Maurizio Landini: Una Fiom per riconquistare il contratto nazionale e la democrazia
Il segretario nazionale della Fiom indica le priorità che partono dal dare a chi lavora la possibilità di votare sui contratti aziendali e nazionali.
Il valore del contratto nazionale è che stabilisce che ci sono diritti sotto i quali nessuna azienda può andare. È quindi non solo un elemento di tutela dei lavoratori, ma anche un elemento di regolazione della competitività tra imprese. La contrattazione aziendale diventa così solo una contrattazione integrativa, che può migliorare e sviluppare il contratto nazionale e il contratto nazionale può recepire le cose migliori della contrattazione aziendale per estenderli anche a chi non la fa la contrattazione aziendale. In questa direzione fu la battaglia che a suo tempo fu chiamata dei “pre-contratti”, battaglia non alternativa ai contratti nazionali che fu fatta, anzi, per riconquistare il ruolo del contratto nazionale estendendo a tutti ciò che era stato contrattato in modo separato.
Se cambia questo significato della contrattazione aziendale cambia la natura di sindacato confederale generale e ogni azienda può contrattare di tutto con la competizione che si diffonde tra lavoratori. Questa è la ragione per cui contestiamo l’articolo 8 che afferma che in azienda le parti sociali possono firmare accordi che possono derogare non solo dai contratti nazionali ma anche da qualsiasi legge. Personalmente quando sento un sindacalista che afferma che l’ articolo 8 è positivo perché dà al sindacato il potere di derogare anche dalle leggi, penso che vada fermato e ricoverato perché attraversa una fase di delirio di onnipotenza. Il sindacato non è in realtà di fronte a un maggior potere, ma di fronte al fatto che il sindacato diventa proprietario dei diritti delle persone e questo vuol dire che i diritti non ci sono più, perché i diritti o ci sono, e sono in capo alle persone, oppure non si può più parlare di diritti.
Vorrei a questo punto ricordare che se c’è l’articolo 8 non è solo perché l’ha voluto il Ministro Sacconi. L’articolo 8 esiste perché la Fiat ha chiesto di fare una legge nel nostro Paese che permettesse alla Fiat di uscire da ogni contratto o legge nazionale. E infatti nell’articolo 8 c’è il comma 3 che afferma che gli accordi di Pomigliano, di Bertone e di Mirafiori sono validi anche se nel nostro Paese la Fiat è stata condannata per comportamento anti-sindacale nei tribunali. Se non ci fosse stata quella condanna, probabilmente, non ci troveremmo nella situazione oggi di avere una legge di questo genere. Non sorprende quindi che Marchionne abbia oggi dichiarato dalla Germania che Sacconi ha fatto finalmente quello che lui chiedeva da un po’ di tempo. Vorrei una riflessione su questo punto. È vero che forse la Fiom è diventata un po’ più famosa perché c’è Marchionne. Questo perché Marchionne, a differenza di altri, non è un ipocrita e quello che pensa lo dice con crudezza, non è uno che ci gira molto attorno, mentre in tante altre situazioni c’é chi fa o vuol fare le stesse cose ma cerca di persuaderti che sono per il tuo bene. Sincerità per sincerità: io avrei smesso rapidamente di fare il Segretario generale della Fiom anche se ero stato eletto da pochi giorni se al referendum di Pomigliano il 95% della gente avesse detto di sì. Quindi, se continuo a fare il Segretario e se la FIOM ha avuto quel consenso che ha avuto, non è grazie a Marchionne ma alla dignità e al coraggio dei lavoratori di Pomigliano prima e di Mirafiori poi che hanno detto no. Dico queste cose perché secondo me se i giovani, gli studenti, i precari sono venuti in piazza con noi è perché quella capacità di dire no ai ricatti padronali ha parlato più di tante altre cose. La teoria dei due mondi del lavoro: quello dei garantiti e quello dei non garantiti è caduta. Da che cosa è garantito uno che lavora a Pomigliano o a Mirafiori?
