Fabrizio Denunzio: L’emigrazione femminile dalle campagne francesi dal Béarn alle città
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Fabrizio Denunzio: L’emigrazione femminile dalle campagne francesi del Béarn alla città. La funzione dell’immaginario urbano nelle inchieste rurali di Pierre Bourdieu
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Introduzione
Nel ricercare le cause materiali dell’emigrazione rurale dei braccianti tedeschi dalle difficili condizioni di coltura dei terreni all’est dell’Elba nella Prussia occidentale, nel 1895 Max Weber escludeva categoricamente “i piaceri della grande città” (Weber 1998, p. 11), li riteneva un miraggio per i giovani desiderosi di girovagare e di divertirsi, nulla che potesse effettivamente strutturare un processo migratorio che interessava in massima parte famiglie anziane.
A differenza di Weber, Pierre Bourdieu, in una serie di inchieste sul campo svolte nel nativo mondo contadino del Béarn tra il 1962 e il 1989, assegnava un ruolo importante alle attrattive offerte dai centri urbani all’immaginario delle donne, tanto da stimolarne l’emigrazione.
Il mio intervento vuole ricostruire brevemente la genesi di queste tre inchieste (Bourdieu 2002) ignorate quasi completamente dalla critica bourdieusiana tanto internazionale quanto italiana1, e il peso che hanno avuto sulla formazione successiva dell’intera ricerca del sociologo francese – almeno pari a quello esercitato dalle ricerche in Algeria alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso (Denunzio 2017, pp. 92-106).
Infine, intendo leggere diversamente da quanto faceva lo stesso Bourdieu, la funzione dell’immaginario urbano nei processi migratori femminili dalla campagna alla città, vera e propria occasione di emancipazione e di educazione alla libertà per un genere che vedeva condannata la sua condizione a un’eterna subalternità nei confronti dell’ordine patriarcale della campagna, un mondo sociale il cui più vistoso sintomo di disgregazione era rappresentato dall’imposizione del celibato ai figli cadetti delle famiglie proprietarie di terre.
1. Una sociologia rurale affettiva
Poco prima di morire Bourdieu riesce a mettere assieme le tre inchieste rurali che lo hanno accompagnato dall’inizio della sua attività di ricerca nei primi anni Sessanta del Novecento – “Célibat et condition paysanne”, Études rurales, 5-6, avril-septembre 1962, pp. 32-135 – fino alla piena maturità di scienziato sociale degli anni Ottanta – “Reproduction interdite. La dimension symbolique de la domination économique”, Études rurales, 113-114, janvier-juin 1989, pp. 15-36 – passando per quel momento di rottura rappresentato dall’abbandono del paradigma strutturalista avvenuto al principio degli anni Settanta – “Les stratégies matrimoniales dans le système de reproduction”, Annales, 4-5, juillet-octobre 1972, pp. 1105-1127.
Già dal titolo, il volume in cui i tre articoli sono raccolti, restituisce la cifra profondamente affettiva di questa branca rurale della sociologia bourdieusiana, infatti, le bal des célibataires, è il momento più drammatico dell’intera inchiesta quello in cui i contadini condannati dalle loro famiglie al celibato si rendono conto della loro completa e irrevocabile inadeguatezza a un mondo al quale formalmente appartengono ma da cui sono sostanzialmente esclusi perché i modelli di civilizzazione urbana lo stanno colonizzando, rendendo di conseguenza le ragazze interessate solo
agli uomini di città i quali, tra i tanti altri pregi, danzano balli completamente diversi da quelli della campagna. Scena drammatica alla quale Bourdieu dedica una struggente descrizione (Bourdieu 2002, pp. 113-126) non priva di grande “tenerezza” (ivi, p. 11).
La scelta del titolo è solo un sintomo di questa dimensione affettiva, l’introduzione al volume, scritta nel luglio del 2001 – e visto che Bourdieu morirà dopo pochi mesi, nel gennaio 2002, può essere considerata un vero e proprio testamento spirituale – ne spiega bene le cause.
