Amina Crisma: Pechino anni novanta. Ritratto tragicomico di una Cina in trasformazione ne La vita felice del ciarliero Zhang Damin
Nel romanzo di Liu Heng che appare ora in traduzione italiana, attraverso le vicende di una famiglia e della sua dimora, destinata alla demolizione come tante altre della vecchia Pechino, si offre una gustosa rappresentazione di un cruciale momento di transizione nella storia dell’homo pekinensis: il passaggio dal dopo Mao all’inizio della modernizzazione voluta da Deng Xiaoping.
Chiunque sia stato a Pechino nei primi anni Novanta ricorda l’atmosfera del tutto particolare che si respirava allora in città: dappertutto un’animazione febbrile, i segni del mutamento impetuoso che si sarebbe dispiegato compiutamente negli anni successivi, ma anche il sorprendente persistere di una vita minuta e paesana, di stradine e di vicoli, gli hutong, popolati di un’umanità cordiale in fondo ben poco dissimile da quella gente di cui aveva offerto un’umoristica e simpatetica rappresentazione nelle sue novelle degli anni Trenta il grande narratore Lao She. Allora non si vedevano in giro quelle strane tribù di individui autistici sempre ossessivamente chini sui loro tablet che ora popolano ovunque il pianeta, in Cina come qui da noi, e nelle strade al rumore dei clacson si affiancava pur sempre il ronzio di milioni di biciclette. Era già iniziata, certo, l’immane trasformazione che avrebbe ridisegnato largamente il paesaggio antropologico e il paesaggio urbano, ma si potevano ancora vedere qua e là i siheyuan, le tipiche vecchie case tradizionali disposte attorno a un cortile interno che negli anni seguenti sarebbero state sistematicamente demolite per far spazio a edifici moderni.
E’ appunto una di queste vecchie case ineluttabilmente destinate alla demolizione e le vicissitudini di una famiglia di suoi abitanti a costituire il fulcro del romanzo del ‘97 La vita felice del ciarliero Zhang Damin, di Liu Heng, che ha dato origine anche a una serie televisiva e di cui appare ora l’edizione italiana per i tipi di Atmosphere libri (giugno 2018) nella godibile traduzione di Fiorenzo Lafirenza, docente di lingua cinese all’Università di Venezia cui si devono già altre raffinate versioni di opere di celebri scrittori contemporanei come Su Tong e Wang Meng. L’autore, nato nel 1954, oltre che a diversi romanzi di successo deve la sua fama ai suoi numerosi e fortunati lavori come sceneggiatore, fra cui spicca quello per il film La storia di Qiu Ju, diretto da Zhang Yimou, vincitore di un Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel ’92; da un suo romanzo (Fuxi fuxi, 1988) è inoltre tratto Judou, sempre con la regia di Zhang Yimou, primo film cinese a ottenere una nomination all’Oscar come miglior film straniero nel ’91.
Sono generalmente drammatiche le storie predilette dalla narrativa di Liu Heng, storie di passioni violente e proibite dagli esiti tragici la cui esplicita e cruda tematizzazione dagli anni Ottanta in poi ha fra l’altro contribuito non poco a sdoganare nella Cina post-maoista la materia sessuale, tradizionalmente invisa non solo alla pruderie confuciana, ma anche alla censura del Grande Timoniere. Ne La vita felice, invece, il registro prevalente è quello della commedia; se l’argomento è pur sempre “la disperazione della gente comune”, come dichiara l’autore, se ne offre una rappresentazione di grande levità, nella quale predomina l’umorismo, e soprattutto notevoli sono i dialoghi vivaci e scoppiettanti, pieni di nonsense e di battute colorite, a partire da quelle del protagonista, personaggio pasticcione e picaresco e chiacchierone irrefrenabile dalla cui bocca non di rado “escono scemenze a ruota libera”.
Fra le conversazioni più divertenti, si segnala quella dedicata all’America, a suo modo sintomatica di una particolare temperie, e densa di significative e ironiche puntualizzazioni:
“E’ un pezzo che stai in America, vero? Hai imparato a lavare i piatti? Che razza di gente, gli americani, con questa fissa di far lavare i piatti a noi cinesi. Sono riusciti a fare in modo che in tutto il mondo la prima cosa cui si pensa quando si parla di cinesi siano i lavapiatti….In cinese l’America si chiama Bel Paese (Meiguo): li portiamo troppo in palmo di mano! Aspetta che ci vadano ancora un po’ di cinesi e poi vedi che bella lavata gli diamo!”
E tuttavia, un pathos sottile pervade pagine delicate e intense, come quelle della malattia e della morte di Zhang Simin, sorella del protagonista, in cui tutti si prodigano al suo capezzale a comprarle gli arredi che lei avrebbe voluto per una stanza che non avrebbe mai abitato: “Non disse nulla, ma lasciò trasparire un filo di sorriso così pallido da confondersi quasi con il pallore del tessuto”.
Questa peculiare cifra stilistica, che sa dosare sapientemente comicità e commozione, e che continuamente mette in scena i teatrali espedienti escogitati da Zhang Damin per tentare di contrastare le disgrazie e di governare la propria sorte, può evocare agli occhi del lettore italiano elementi di sorprendente affinità con scenari noti e familiari, come ad esempio quelli della celeberrima commedia di Eduardo De Filippo De Pretore Vincenzo (1957). Come in quest’ultima c’è un epilogo in cielo, così nel romanzo di Liu Heng la chiusa, inaspettatamente lirica e scanzonatamente riflessiva, è la gita al parco delle Colline Profumate, ossia a un luogo meraviglioso che, come sa chiunque l’abbia visitato, rispetto alla caotica e inquinata Pechino rappresenta davvero il paradiso, e dove la sorella e il padre defunti appaiono in visione, per un istante, fra le nuvole, al protagonista.
E come nel finale della commedia di Eduardo ci si interroga sul senso della vita e della morte, così avviene nel libro di Liu Heng, e al figlio che lo interpella in proposito, Zhang Damin risponde: “Non l’ho mai capito bene, chiedilo a mamma”. Quello che conta davvero per lui è che l’autunno accende di un rosso fiammante, come di un incendio, le foglie degli alberi, e che sulla morte comunque prevalgono le ragioni della vita, tanto inesplicabili quanto inconfutabili. Nonostante l’immane entità di sconvolgimenti e di trasformazioni, la vitale umanità dell’homo pekinensis, antica e sempre nuova, perennemente e tenacemente esiste, e resiste.
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