Francesco Raparelli: La questione europea è la questione della crisi

| 22 Aprile 2012 | Comments (0)

 

 

 

Francesco Raparelli  è Direttore scientifico del Centro Studi per l’alternativa comune

La questione europea è oggi la questione della crisi. Non solo perché la crisi esplosa negli Stati Uniti nel 2007, quella dei subprime, è stata interamente riversata sui bilanci pubblici e dunque sul debito sovrano degli Stati. Ma anche perché in Europa, più che altrove, la posta in gioco, nelle risposte alla crisi, è di portata epocale: l’annullamento o il rinnovamento di un modello sociale che si è consolidato negli ultimi sessant’anni e che si è accompagnato con la crescita della democrazia, oltre l’impianto liberale classico.

Non è più particolarmente “avventuristico” affermare che le politiche di austerity imposte dalla Deutsche Bank e dalla Merkel stanno sospendendo la democrazia in molti paesi dell’Eurozona. Il caso greco è il più emblematico, ma quanto sta accadendo in Spagna in queste ore non si discosta molto dal dramma ellenico, che sembrava, tra l’altro, dover essere isolato e sicuramente privo di conseguenze nefaste: il salvataggio delle banche spagnole, per mezzo di 100 miliardi dell’Esm (il 18% del finanziamento è stato garantito dall’Italia), avrà come contropartita la possibilità per gli ispettori tedeschi di controllare la governance bancaria e i bilanci iberici. Il caso italiano, altrettanto, iniziato con la famosa lettera di Trichet e Draghi (5 agosto del 2011), ha visto, nell’affermazione del governo dei tecnici, la qualificazione di un “laboratorio politico” apprezzato un po’ ovunque nel mondo: un governo non eletto che distrugge pensioni e contrattazione collettiva senza alcuna contrapposizione sindacale, fatto salva la coraggiosa mobilitazione della FIOM. Il ricatto del debito pubblico è divenuto arma per deregolamentare il mercato del lavoro e per ridurre al minimo gli spazi di democrazia, marginalizzando i soggetti sociali e politici che non accettano di abbassare la testa.

Ma siamo così convinti che le politiche del rigore imposte ai Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) saranno sufficienti per salvare l’unione monetaria? Anche gli analisti più prudenti e gli europeisti più ottimisti cominciano a traballare, comincia ad essere evidente, infatti, che il prezzo richiesto dalla Germania è insostenibile. Lo Spiegel, pochi giorni fa, lo chiariva senza esitazioni: il rafforzamento dell’unione politica e dunque la progressiva socializzazione del debito pubblico devono necessariamente passare per la trasformazione dell’Europa mediterranea in una zona dove la sotto-retribuzione del lavoro è norma e la democrazia un ricordo del passato. Zone speciali per le corporation tedesche, come il Guangdond in Cina per le grandi multinazionali occidentali, politiche di bilancio gestite da Francoforte, meglio, da Berlino.

Le speranze riposte in Hollande crescono, ma l’ostinazione della Merkel fa paura. Fa paura in Europa (le voci di Schmidt e Fischer sul Sole 24 Ore sono esemplificative), ma spaventa anche oltre Oceano. Obama vuole vincere le elezioni e, se non ripartono i consumi in Europa, non può far crescere l’economia americana, soprattutto non può rilanciare l’occupazione. La Berlino cristiano-democratica, però, guarda con insistenza verso Est, alla Russia, con la quale gestisce le risorse energetiche (Schröder è presidente di Gazprom), alla Cina, nella quale ha spostato oltre 200 aziende e con la quale intrattiene un rapporto commerciale solidissimo (il 30% del commercio Europa-Cina riguarda la Germania). Occorre ricordare, inoltre, che la Germania le sue riforme strutturali le ha fatte da tempo: è stato il ministro Hartz, ministro del governo rosso-verde di Schröder, a deregolamentare il mercato del lavoro, facendo sì che oggi circa 6 milioni di tedeschi, il 20% dei lavoratori, vivano con salari da fame (9.50 lordi l’ora all’Ovest, 6.87 lordi all’ora all’Est). Per questo oggi i sindacati metalmeccanici (Ig Metal) possono contrattare un aumento del 4% dei salari, in piena controtendenza con ciò che accade nell’Europa del Sud, e buona parte dei tedeschi non ha alcuna intenzione di sostenere, con i propri contributi, le «cicale del mediterraneo».

In Europa dunque si giocherà una partita fondamentale per il futuro. Partita fondamentale per chi vuole imporre, dal basso, un’alternativa alla gestione neoliberale della crisi. Partita che riguarda un soggetto polimorfo ed eterogeneo: movimenti giovanili, nuove figure del lavoro, sindacati non concertativi. La costituente sociale europea non può che percorrere la traiettoria della coalizione, una coalizione che sappia comporre una forza-lavoro frammentata e precaria, nello stesso tempo qualificata e nomade. La forma sindacato è insufficiente, i movimenti, spesso, mancano di adeguata continuità organizzativa. La coalizione, meglio, le coalizioni sociali sono le uniche chance per riconquistare un rapporto di forza favorevole nell’epoca in cui il capitalismo finanziario sta utilizzando la sua crisi per cancellare la democrazia, il welfare e i diritti.

 

 

Category: Osservatorio Europa

About Francesco Raparelli: Francesco Raparelli è nato a Roma nel 1978. Laureato in filosofia politica presso l'Università la Sapienza, ha conseguito un dottorato di ricerca presso l'Università di Firenze, con una tesi dedicata alla genealogia del concetto di singolarità. Da sempre attivo nei movimenti studenteschi e precari, ha diretto il Centro studi per l'Alternativa comune nato all'interno dell'esperienza politica di Uniti contro la crisi. Tra i fondatori della rete universitaria UniCommon (prima UniRiot), collabora con il mensile Alfabeta2, ha collaborato con il quotidiano il manifesto. Nella primavera del 2012 ha partecipato, come autore e ospite in studio, al nuovo programma televisivo di Sabina Guzzanti Un due tre... Stella. Esc, l'atelier autogestito di San Lorenzo a Roma, è la sua “casa”. Nel 2009, per i titoli di Ponte alle Grazie, ha pubblicato "La lunghezza dell'Onda. Fine della sinistra e nuovi movimenti", mentre è in via di pubblicazione "Rivolta o barbarie. La democrazia del 99 per cento contro i signori della moneta".

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