Amina Crisma: Le molte anime del neoconfucianesimo. L’uomo fra cosmo e società di Paolo Santangelo
La complessità di un multiforme fenomeno culturale attraverso un millennio di storia cinese in un vasto affresco che ne rappresenta i molteplici aspetti, i protagonisti e le pagine salienti, ne rievoca la peculiare ispirazione religiosa, morale e politica, e ne mette in luce le diverse istanze, le ambivalenze e le tensioni.
Come osservava qualche anno fa Lionel Jensen in un polemico libro che ha suscitato vaste discussioni, nella cultura dell’Occidente il termine “confucianesimo” (in cinese rujia, ossia “scuola dei letterati” o “lignaggio dei classicisti”) rappresenta una nozione celeberrima, e insieme circonfusa da una fama equivoca: difficilmente si troverà qualcuno che ne ignori il significato, automaticamente correlato all’“identità culturale cinese” di cui esso è divenuto l’icona per antonomasia; e tuttavia sarà altrettanto difficile trovare qualcuno, al di fuori dell’ambito degli studi specialistici, che abbia esperienza di qualche specifica lettura dei suoi testi, benché molte traduzioni e commenti in lingue occidentali siano da gran tempo agevolmente disponibili. [1] Pur se un’ingente quantità di ricerche sviluppatesi negli ultimi decenni ha profondamente innovato le rappresentazioni di tale grande tradizione, essa nel senso comune appare tuttora prevalentemente percepita attraverso l’inerzia di schematismi che invariabilmente la associano a una “eterna saggezza” presunta immutabile attraverso i millenni, da Confucio a Xi Jinping, dall’epoca pre-imperiale all’età del turbocapitalismo post-maoista. Si tratta di uno stereotipo immarcescibile di cui François Cheng ci ha offerto una sarcastica descrizione in memorabili pagine di un suo romanzo autobiografico ove si stigmatizza la propensione occidentale a “collocare il saggio cinese a decorare l’angolo del salotto, come un bel vaso Ming”.[2]
Al fondo di questo atteggiamento v’è l’idea convenzionale di un “immobile conformismo della saggezza cinese” di cui ci ha fra l’altro offerto una brillante rivisitazione François Jullien (Un sage est sans idée, 1998)[3] e che, nonostante tutte le critiche a cui è stata sottoposta negli ultimi decenni (si veda in tal senso il seminal work di Heiner Roetz Confucian Ethics of the Axial Age, 1993[4]), appare tuttora profondamente radicata nella cultura europea, continuando a irradiarsi con possente suggestione sull’immaginario collettivo. Anzi, in un momento come questo in cui varie motivazioni concorrono a rafforzare le marcate tendenze all’essenzialismo culturale oggi predominanti, un’idea metastorica e astratta di “Cina perenne” risulta per molti versi più che mai seducente.[5]
E tuttavia, riflettere sulla pluralità di creative trasformazioni che il confucianesimo ha conosciuto nel corso della storia ci aiuterebbe ad avere un’idea più adeguata dei suoi stessi innegabili aspetti di continuità e di lunga durata, che si sono sempre incessantemente riformulati in relazione alle esigenze di tempi nuovi: la devozione all’antico che lo caratterizza si è costantemente dialettizzata, in forme molteplici, in rapporto ai problemi del presente, come nitidamente asseriva Xunzi, grande maestro del III secolo a.C. che l’Occidente si ostina pervicacemente ad ignorare, forse proprio perché smentisce molti luoghi comuni circa la Cina a cui esso è tenacemente affezionato.[6]
Tale fertile dialettica attraversava in cospicua misura il confucianesimo dell’età pre-imperiale, come attestano, ad esempio, vari studi di Maurizio Scarpari.[7] Già in tale fase vi si delineavano nettamente declinazioni diverse di fedeltà alla tradizione, modalità diverse di confronto con altre tendenze, differenti linguaggi e propensioni: fra idealismo e realismo, pragmatismo e spiritualità, slancio mistico e vocazione politica al governo del mondo si disegnò così fin da allora un peculiare campo di tensioni destinato a ulteriori sviluppi nelle epoche successive.
