arrivava nessuna notizia. Prigioniero di guerra, dopo diciassette giorni di tradotta, arrivò in Siberia. Lavorava in una miniera. L’inverno era veramente siberiano, con quaranta gradi sotto zero. Con l’arrivo della Rivoluzione d’Ottobre la Russia cessò le ostilità e liberò i prigionieri di guerra. Mio padre era formalmente libero, in un paese sterminato, impigliato nel caos della rivoluzione. Trovò un’ occupazione come garzone di un macellaio. A cavallo andava nei villaggi a portare la carne. Più di una volta si trovò in pericolo di vita durante gli scontri tra bolscevichi e Russi bianchi. Ma il suo pensiero fisso era quello di ritornare in seno alla famiglia. Aveva sentito che sarebbe stato possibile abbandonare la Russia da Porto Arcangelo, sul Mar Bianco. Vi arrivò dopo innumerevoli giorni di viaggio. Inutilmente. E fu inutile anche il viaggio, lunghissimo che, attraverso tutta la Siberia, lo portò a Vladivostok. Ritornato indietro, finalmente, dopo tanto peregrinare, poté imbarcarsi su una nave francese ed arrivare a Brindisi. Rimise piede a casa, a Parenzo, il 13 giugno 1919, giorno di Sant’Antonio di Padova, che mia madre non si era mai stancata di pregare. Dopo quasi cinque anni riabbracciò la moglie e i sei figli e abbracciò la settima figlia, che vedeva per la prima volta. Tutti questi figli erano nati sotto l’Austria. Gli altri cinque, io penultimo, sarebbero venuti al mondo nell’Istria redenta.
Mi piaceva ascoltare dal papà la sua storia. Ricordava la grande generosità delle donne russe che lo hanno sempre aiutato. Sull’atlante aperto sulle due pagine affiancate della Russia europea e asiatica il suo dito si soffermava ad indicarmi le località che aveva incontrato e mi raccontava episodi ed aneddoti. Mi è rimasto impresso il comportamento delle donne russe che facevano il bagno nel Volga coperte soltanto dal reggipetto. Davvero un altro, forse più alto, senso del pudore.
Per gli Italiani arruolati nell’esercito dell’aquila bicipite (l’austriàca gallina) non fu composta nessuna ballata. Ma sicuramente mia madre avrà ballato di gioia al ritorno del suo caro sposo.
Con la vittoria nella Grande Guerra e con l’olocausto di centinaia di migliaia di vite umane l’Italia liberò dalla dominazione austriaca gli Italiani delle province orientali. Con la disfatta subita nella Seconda Guerra Mondiale, che ha provocato distruzioni e tantissime vittime tra i combattenti e tra i civili, ha perduto gran parte di quella terra.
Il libro di Massimo Bubola offre un prezioso contributo alle celebrazioni nel centenario della fine della Guerra del 1915 – 1918. Ma, soprattutto, induce a riflettere sugli orrori delle guerre. Dovrebbe essere letto nelle scuole, perché anche i giovani conoscano a quale prezzo è stata completata l’unità d’Italia. Un sacrificio vanificato con il secondo conflitto mondiale, che ha provocato altre innumerevoli vittime e indicibili sofferenze.
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