Marchionne parla alle altre imprese perché i problemi da cui parte sono problemi veri. È vero che c’è una crisi, è vero che il sistema industriale italiano è più arretrato, è vero che c’è una competizione anche tra lavoratori di paesi diversi e sui diritti. Tutto ciò è vero ma l’unica risposta è quella che dà Marchionne o ce n’è un’altra? Quando fu firmato l’accordo a Pomigliano, poco più di un anno fa, tutti ci spiegavano che era un brutto accordo, che era un disastro, ma bisognava firmarlo perché sarebbe stata una cosa eccezionale e non ripetibile. Era un accordo eccezionale perché eravamo al Sud, perché c’era la camorra, perché quei lavoratori non avevano voglia di lavorare e così via. Oggi, dopo un anno e qualche mese da quell’accordo, siamo di fronte al fatto che non solo quell’accordo, allora considerato eccezionale, vale anche al di fuori delle leggi ma l’articolo 8 afferma che qualsiasi azienda di qualsiasi settore può fare quello che hanno fatto a Pomigliano, anzi anche peggio perché adesso sta per essere introdotto lo smantellamento dei diritti proclamato dall’articolo 18. Marchionne non era arrivato a dire che voleva il superamento della giusta causa, il controllo degli audiovisivi, non era arrivato a tanto.
Oggi, se devo fare una riflessione su questo periodo, il grande assente è proprio la politica. Quando la politica scarica su i 5.000 lavoratori di Pomigliano, i 5.000 di Mirafiori oppure i 1.000 della Bertone, la responsabilità di decidere se devono continuare a lavorare o no vuol dire che c’è qualcosa che non va. Se l’unica cosa che la politica è capace di fare é far votare quei lavoratori in situazione di ricatto è evidente che c’è qualcosa che non va, che la politica non sta facendo quello che dovrebbe fare. Si arriva così, e non faccio nomi anche per rispetto del luogo in cui sono, alle parole di quell’autorevole esponente politico che quando qualche giorno dopo il referendum arriva a Torino e dice: «ringrazio quelli che hanno detto sì e ringrazio quelli che hanno detto no». Che posizione politica! In questo modo non si fa i conti con quello che sta avvenendo, con i processi che sono in atto. La politica è la grande assente se non affronta nemmeno il problema di come si esce da questa crisi, di come si affrontano fatti nuovi per per lo stesso sindacato. È per questo che quando dicono: state solo resistendo io dico che non è vero anche se si fa una grande fatica a fare altro. Non è vero perché quello che stiamo provando a fare nel difendere i contratti o i diritti non è semplicemente una battaglia di difesa o di resistenza, anche se non mi pare sia un elemento di particolare radicalismo sindacale. Una volta Cofferati mi ha detto: «siete molto moderati perché vi limitate a chiedere di mantenere il contratto, di mantenere le leggi, non state facendo una battaglia di chissà quale nuova conquista». Però, questo nostro resistere è anche la condizione per provare a cambiare, rendendoci conto che in molti casi il sindacato non è all’altezza dei processi in atto e non parlo solo di Cisl e Uil, ma anche della Fiom e della Cgil.
Oggi il problema che deve porsi il sindacato è di come riunificare la condizione di lavoro, perché la forza delle imprese oggi dipende non solo dal fatto che c’è poco lavoro, ma che il lavoro si è frantumato. Dentro alla stessa azienda ci sono contratti diversi: l’appalto, il sub-appalto, il sotto-appalto, la cooperativa, i precari. Il lavoro si è frantumato, diviso, mentre l’impresa che comanda il processo è sempre quella, anzi si è concentrato il potere privato che decide dove e quando investire. È quindi evidente che se il sindacato vuole reggere deve porsi anche il problema di quale strumentazione mettere in campo ed è per questo che io penso che per il sindacato sia una follia accettare che si superi il contratto nazionale e si vada verso la contrattazione aziendale, perché questo vuol dire andare verso una divisione ulteriore del lavoro. Dopodiché penso che i contratti nazionali così come sono oggi non vanno bene e penso, ad esempio, che bisognerebbe arrivare al contratto dell’industria, a grandi contratti che stabiliscano diritti uguali per tutte le forme di lavoro e solo all’interno di questi grandi contratti nazionali si possa poi sviluppare anche una contrattazione diversa. Oggi però si sta andando da un’altra parte, in un’altra direzione e non si affrontano con la dovuta forza i temi della riunificazione delle condizioni di lavoro, come possono essere rappresentati i diversi rapporti di lavoro, come si può rilanciare la capacità di contrattazione.