Biografiche, innanzitutto. Ritornare nel paese natale dopo aver studiato alla Normale di Parigi e dopo l’esperienza algerina assume una precisa valenza autoanalitica: in quanto sorta di ritorno alle origini con tanto di riemersione di un rimosso (l’estrazione contadina aveva causato non pochi disagi al giovane Bourdieu proiettato dalla campagna direttamente nella più alta istituzione culturale francese) da integrare nella coscienza, di un passato pesante con cui conciliarsi (in questo senso, mentre Lévi-Strauss compiva la stessa operazione andando ai Tropici, per lui si trattava di compiere il tragitto all’inverso, di “fare i Tristi Tropici al contrario”; ibidem); in quanto momento catartico di “conversione” (ivi, p. 9) alla sociologia (ricordiamo la formazione filosofica di Bourdieu e il tormentato rapporto avuto con essa di cui le Meditazioni pascaliane sono cruda testimonianza; Macherey 2014), scienza capace di trasformare un’esperienza vissuta (“Erlebnis”, ivi, p. 10) in un’esperienza autentica (“Erfahrung”, ibidem), ed è in questo senso che, in pieno accordo con la tradizione romantica tedesca al cui lessico si sta richiamando con forza (come esempio al riguardo può bastare la rilettura del saggio di Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire2), Bourdieu parla di questi lavori rurali nei termini di un vero e proprio romanzo di formazione (“Bildungsroman”, ivi, p. 9).
Epistemologiche, poi. È nella prima di queste ricerche, la più lunga e complessa, “Célibat et condition paysanne”, che Bourdieu inizia a utilizzare i più diversi strumenti metodologici a sua disposizione, prelevati in parte dalla strumentazione standard (l’elaborazione di statistiche) e non (le interviste in profondità) della sociologia, in parte dall’etnografia (fotografie e planimetrie), poi, dalla storia e dal diritto. Inoltre, è qui che elabora per la prima volta quel concetto di habitus che diventerà uno dei suoi maggiori contributi alla teoria sociale. Alla sua prima apparizione il concetto è tracciato secondo linee essenziali, non ha ancora quel grado di complessità che, ad esempio, avrà da lì a poco come nella Postfazione del 1967 agli scritti di Ervin Panofski (Bourdieu 2010; Lombardo 2010, pp. 7-32), in questa sede, invece, si limita a definire le “abitudini motorie tipiche dei contadini béarnesi” (Bourdieu 2002, p. 113), dalla pesantezza dei movimenti alle espressioni facciali, in breve, il modo in cui la durezza del lavoro nei campi si è inscritta nel corso delle generazioni sui loro corpi, facendoli diventare quel che sono, dei segni in cui si riflette la loro condizione socio-economica (ivi, p. 116). Quindi, habitus in quanto hexis corporea e non ancora “impasto inestricabile di disposizione alla conservazione e capacità di innovazione” (Lombardo 2010, p. 19), struttura strutturata e struttura strutturante, così come Bourdieu lo definirà in seguito per spiegare l’azione sociale degli agenti (Bourdieu 2003, pp. 206-213).
E allora, sono queste ragioni biografiche ed epistemologiche, distinguibili solamente a fini esplicativi, a rendere così straordinariamente affettiva la sociologia rurale di Bourdieu un’affettività rintracciabile in un modo altrettanto manifesto solo nelle ricerche algerine, per poi essere sempre messa ‘sotto vuoto’ in tutte le altre.
2. Spostare il fuoco dell’affettività: dal celibato maschile all’emigrazione femminile
Chiedendosi a più di vent’anni di distanza cosa ci fosse di “ancora valido” (Bourdieu 2002, p. 214) nel “cantiere abbandonato” del primo saggio, “Célibat et condition paysanne”, cercando, quindi, una chiave di lettura che riattualizzasse quella ricerca aurorale, Bourdieu la trovava nell’idea di “unificazione del mercato matrimoniale” (ivi, pp. 229-242) secondo la quale, in seguito alla modernizzazione che colpì il mondo rurale chiuso e protetto del Béarn a partire dagli anni
Cinquanta in poi e che lo portò progressivamente, attraverso il miglioramento delle vie di comunicazione e degli scambi commerciali, ad aprirsi e unificarsi al resto mercato nazionale, anche il sistema matrimoniale contadino finì per essere travolto da questo processo sottraendo alle famiglie il potere di combinare matrimoni nel paese restituendolo alla capacità dei singoli i quali, abituati a vivere in un mercato protetto, finirono col ritrovarsi penalizzati in un libero mercato concorrenziale nel quale i cittadini si muovevano con maggiore agio non essendo rallentati dal peso dei limiti tradizionali che notoriamente gravavano sul mondo contadino.
