Amina Crisma: Un cattolicesimo che preferisce “star basso”. Un cristiano piccolo piccolo, di Guido Mocellin
Questo libro singolare, attraverso venticinque ritratti (soprattutto di donne), ci restituisce l’immagine intensa e sorprendente di un cattolicesimo lontano dai clamori, dalle ostentazioni e dalle luci della ribalta: una semplice, dimessa, discreta presenza in scenari inapparenti di vita quotidiana.
Sono testimonianze di vita minuta, provenienti da una realtà marginale e dissonante rispetto a molti diffusi e prevalenti mainstream di questo nostro presente, ad abitare le pagine di Un cristiano piccolo piccolo. Storie di fede in questo tempo, di Guido Mocellin, giornalista, collaboratore di Avvenire e de Il Regno (Edizioni Dehoniane di Bologna, 2010). Si tratta di un libro singolare: ne sono inconsueti sia il tono sommesso, lontano da qualsiasi enfasi, che nelle sue spoglie movenze fa pensare, per certi versi, al Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (ma qui l’ennui è assente), sia l’argomento: attraverso venticinque ritratti, soprattutto di donne, l’autore ci restituisce l’immagine intensa e sorprendente di un mondo appartato di credenti cattolici, distante dai clamori, dalle ostentazioni, dalle luci della ribalta, immerso nella spesso estenuante fatica della vita quotidiana. Per nulla propenso alle prediche, esso è dedito invece a un’assai concreta e tangibile attenzione agli altri, registrata in varie situazioni – dalle scene di vita coniugale a quelle delle tentazioni di infedeltà – e in varie declinazioni: nel senso di prontezza a dar loro una mano, di cui è un esempio fra i tanti l’episodio della famiglia transitoria di un bambino in affido, o semplicemente di capacità di ascoltarli e di rispettarli anche in circostanze difficili di confronti conflittuali, come nel caso dello scontro generazionale fra genitori e figli riferito nell’episodio intitolato “Diciott’anni”, o ancora, nel senso dell’”amore semplice e acritico, discreto e inesorabile” di una donna per i suoi figli e i suoi nipoti evocato nelle pagine dedicate a “Una bella festa”. Prima ancora che di un comportamento o di un atteggiamento, si tratta, mi pare, di una qualità di sguardo, di percezione: di un “saper guardare e percepire l’altro” che è un semplice – e profondamente interiorizzato – modo di essere, al quale sono costitutivamente estranei il narcisismo, l’egocentrismo, l’esasperato individualismo di cui sono impregnate molte diffuse retoriche contemporanee.
E’ un mondo di gente comune, pressoché invisibile, che non fa notizia, ad essere evocato in questo libro, che si potrebbe riassumere, prendendo in prestito un suggestivo titolo di François Jullien, come Ėloge de la fadeur, “Elogio dell’insapore”, ossia dell’inapparente, e che risulta decisamente altro non soltanto rispetto ai modelli esistenziali ossessivamente produttivistici e consumistici imposti su scala planetaria dal dogmatismo neoliberista, ma anche rispetto agli ambienti di un certo clericalismo occidentale “soddisfatto e benpensante”, intento a sbandierare i cosiddetti “valori” in chiave di rivendicazioni autoritarie e identitarie (Jullien ne ha offerto una descrizione efficace in alcune pagine de La grande image n’a pas de forme, 2003, La grande immagine non ha forma, 2004).
Non mi sembra in tal senso casuale che in questo libro di Guido Mocellin appaia la rievocazione della figura di “un prete che odiava i tartufi”: don Tullio Contiero, eccentrico insegnante di religione, burbero e provocatorio, che nei primi anni Settanta una volta si era presentato in classe “con un gran libro rosso, ben rilegato. Lo aveva spacciato per i pensieri di Mao, e aveva iniziato a leggere: “Il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida”…; poi aveva svelato la messinscena: il libro era un libro liturgico, le parole erano della Bibbia”.
Il mondo evocato da Guido Mocellin ha fra i suoi registri linguistici anche questo tono forte, e comunque spesso ama parlare sottovoce; si misura quotidianamente con le incertezze dell’esistenza, e non di rado gli accade di interrogarsi su un Dio che appare lontano o assente. E tuttavia, attraversa le avversità della vita con la tenacia inerme, la strenua capacità di resistenza dell’umile ginestra di cui parla Giacomo Leopardi. E di figure paradigmatiche di resistenti si fa qui memoria, come quella di Giuseppe Elli, cappellano di San Giovanni in Monte arrestato dalle SS a Bologna nel 1944 con l’accusa di aver aiutato alcuni detenuti e deportato a Mauthausen e Dachau, il cui diario di prigionia è stato ripubblicato da una nota e carismatica figura di sacerdote bolognese, don Giovanni Catti, anch’egli qui rievocato (su di lui, che ho avuto il privilegio di incontrare prima della sua scomparsa, rinvio al ricordo che ne ha offerto www.inchiestaonline.it nel luglio del 2014).
Oltre alle figure e alle storie che narra, questo libro ha la capacità di evocarne tante altre, analoghe a quelle che sono qui effigiate, e che sono sostanzialmente accomunate da quello “star bassi” che Pier Cesare Bori in sue indimenticabili pagine rappresentava, in riferimento all’antropologia religiosa di Alessandro Manzoni (Bori, 2011, ripr. in www.inchiestaonline.it ). Nei personaggi qui raccontati, riconosco i tratti della fede ancestrale dei miei avi, sepolti in un minuscolo cimitero di montagna in Veneto, e il modo di stare al mondo che li accomuna a tante altre storie e figure, della memoria e del presente, di luoghi familiari e di luoghi lontani: come i giovani seminaristi provenienti da Guangzhou e il minuscolo gruppo di fedeli incontrati alla Nantang, la cattedrale di Pechino. Fanno tornare alla mente i fanti di quella tregua di Natale del 1914 sul fronte occidentale, decisa spontaneamente da loro e osteggiata dagli alti comandi, e quel semplice prete descritto da Luigi Meneghello in Libera nos a Malo, che ben prima del Concilio praticava da sé uno spontaneo ecumenismo, e ancora i tanti altri luoghi – di Orienti e di Occidenti, medi ed estremi – di una cattolicità che è minorité, ossia minuscola, semplice, dimessa, discreta presenza – discrète et cachée, come recita il motto di quella parrocchia di Parigi nell’XI Arrondissement, dove non più di venti persone, celebranti inclusi, assistono alla messa di Natale.
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