È per questo che sento la necessità di continuare la mobilitazione con iniziative anche dopo il 6 di settembre, perché mai come adesso si è di fronte a una politica del governo al seguito della Confindustria. Vi ricordate un provvedimento che il governo abbia preso mentre la Confindustria non era d’accordo? Posso solo ricordare che, dopo la prima manovra, la Confindustria ha detto che bisognava fare una manovra sull’IVA e sulle pensioni d’anzianità: il governo l’IVA l’ha aumentata, mentre le pensioni di anzianità ancora no, anche se ogni giorno che passa il governo dice che dovrebbero arrivare anche lì, perché i conti non tornano. Noi come sindacato un attacco dal governo di questa portata non l’abbiamo mai vissuto ed il fatto che il governo con la sua maggioranza modifichi, attraverso una legge, il sistema dei rapporti sociali fino a mettere in discussione la Costituzione è un fatto gravissimo. Se infatti passa, questa logica può diventare più forte della crisi, perché quando la crisi sarà finita non ci saranno le condizioni per ripartire, perché non esisteranno più i diritti che c’erano prima e le condizioni delle persone che lavorano saranno diverse, perché un meccanismo di questo genere porta ad una aumentata competizione tra i lavoratori.
Del resto Marchionne, per la sua formazione, è uno che le cose le dice con chiarezza. Ad aprile presentò il famoso piano “Fabbrica Italia” e le operazioni le ha fatte da giugno in poi. Ad aprile, in modo molto chiaro, Marchionne ci ha detto: «Nel settore dell’auto siamo alla guerra. Quindi voi dovete prendere atto che i dipendenti della Fiat, insieme a me, sono obbligati a essere in guerra contro le altre case automobilistiche e, quindi, contro gli altri lavoratori. Per questo, voi non avete nulla da contrattare. Dovete solo aderire e sostenere le posizioni dell’impresa perché sono la condizione affinchè voi possiate continuare a vivere e lavorare, perché altrimenti per voi non c’è lavoro». Questo è il modello dei rapporti, modello anche sociale, che lui propone e con questo modello siamo chiamati a fare i conti.
Oggi c’è anche una diversità sindacale. Mi ricordo che la mattina del 10 giugno prima di andare alla trattativa con la Fiat facemmo una riunione Fim, Fiom e Uilm e il patto tra i tre segretari era che a certe condizioni tutti assieme non le avremmo accettate. La Fiat ci ha fatto parlare per tre ore. Parla uno, parla l’altro, i sindacati hanno parlato per tre ore e alla fine delle tre ore il dottor Marchionne ha detto: «Non ci siamo mica capiti: o mi dite di sì o non c’è più l’investimento». Testuale. C’è stata allora una sospensione di mezz’ora e guarda caso dopo mezz’ora, quando ci siamo trovati, Cisl e Uil hanno detto: «Non possiamo che dire di sì perché altrimenti non fa l’investimento». Io sono ancora convinto che se lì fossimo stati tutti assieme capaci di dire di no, non dico che avremmo sconfitto Marchionne, ma di sicuro non saremo nella situazione in cui siamo adesso. Allo stesso tempo dico che per fortuna noi abbiamo detto no e non abbiamo fatto né firme tecniche né firme con riserva, perché se avessimo fatto una cosa del genere noi avremmo semplicemente firmato la fine del sindacato nel nostro Paese.
Alla domanda se la Fiom ha vinto oppure no rispondo che la Fiom è ancora in gioco, la partita la considero ancora aperta, sempre più complicata ma ancora aperta e sempre di più penso che la politica cessi di stare lontana dal mondo del lavoro. C’è bisogno che la politica assuma le questioni del lavoro come punto centrale. Affermare di voler cambiare il governo e fare in modo che chi andrà su assuma la rappresentanza del lavoro, non è fare politica, è fare il nostro mestiere di sindacato, chiedendo che ci siano anche altri soggetti che svolgono fino in fondo il loro mestiere di rappresentanza, perché oggi se viene rappresentato solo l’interesse dell’impresa l’abbiamo già visto come va a finire. Questo a me pare che sia uno dei problemi che abbiamo aperto e che abbiamo di fronte.