Diversamente da Bourdieu, credo che il modo per attualizzare queste ricerche consista nel fare ricorso al fenomeno dell’emigrazione, quella femminile in particolare, da lui puntualmente registrato nel corso delle inchieste, ma non debitamente valorizzato poiché il carico affettivo delle ricerche risulta eccessivamente sbilanciato a favore del celibato maschile. Non che i due fenomeni non siano collegati, tutt’altro, Bourdieu li connette continuamente, ma il suo sguardo rimane fisso su questi vecchi e malinconici scapoli, finendo col fare del momento di emancipazione radicale attuato dalle emigranti ancora un effetto dell’ordine paterno (ivi, p. 227) perché, anche quando vanno via di casa, in realtà lo fanno avendo sempre in mente come priorità attorno alla quale organizzare la loro vita, il matrimonio, continuano cioè a rimanere “oggetti simbolici di scambio” (ibidem), come avviene nel patriarcato più puro.
Spostare il fuoco dell’affettività dal celibato maschile all’emigrazione femminile vuol dire, innanzitutto, mettere da parte i principali risultati ottenuti dalle inchieste bourdieusiane in funzione del celibato, per poi subito dopo iniziare a vedere nell’emigrazione una risposta definitiva alla crisi della società contadina e non un suo ulteriore effetto sistemico. Se Bourdieu faceva del cadetto celibe “la vittima strutturale” (ivi, p. 202) delle regole matrimoniali del suo mondo rurale e questo perchè, una volta che la proprietà passava intera al primo figlio maschio dovendo rimanere indivisa nel corso delle successive trasmissioni ereditarie, al suddetto cadetto non rimaneva altro destino che farsi domestico non retribuito del fratello maggiore ereditiero, lavorando la sua terra e vivendo nella sua casa (ivi, p. 18), io vedo, invece, nella donna emigrante una sorta di carnefice della struttura patriarcale contadina perché, rileggendo le interviste delle inchieste da questa prospettiva, è proprio contro una ferrea organizzazione sociale di questo tipo che lei si è rivoltata.
Certo, Bourdieu non ignora “lo straordinario lavoro psicologico che comporta, specialmente durante la fase iniziale del processo, ognuna delle partenze lontano dalla terra e dalla casa” (ivi, p. 226), anzi, arriva al punto di vederne la dimensione rivoluzionaria, almeno in termini simbolici, di un gesto che trasforma completamente la vita di chi lo compie (ibidem), eppure, invece di radicalizzarne la portata pensando contro quale contesto di partenza questa azione è compiuta – il patriarcato del luogo natìo – corre a ridimensionarne la portata inscrivendola nel contesto di arrivo, spiegando che la facilità con cui le emigrate partono e si integrano in città dipende tanto dal non essere legate come gli uomini alle condizioni materiali della vita contadina (lavoro nei campi, gestione del patrimonio) quanto dall’educazione che hanno avuto ossia dal fatto di essere culturalmente predisposte a “mostrarsi zelanti e docili allo sguardo delle prescrizioni” (ivi, p. 227) sociali poiché il loro unico obiettivo rimane, come sempre, il matrimonio.
Vediamolo meglio, allora, questo contesto patriarcale contadino béarnese da cui le donne sono fuggite per poter debitamente valutare la portata rivoluzionaria della loro emigrazione, e questo ben al di là del semplice fatto che, fuggendo, volessero sposarsi e sposarsi bene, sicuramente meglio di quanto il destino avesse in serbo per loro, ossia un matrimonio con un contadino organizzato dalle famiglie secondo la logica economica della riproduzione delle gerarchie sociali (ivi, p. 19).
L’autorità di cui gode il capo di casa è pressoché assoluta: lui è il solo depositario del nome e delle risorse della famiglia (ivi, p. 24); a lui spettano tutte le decisioni al riguardo, dalla determinazione arbitraria della ‘buona uscita’ dei cadetti e delle figlie (una quota variabile di dote da sottrare al valore complessivo dell’eredità e da assegnare a loro per farli sposare; ivi, p. 26) fino all’imposizione del celibato addirittura all’erede (ivi, p. 43). Questo contesto patriarcale produce non solo una gerarchia tra i sessi ma una loro vera e propria “segregazione […] brutale” (ivi, p. 51), tanto che sin dall’infanzia uomini e donne sono separati in tutti i luoghi pubblici: scuola, chiesa,
bar. A fronte di questa situazione, più di un intervistato segnala l’emigrazione verso Parigi o verso l’America di donne che, pur di liberarsi “dell’autorità paterna” (ivi, p. 22), perdono la dote promessa o il matrimonio combinato (ivi, p. 31).