Un’immensa e profonda ristrutturazione della tradizione confuciana in risposta alle sfide di tempi nuovi si ebbe con il neoconfucianesimo, multiforme fenomeno culturale che a far tempo dall’epoca Song (960-1279) si impresse durevolmente sulla cultura, le istituzioni, l’esprit des moeurs del Paese di Mezzo. Ce ne offre un ampio e articolato affresco di cui si avvertiva l’esigenza nel panorama editoriale italiano il libro di Paolo Santangelo L’uomo fra cosmo e società. Il neoconfucianesimo e un millennio di storia cinese, che esce ora presso Mimesis (novembre 2016, pp. 400). Nel volume, l’autore, sinologo di fama, professore emerito della Sapienza, promotore e direttore di team internazionali di ricerca a cui si devono cospicui studi sulle epoche Ming e Qing, noto fra l’altro per numerose opere sulle emozioni e i sentimenti, i desideri e le passioni nella Cina imperiale, convoglia una pluriennale esperienza di frequentazioni di testi filtrandola e rivisitandola attraverso le acquisizioni dei dibattiti critici odierni.[8]
Ne emerge una prospettiva sfaccettata, attenta a registrare l’intrinseca complessità di un movimento sviluppatosi in scuole e tendenze diverse che, se da un lato rappresenta una reazione di difesa e di rilancio della tradizione autoctona nei confronti di dieci secoli di grande espansione del buddhismo, dall’altro ne recepisce molte istanze e molti atteggiamenti, giungendo persino a praticarne alcune tipiche modalità di meditazione. Un’enfasi tutta nuova sull’interiorità caratterizza peculiarmente la rinascita neoconfuciana rispetto al confucianesimo classico, a cui esso peraltro dichiara di riallacciarsi come “via ortodossa”, e di cui recepisce pienamente, di contro all’ascetismo buddista, l’istanza “apollinea” di armonia, riformulandone originalmente – sulla base di un cosmocentrismo che integra anche elementi di ascendenza taoista – l’esigenza fondamentale di coniugare la ricerca di santità (neisheng) all’assunzione di responsabilità di governo (waiwang). Tutto ciò trovò una sintesi unitaria che rimase canonica fino alla fine dell’impero nell’opera di Zhu Xi (1130-1200), grandiosa summa che viene spesso paragonata a quella di Tommaso d’Aquino, ispirata dalla fede nella perfettibilità dell’uomo e nel positivo ordine del mondo (e in proposito non può stupirci che abbiano avvertito una profonda sintonia con tale concezione i primi “mondializzatori del confucianesimo”, ossia i gesuiti, la cui missione in Cina inizia con Matteo Ricci alla fine del XVI secolo).
Alle speciali connotazioni della spiritualità neoconfuciana il volume dà largo spazio, con una scelta antologica che offre un significativo specimen delle sue espressioni più alte, come la celebre Ximing, “Iscrizione occidentale” di Zhang Zai (1020-1077), sublime inno all’unità con il cosmo e all’universale fraternità con gli esseri che si esplicita nella compassione per i sofferenti:
“Il Cielo è mio padre, e la Terra mia madre. Perfino un piccolo essere come me può mescolarsi in mezzo a loro. Perciò considero ciò che riempie il mio corpo e ciò che governa l’universo come la mia natura. Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti gli esseri miei compagni. (…) Tutti coloro che nel mondo sono esausti, infermi, sofferenti, tutti coloro che sono soli (…) sono tutti miei fratelli”.[9]
Un intenso afflato religioso e morale percorre molte pagine dei più celebri maestri neoconfuciani, dai fratelli Cheng (Cheng Yi, 1033-1107, e Cheng Hao, 1032-1085) a Wang Yangming (1472-1529), promotore di una linea intuizionistica e introspettiva che conferisce centralità al cuore/mente (xin) e che si potrebbe per certi versi descrivere in termini di “personalismo”.[10] Essa apre la via a un soggettivismo destinato a esercitare vasta influenza e a suscitare vivaci dibattiti fra i suoi appassionati fautori e i suoi detrattori e critici, proclivi invece a restituire maggior spazio alla disciplina derivante dallo studio, alla riflessione sulla realtà oggettiva, all’istanza tutta politica di governare l’impero.