Sulla democrazia interna alla Fiom rispondo con sincerità. Da quando sono diventato Segretario generale chi mi conosce sa che non sono cambiato; non è che prima dicevo delle cose e dopo improvvisamente ne dico delle altre. Ho continuato a dire e a fare quello che ho imparato a fare dentro questa Fiom. Tutto quello che dico e faccio è perché la Fiom in questi anni ha detto e fatto quelle cose lì. Io mi sento parte di un processo che c’è stato ed ha determinato il modo di pensare della Fiom attuale. È stato per me normale dire alla Fiat «no, questo è un ricatto». Non ho dovuto pensarci tanto. Le posizioni che ho preso sono quelle che ho imparato dentro alla Fiom, è quello che la Fiom è in questo periodo, è quello che la Fiom è diventata in questi anni. Mi sento parte di un processo e, allo stesso tempo, di una discussione interna. Ho parlato prima dei pre-contratti. I pre contratti me li ricordo come una discussione in cui non erano tutti d’accordo, è stata una discussione unica. Per dirla tutta quando nel 2003 ci fu l’accordo separato, ci fu un comitato centrale drammatico. Gianni Rinaldini era Segretario da poco e mi ricordo che lui propose il congresso straordinario. Claudio Sabattini era allora Segretario della Sicilia della Fiom perché la Cgil non l’aveva proprio trattato così bene. Mi ricordo che in quel comitato centrale andammo sotto, perché alla fine credo che per il congresso straordinario fossimo in cinque e non fu proprio una bellezza. E quando venne fuori la discussione ricordo che Claudio Sabattini disse che parlare di pre-contatti era un errore, perché si dava l’illusione alle persone di qualcosa che non c’era più, perché la discussione nel 2003 era già: «non c’è più il contratto nazionale di lavoro e quindi bisogna pensare come si ricostruisce e si riconquista il contratto nazionale». Ricordo che quello fu un punto di discussione, e anche a Bologna dove quella posizione non aveva la maggioranza, quella discussione esplicita portò poi a determinare il fatto che a Bologna si sono fatti più pre-contratti che non in altre città. Non è che a Bologna si son fatti più pre-contratti perché c’era Landini, ma perché a Bologna c’è sempre stata una capacità di contrattazione, di rappresentazione e quindi una forza anche nelle fabbriche che ha portato a realizzare questi elementi e quindi anche a investire su questi elementi. Questa caratteristica della Fiom di discutere al suo interno trovo sia una caratteristica importante, perché la discussione dentro alla Fiom è sempre stata molto vivace e se c’è una cosa che io apprezzo e che quando si è d’accordo si dice sì, e quando non si è d’accordo si litiga anche, ma con trasparenza e con la volontà di trovare delle soluzioni. Penso che questo sia un metodo da estendere. Trovo che se si vuole reggere una situazione così difficile la democrazia non la devo rivendicare solo verso gli altri, la debbo praticare anch’io; devo essere in grado di misurarmi con certi processi e di sapere che la democrazia può andarti bene ma può andarti male, perché serve di volta in volta a non cristallizzare le maggioranze. Una volta nella Cgil c’erano le componenti politiche, perché c’era il Pci, il Psi… e questo non mi piaceva molto perché a volte capivo che limitava la mia libertà di sindacalista, perché qualcuno mi spiegava cosa dovevo fare e cosa dovevo dire. Alla domanda di chi è la Fiom o di chi è il sindacato l’unica risposta che si può dare è che la Fiom e il sindacato sono delle lavoratrici e dei lavoratori. Non c’è un’altra risposta perché solo in questo modo è possibile il confronto, è possibile discutere e ognuna o ognuno può esprimere il suo punto di vista, avere il suo riconoscimento. Per me l’esperienza di Bologna è stata anche fare i conti con un modo più articolato di prendere decisioni. Ho imparato che ci vuole una capacità ragionamento più ampia, vedere altre cose che adesso sono molto utili nel confronto con il governo. È poi vero che certe asprezze non le ho ancora smussate, ma questo credo sia un elemento di forza. Credo che nel prendere decisioni sia molto importante l’analisi dei processi più ampi. E questo è uno dei punti di diversità con Cisl e Uil e questo è anche il punto di maggior discussione con le forse politiche.