Per quanto un intero sistema culturale (composto da famiglia e tradizioni locali) congiuri affinché la donna di paese sia docilmente addomesticata e addestrata a riprodurre questo patriarcato feroce, non sembra ottenerlo, così che queste fughe, poi successivamente strutturatesi in un fenomeno migratorio dalla campagna alla città, diventano l’emblema di una soluzione definitiva della crisi di una società agonizzante – e non un suo estremo proseguimento – la rottura con un mondo che, nelle sue finalità più manifeste, non ha mai contemplato una risposta di questo tipo (emigrazione) tanto meno da parte di un agente sociale di questa specie (donna) per il quale teneva in serbo solo le ‘gioie’ di un matrimonio combinato e una vita di sacrifici e fatiche, in pratica “una schiava trattata sempre come un’estranea”, così riporta un intervistato (ivi, p. 67).
In questo movimento di chiusura col passato contadino che fonda al contempo l’apertura verso il futuro dell’universo cittadino, l’immaginario urbano ha un ruolo decisivo. Di certo le donne emigrano perché, debitamente scolarizzate, possono finalmente trovare un impiego in città. Ma non trovano solo questo. Il fascino attrattivo esercitato dal centro urbano si articola sostanzialmente attraverso il sistema dei media: come giustamente dice un intervistato, uno di quei vecchi celibi consapevole di non poter più avere una sposa dal mercato matrimoniale, le donne in città “possono andare al cinema” (ivi, p. 152). Non solo: trovano settimanali, romanzi d’appendice, canzoni, trasmissioni radiofoniche, variegati tipi di confort, ma anche modelli relazionali ispirati a ideali di cortesia e seduzione (ivi, pp. 120-123), un vero e proprio universo, reale e immaginario, che consente loro di rovesciare tutti i valori tradizionali quanto repressivi ricevuti in ‘dono’ dal patriarcato contadino in favore di una forma di vita finalmente umana, troppo umana in cui il divertimento emancipativo assicurato dalla moderna industria culturale mette al centro delle sue strategie espressive e di cattura il corpo, la soggettività.
Rimane ora da spiegare perché le emigranti abbiano avuto questo rapporto privilegiato con l’immaginario urbano. Difficile se non impossibile al riguardo ottenere informazioni dalle testimonianze riportate nelle inchieste di Bourdieu anche perché tutte le sue riflessioni su questo universo femminile emigrato non si basano sulle voci e i racconti delle dirette interessate (si pensi che dei 12 informatori intervistati solo 2 sono donne e per di più contadine residenti in piccoli villaggi; ivi, p. 129). Le emigrate sono fatte oggetto di analisi e non soggetti della loro storia, così facendo Bourdieu riproduce quello stesso atteggiamento culturale tipico dei dominanti che in seguito condannerà, quello che non ha mai permesso ai contadini di diventare una classe che non fosse altro che un oggetto dei discorsi altrui nei quali riconoscersi e non “il soggetto della propria verità” (ivi, p. 255).
Nel lasciarsi sedurre dall’immaginario urbano le emigranti béarnesi in realtà non hanno fatto altro che intercettare un passaggio d’epoca che ha coinvolto l’intera società europea con tutte le sue donne e i suoi uomini almeno dall’affermazione del cinema come principale produttore di immaginario (anni Venti) fino all’avvento della tv (anni Cinquanta), un passaggio che, trasformando la cultura in cultura di massa sotto l’azione dei processi di modernizzazione industriale, ha promosso l’affermazione di valori direttamente legati alla sfera del corpo, come il benessere materiale, l’amore, la realizzazione personale, le attività del tempo libero, in breve, quella che Edgar Morin ebbe a definire “un’etica del loisir” (Morin 1963, pp. 161-172) che permette, seppur attraverso una soddisfazione vicaria e surrogata dei principali desideri umani come quella offerta dall’immaginario, in questo senso vera e propria macchina di decompressione e compensazione delle frustrazioni che puntellano la vita quotidiana (si pensi al Mickey Mouse di Benjamin e alle commesse di Siegfried Kracauer3), di vedere come possibile la felicità umana4.
Lì dove Bourdieu nell’emigrazione femminile non vedeva altro che la continuazione del funzionamento strutturale delle regole matrimoniali di una società contadina, io ho cercato, invece, di coglierne la rottura dell’intero sistema, il momento de-territorializzante in cui la donna di campagna diventando soggetto di emigrazione verso la città, spezza la complicità con un mondo che le avrebbe riservato solo servaggio, sale di colpo su di una scopa stregata, abbandona alla sua morte una società agonizzante con dentro i suoi padri e si dirige verso un mondo che, anche se non avesse altro, promette pur sempre l’utopia della felicità.
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