Nell’illustrare con dovizia di documentazione questi variegati sviluppi, il volume attesta l’ambivalenza costitutiva che connota il neoconfucianesimo, attraversandone da cima a fondo le vicende: se da un lato esso si configura come slancio mistico e come via di autoperfezionamento morale, dall’altro manifesta una spiccata vocazione a codificarsi in un’ortodossia funzionale alla legittimazione del potere. La tradizione da esso creativamente riformulata, lungi dall’essere univoca, si definisce così come un permanente “campo di tensioni” fra obbedienza e rimostranza, fra conformismo e anticonformismo, fra acquiescenza e dissenso – e in tale quadro, accanto agli eminenti pensatori riconducibili ai lignaggi dell’ortodossia, acquistano visibilità le grandi figure degli eterodossi, come Li Zhi (1527- 1602), propugnatore della libertà individuale e della purezza del cuore/mente di fanciullo presente in ogni essere umano (tongxin)[11], e l’antiautoritario Tang Zhen (1630-1704), eloquente difensore della povera gente.[12]
Una inesausta dialettica che rimane insopprimibilmente aperta è riconoscibile anche nelle nuove tendenze confuciane di oggi a cui sono dedicate le considerazioni conclusive del volume, che ne delineano due direttive principali, “quelle riformatrici, che inglobano le conquiste laiche e liberali del pensiero moderno, e quelle conservatrici, che contrappongono all’alienazione della competizione individualistica il tentativo di una ricostruzione di ‘valori tradizionali cinesi’ in una prospettiva socializzante ed armoniosa.” [13]
La riflessione finale ci affida uno spunto che meriterebbe di ricevere grande attenzione nei dibattiti contemporanei (ma è forse vano sperarlo, in tanto assordante clamore intorno ai feticci delle “Culture” da cui siamo quotidianamente soverchiati). In una direzione che mi sembra significativamente affine a quella della lettura operata da Pier Cesare Bori di temi di Mencio in Per un consenso etico fra culture (1991)[14] e che certamente avrebbe molto interessato questo maestro di interculturalità purtroppo scomparso nel 2012, promotore, fra tante altre cose, della traduzione in cinese all’Università di Pechino (Beida) della Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola,[15] Paolo Santangelo ci propone di ripensare un filone di tradizione come possibile risorsa attuale per i nostri pensieri odierni, come “promessa inadempiuta” che si consegna al nostro presente, e al nostro futuro:
“Seppure i germogli di individualismo nati all’ombra delle scuole di Wang Yangming non abbiano prodotto quei cambiamenti radicali che avevano promesso, è di grande interesse seguire le fila della progressiva estensione dell’io nel corso di una incessante rielaborazione che si rifaceva in via più o meno diretta al Maestro Confucio”.[16]
In questa chiave dunque, oltre a leggere attentamente Wang Yangming, occorrerebbe fors’anche, una volta di più, rileggere i Dialoghi di Confucio: per scoprirvi, al di là della ben nota icona codificata e convenzionale, l’immagine mobile, elusiva, ironica e sorprendente di un Maestro di anticonformismo, come ci suggeriscono le Réflexions chinoises di Jean Levi,[17] e per cercare di riattingervi, come fecero nel corso del tempo innumerevoli pensatori neoconfuciani, una vitale fonte di ispirazione capace di parlare a tempi nuovi, distante dalla monolitica e immota monumentalità a cui troppo spesso lo si riduce.