Quando si dice che ci vuole l’unità sindacale, chi è che è contrario? La domanda è però questa. Cosa si può fare oggi quando ci sono strategie sindacali tra loro così diverse e la stessa unità d’azione in quanto tale non è più praticabile proprio perché ci sono strategie diverse che portano anche agli accordi separati? Per ricostruire l’unità o si introduce la democrazia e cioè il diritto delle persone di poter decidere anche quando ci sono idee diverse, oppure l’unità non si ricostruisce. Si può ricostruire un’unità per ragioni politiche, ma non si sa quanto possa durare perché l’unità vera è un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori di poter eleggere i propri delegati, di poter votare. Di fronte a questa idea di democrazia c’è stato il referendum alla Fiat riconosciuto da tutti con addirittura il tifo che diceva vota di qua, vota di là. Ma quello non è stato un vero referendum perché non si può considerare valido un referendum dove le persone non sono libere di poter dire quello che vogliono. E questo è tanto vero che mentre a Mirafiori, a Pomigliano o alla Bertone tutti a dire «bellissimo, c’è stato il referendum», fuori da quei luoghi dov’è che si vota? Da nessuna parte. Il metodo democratico per far esprimere chi lavora è stato negato e metà dei lavoratori italiani ha avuto un contratto separato: il commercio, il pubblico impiego. E nemmeno oggi questo problema è stato risolto, perché né l’accordo del 28 giugno risolve questo problema e nemmeno la legge che è stata fatta considera il problema del voto dei lavoratori e tutte le volte che viene proposto il diritto al voto di chi lavora sembra che si stia mettendo in discussione il sistema complessivo.
Sono invece sempre più convinto che se non si arriva a quel punto, cioè alla democrazia che sia un diritto delle lavoratrici e dei lavoratori e non una mera espressione dell’organizzazione sindacale, un processo sindacale unitario nel nostro Paese non andrà mai avanti. Mi sono anche convinto di un’altra cosa: quando i lavoratori votano non votano solo l’accordo, ma votano anche chi l’ha fatto: il sindacato deve sempre rispondere di quello che fa. Se invece si teorizza che i lavoratori delle volte possono votare, delle altre no perché ci sono dei momenti che non capiscono il quadro e allora il sindacato glielo deve spiegare, non solo si sminuiscono i lavoratori, ma il modello di democrazia che il sindacato ha in testa non è un modello che punta alla responsabilità, all’autogoverno e alla partecipazione delle persone anche sul piano politico. Senza una democrazia vera si è all’interno di un’idea populistica del rapporto, che è una delle crisi della politica oggi. Si dice che oggi non ci sono più i partiti. Ma le forme politiche che oggi che permettono alle persone di partecipare quali sono? Innanzi tutto non è vero che le primarie risolvono il problema, perché le primarie possono indicare un premier, un leader ma con quella indicazione non si costruisce una partecipazione, una verifica dal basso. Uno dei punti importanti da affrontare è come ricostruire un processo politico che non sia una mediazione di interessi, come si ricostruisce un percorso che porti a una elaborazione collettiva di determinate questioni. La democrazia non è un valore importante solo per la Fiom o per il sindacato.
Faccio altri due esempi. Trovo che oggi il problema della democrazia è anche il problema dell’Europa. Oggi è possibile trovare delle diversità tra le politiche che stanno facendo in Italia, in Spagna oppure in Grecia? Formalmente si tratta di tre governi politicamente diversi: un governo di centro destra, un governo socialista e un altro governo socialista ma adesso che che politiche stanno facendo? Quelle che ha dettato la Banca europea: liberalizzazioni, privatizzazioni, taglio degli interventi pubblici. Se si riflette questo é il risultato di una democrazia non compiuta. C’è solo un’Europa della moneta, ma non c’è un’Europa sociale. Oggi è Marchionne che decide che cosa si produce, dove si produce, quando si produce, che qualità deve avere la produzione, cosa devono fare i governi. Sono gli Stati, le istituzioni o sono le grandi multinazionali che decidono? Tra l’altro si possono individuare delle palesi contraddizioni. Oggi i soldi possono girare liberamente al punto che le grandi multinazionali li portano dove non pagano le tasse e Marchionne che si dice pronto a pagare la patrimoniale continua a pagare le tasse in Svizzera, non viene a pagarle in Italia. Si è di fronte ad una concentrazione del potere economico e finanziario di alcuni grandi gruppi che non ha precedenti, altro che democrazia, e si è di fronte al fatto che gli Stati, i governi, le nazioni sono svuotate delle loro funzioni. Uscire dal modello sociale ha evidenti conseguenze anche sulle condizioni