Il discorso sulla “soggettività confuciana” come potenzialità di autonomia morale su cui si chiude il libro di Paolo Santangelo è tutt’altro che un tema di mero interesse erudito: è una questione che ci interroga con densa pregnanza negli attuali scenari della globalizzazione, in cui alla parola “confucianesimo” sembra prevalentemente associarsi la prospettiva dispiegata di un conformistico “adattamento al mondo” e al dispotismo dei suoi meccanismi impersonali profetizzata cent’anni fa da Max Weber, come ci ricorda in sue pagine recenti sulla “stanchezza dell’Occidente” Paolo Prodi.[18]
Un’altra prospettiva, diversa da quella dell’acquiescenza all’ordine esistente, è possibile? Nelle fonti della grande tradizione cinese, come questo libro ci mostra, sono presenti fertili risorse per poterla, quanto meno, immaginare.
[1] Lionel Jensen, Manifacturing Confucianism, Duke University Press, 1997. Per il dibattito suscitato da questo libro, v. Amina Crisma, “Il confucianesimo: essenza della sinità o costruzione interculturale?, Prometeo, anno 30 n. 119, settembre 2012, pp. 68-80.
[2] François Cheng, Le dit de Tianyi, Albin Michel, 1998 ( Le parole di Tianyi, Garzanti 2000, p. 214). Tali considerazioni, riferite specificamente ai salotti intellettuali parigini degli anni Cinquanta, ben si possono attagliare anche al giorno d’oggi (sulla persistenza degli stereotipi intorno al confucianesimo cfr. Amina Crisma, “Chi è oggi per noi Confucio?”, in Silvia Pozzi (a cura di), Confucio re senza corona, ObarraO 2011, pp. 71-136.
[3] François Jullien, Un sage est sans idée, Seuil 1998 (Il saggio è senza idee, Einaudi 2002)
[4] Heiner Roetz, Confucian Ethics of the Axial Age, SUNY 1993.
[5] Per un’efficace critica di queste diffuse tendenze, cfr. Marco Aime, Eccessi di culture, Einaudi 2004.
[6] Cfr. Amina Crisma, Confucianesimo e taoismo, EMI 2016. Su Xunzi, rinvio inoltre a Ead., Il Cielo, gli uomini, Cafoscarina 2000; Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica, Unipress 2004.
[7] Maurizio Scarpari, La concezione della natura umana in Confucio e Mencio, Cafoscarina 1991; Id., Il confucianesimo, i fondamenti e i testi, Einaudi 2010.
[8] Della vasta bibliografia di Paolo Santangelo che è impossibile qui evocare, ci limitiamo a ricordare alcuni titolo accessibili al lettore italiano: Il “peccato” in Cina. Bene e male nel neoconfucianesimo dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo, Laterza 1991; Emozioni e desideri in Cina, Laterza 1992; “Il neoconfucianesimo”, in Maurizio Scarpari (a cura di), La Cina. vol. 2, Einaudi 2010, pp. 633-716.
[9] Santangelo, L’uomo fra cosmo e società, p. 40, e 360.
[10] Ivi, p. 164.
[11] Ivi, p. 186 sgg.
[12] Ivi, p. 319 sgg.
[13] Ivi, p. 371.
[14] PierCesare Bori, Per un consenso etico fra culture, Marietti 1991, cap. VII. Sulla figura, sulle esperienze e sulle opere di questo studioso, si veda la rubrica “Pier Cesare Bori e la rivista Inchiesta”, www.inchiestaonline.it .
[15] Id., Fei Wu (a cura di), Lunrende zunyan (Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola), Beijing Daxue Chubanshe 2010
[16] Santangelo, L’uomo fra cosmo e società, p. 371.
[17]Jean Levi, Réflexions chinoises, Albin Michel 2011; Id., Confucius, Albin Michel 2003.
[18] Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino 2015, pp. 87-113. Cfr. in proposito Dimitri D’Andrea, L’incubo degli ultimi uomini. Etica e politica in Max Weber, Carocci 2005; Amina Crisma, “Fine della rivoluzione e tramonto dell’Occidente: a chi andrà il Mandato Celeste?”, Inchiesta, anno 45, n. 189, luglio/settembre 2015 (anche in www.inchiestaonline.it )
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