di lavoro, sul modello di lavoro. Se pensate alla politica. Faccio questa semplice valutazione. Quest’ anno, da Pomigliano in poi, non è stato solo l’anno dei metalmeccanici o della Fiom, ma è stato anche l’anno dei giovani, della scuola, delle donne, dei precari, della Cgil; nelle elezioni amministrative hanno vinto Pisapia e De Magistris; e i referendum sono andati ben oltre quello che si aspettavano i partiti. Questo processo non è merito della Fiom. È bene essere umili e con i piedi per terra, ma è anche grazie alle lotte che la Fiom ha fatto, che la Cgil ha fatto, che le lavoratrici e i lavoratori hanno fatto, che la domanda di cambiamento è stata rappresentata e la preoccupazione è che con queste riforme politiche ci sia un ritorno indietro. Mi viene l’orticaria quando sento parlare di governo tecnico, perché ho la sensazione che sia un mezzo per ammazzare qualsiasi spinta al cambiamento. Se finalmente, dopo venti anni di Berlusconi, si riapre la discussione sul lavoro si scopre che esistono ancora le catene di montaggio, che lo sfruttamento aumenta. Inoltre il referendum dice che il bene comune vince e la gente pensa che per gestire un bene comune non si devono fare profitti. Ma sul piano politico chi rappresenta i soggetti che hanno riaperto questa discussione? Chi si pone realmente un problema di cambiamento? Se davvero si vuole sconfiggere Marchionne e avere un’altra idea di sviluppo si avverte subito il problema di una scarsa rappresentanza del lavoro nella politica. Rappresentare politicmente il lavoro non vuol dire assenza dell’impresa, vuol dire che c’è sempre una mediazione, con pari dignità, tra il lavoro e l’impresa e a quel punto c’è un diverso tipo di contrattazione, c’è mediazione sociale e assunzione di responsabilità. Tutto questo oggi è messo in discussione dalla battaglia che abbiamo perso con l’articolo 8 e dobbiamo mettere in conto che non è detto che non vengano fatte leggi anche peggiori.
Tra le novità dello sciopero generale del 6 settembre è il fatto che vi hanno partecipato non solo le lavoratrici e i lavoratori iscritti alla Cgil, ma c’è stata una partecipazione molto più ampia per cui non dobbiamo escludere nuove iniziative né sul piano dell’azione sindacale né sul piano dell’azione giuridica, tenendo presente che se voglio cancellare una legge che il parlamento ha fatto ci sono gli strumenti previsti dalla Costituzione compreso, se necessario, anche il referendum abrogativo di quella legge. Il tipo di problemi che abbiamo di fronte è portare avanti e favorire quel processo della società civile che chiede un cambiamento ed è motivo di soddisfazione che la Fiom, in quest’ anno, sia servita anche in piccola parte ad aprire questo processo.
Penso che la situazione sia peggiorata e quando il 22 e il 23 di settembre ci sarà l’assemblea nazionale dei delegati qui a Cervia, dovremo dir loro che dobbiamo riconquistare il contratto nazionale e presentare una piattaforma per un contratto che di sicuro è un contratto fuori legge, perché è proprio contro la legge che viene realizzata questa piattaforma. Non abbiamo nessuna intenzione di subire l’imposizione che in ogni luogo di lavoro si possano fare gli accordi che si vuole derogando dappertutto. In questo senso, mettere di nuovo al centro della discussione di questo Paese la riconquista di un contratto nazionale di lavoro vuol dire non solo parlare agli occupati ma parlare anche ai precari. Un contratto che sia per tutti. E questo è un elemento di cambiamento non di poco conto. Penso poi, e lo considero un punto decisivo anche per riconquistare il contratto, che dovremmo ripartire dalla democrazia. Gli accordi separati esistono non perché altri sindacati lì firmano ma perché sono le imprese che decidono di volta in volta con chi vogliono far l’accordo e poi li estendono a tutti. Occorre quindi ottenere l’impegno contrattuale che gli accordi sono validi solo quando la maggioranza dei lavoratori li approva, sia a livello aziendale che nazionale. Senza questa regola qualsiasi trattativa può concludersi in modo separato. Penso inoltre che, poichè non c’è mai una regola, dovremmo sfidare le altre organizzazioni per andare concretamente nei luoghi di lavoro a misurare la rappresentanza. Nel giro di qualche mese si potrebbe andare a votare in tutte le fabbriche e vedere quanti voti prendono la Fim, la Fiom e la Uil per capire chi rappresenta chi e come chi lavora viene rappresentato. Questo punto della rappresentanza dovrebbe diventare un elemento comune all’interno della Confederazione e permettere più credibilmente di riconquistare il contratto nazionale. Detto questo sono d’accordo che c’è bisogno di un’ iniziativa generale ma, per coerenza, c’è bisogno che ci sia davvero una pratica di democrazia che permetta di ricostruire questa iniziativa.
Ci sono anche degli elementi di contenuto che secondo me vanno innovati. È indubbio che occorre misurarsi sulla questione della precarietà e sulla qualità dei prodotti. Oggi abbiamo tre contratti nazionali: Federmeccanica, Confapi, cooperative. Siamo in Emilia-Romagna e io le cooperative le conosco bene perché sono in aspettativa sindacale da un’azienda cooperativa. In questo settore siamo all’assurdo perché la Fiom ha nel settore delle cooperative l’80% della rappresentanza ma le cooperative hanno firmato un accordo separato con le organizzazioni di minoranza, Cisl e Uil, che rappresentano solo il 20% di chi lavora in questo settore. È per questo che considero un punto centrale quello della democrazia. Se c’è una democrazia nel votare gli accordi chi perde sa che ha deciso un altro lavoratore come lui. Può arrabbiarsi, può non condividere il risultato ma sa che lo ha deciso un altro lavoratore. È quindi essenziale che per ripartire alla conquista del contratto nazionale vi siano queste regole democratiche valide in ogni luogo di lavoro. Rinaldini mi critica perché vado poco a Roma e in effetti forse è un po’ vero perché mi piace di più discutere, e anche litigare, con le lavoratrici e i lavoratori piuttosto che fare una trattativa con gli altri sindacati ma è indubbio che c’è bisogno di un rinnovamento dell’organizzazione.
Quando sono stato eletto uno dei punti su cui mi sono impegnato è stato promuovere un processo di rinnovamento nel sindacato ma se le nuove leve hanno cinquant’anni c’è qualcosa che non va. È importante che i giovani siano rappresentati da altri giovani. È importante che i giovani occupino uno spazio maggiore nel sindacato per poterlo cambiare. Inoltre se vado a vedere quanti sono gli iscritti al sindacato e quanti sono quelli che lavorano, in questi anni è aumentato il numero di lavoratori dipendenti ma è calato il numero degli iscritti. È avvenuto così in Italia e così è avvenuto in Europa. Il modello Marchionne porta anche a questo e la sua logica sta diffondendosi. Vi sono, ad esempio, anche in Emilia delle cooperative che pagano i lavoratori tre euro all’ora perché oggi è molto diverso lavorare in una cooperativa rispetto a quando lavoravo io. Oggi si può scegliere la forma cooperativa per non applicare i contratti, per non avere delle regole, dei diritti. Quello che mi fa arrabbiare di più è che si continua a parlare di “modello emiliano” e si continua a far finta che queste cose non ci siano. Bisogna invece rendere espliciti tutti questi processi che stanno accadendo. I processi di frantumazione del lavoro non sono solo quelli che rendono più difficile la vita del sindacato. C’è anche tutta la questione della legalità-illegalità, tenendo presente che pezzi reali dell’economia di questo Paese sono in mano alla criminalità organizzata, non solo al Sud, perché la malavita organizzata va dove ci sono i soldi e pezzi interi dell’economia. Al Nord l’appalto, il sub-appalto e il sotto-appalto sono in mano alla malavita organizzata. Tutto questo facciamo finta di non vederlo? Per me fare sindacato vuol dire fare anche questo, e ho imparato dalla FIOM che a volte devi anche rischiare, non sai come va a finire ma certe cose le devi fare perché un sindacalista sa come va a finire solo se si è messo d’accordo prima. Concludo affermando che se la Fiom c’è ancora, dopo un anno che hanno fatto di tutto per buttarci fuori, vuol dire che una certa forza ce l’abbiamo e questo non lo si deve a Landini o a Papignani ma alle lavoratrici e ai lavoratori, agli iscritti, ai delegati che sono stati e sono pronti a rischiare, a scommettere, a fare delle scelte difficili. Questo credo sia ciò che fa la differenza della Fiom ed è questo che dobbiamo continuare a fare.
Questo intervento di Maurizio Landini è stato fatto a Bologna il 13 settembre 2011 alla FestUnità del PD in occasione della presentazione del libro di Massimo Franchi Nei panni degli operai. L’intervento è pubblicato sulla rivista «Inchiesta» luglio settembre 2011.
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