Stefano Rodotà: Il degrado del linguaggio e la libertà sindacale “sequestrata” nella Cgil

| 11 Febbraio 2014 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo da La Repubblica 11 febbraio 2014 e dal sito Libertà e Giustizia. it

IL GOVERNO del denaro organizzato è pericoloso esattamente come quello del crimine organizzato”. Sfogo irrazionale di un esagitato? No, parole pronunciate nel 1936 da Franklin Delano Roosevelt a conclusione della sua campagna elettorale. Parole nette, come si conviene ad una politica consapevole del modo in cui devono essere affrontate le grandi questioni.

Sottraendosi alla subordinazione all’economia e ritenendo fondamentale il rispetto della legalità. Forse dalla politica italiana doveva venire un segnale altrettanto forte dopo il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione. E invece si è gridato al complotto, si è fatta qualche variazione sui criteri che hanno portato a quella conclusione, mentre era una buona occasione per riflettere sul fatto che la corruzione italiana non è misurabile solo in termini quantitativi, ma deve esserlo soprattutto in termini qualitativi.

Se nell’Ottocento si denunciava il “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione, oggi i connubi si sono moltiplicati — tra politica e affari, tra politica e criminalità, tra affari e criminalità — e questo dovrebbe essere tema prioritario.
Questo non avviene perché la politica italiana è precipitata in un vuoto dove ha perduto capacità di comprendere la società, dando spazio alla sfiducia dei cittadini e alla conversione della politica in protesta. Una vera sconfitta, della quale abbiamo potuto misurare l’ampiezza in occasione della conversione del decreto su Imu e Banca d’Italia, quando è divenuta evidente l’incapacità di gestire situazioni difficili, ma non certo drammatiche.

Si alzavano i toni, si abbassava la capacità di comprensione e di azione razionale. Né il Governo, né la maggioranza parlamentare e i partiti hanno voluto prendere atto di un elementare dato di realtà: si era di fronte ad un decreto del tutto disomogeneo, al di fuori del binario costituzionale. E, invece di spegnere una così pericolosa miccia, ci si è abbandonati a dissennate prove muscolari, alimentando un indegno spettacolo mediatico. Così la conversione di un decreto legge è divenuta obbligo costituzionale; l’ostruzionismo sempre legittimo in democrazia si è trasformato in blocco fisico del lavoro della Camera e inammissibili aggressioni verbali; l’analisi della situazione è stata affidata a parole gridate, violente contro le donne, con improbabili accostamenti all’eversione e ai colpi di Stato. Si è andati oltre la politica dell’insulto, verso l’estrema degradazione del linguaggio, spia terribile dello stato reale d’una società. Sono comparse liste di proscrizione di chi, magari per un momento appena, aveva sfiorato con un dito l’impuro Grillo.

Si parlava un tempo d’una funzione “teatrale” del Parlamento, perché lì la vicenda politica diveniva palese davanti all’opinione pubblica. Ma oggi questa funzione assomiglia piuttosto a quella delle curve degli stadi, dove gli ultrà organizzano cori e portano striscioni, esibiscono magliette e indicano nemici. Si ha l’impressione che troppi, andando in aula, si preoccupino più di preparare coreografie che argomenti per la discussione.

Una sconfitta per la politica. 
Nessuno è innocente. E da qui deve partire la stessa valutazione dell’atteggiamento tenuto dai parlamentari del Movimento 5Stelle, che mostra la difficoltà di abitare le istituzioni anche in modo duramente conflittuale, ma senza confondere un’aula parlamentare con la piazza del Vaffaday.

È insensato imputare ad una forza di opposizione i suoi no (anche se l’essere saliti in luglio sul tetto di Montecitorio ha consentito un rinvio della discussione dell’orrido disegno di legge che distorceva la revisione costituzionale, ponendo la premessa per il suo abbandono).

È giusto denunciare ogni forma di violenza, verbale o fisica che sia, e non fare alcuno sconto in questa materia. Quando, però, si vuol dare un giudizio più generale, è necessaria una analisi di tutta la prima fase di questa legislatura, sottolineando certamente i limiti delle opposizioni, ma dedicando 
altrettanta attenzione al sostanziale fallimento delle formule di governo.

Di questa sconfitta vogliamo parlare o usiamo la cronaca d’una giornata per esonerarci da questo obbligo?

Il vuoto della politica diventa clamoroso proprio quando si affrontano i problemi della Rete, tema divenuto centrale e che ha rivelato abissi d’ignoranza. Sono anni che si discute dell’“hate speech”, del linguaggio dell’odio che infesta la Rete, sono stati appena pubblicati dalla rivista “Quaderni costituzionali” saggi che discutono il rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e rispetto della dignità delle persone. Di questo non v’è traccia nel dibattito di questi giorni, e diventa addirittura imbarazzante constatare il rifugiarsi in banalità da parte di appartenenti al Movimento 5Stelle, che della Rete hanno fatto il proprio vangelo.

Un numero sempre più largo di persone coglie ogni occasione per vivere aggressivamente in pubblico, restituendoci una versione miserabile del quarto d’ora di notorietà che Andy Wharol diceva dovesse venir garantito a tutti.

Non è facile reagire a questo stato di cose, ma un comune punto d’avvio dovrebbe essere costituito dal riconoscimento della necessità di non rendere “accoglienti” per il linguaggio degradato i luoghi della nuova comunicazione. Non sto parlando di censura preventiva. Mi riferisco all’immediata e pubblica condanna di messaggi oltraggiosi. Le incertezze e le furbizie generano equivoci, ma la Rete è implacabile nel far emergere le responsabilità, non si può gettare il sasso e poi nascondere la mano.

È emerso un fondo limaccioso, un misto di aggressività, violenza, risentimenti, fine d’ogni rispetto per l’altro, che ci rivela che cosa sia divenuta la società italiana. Tutto questo esige una riflessione sul modo in cui si è consumato in Italia un divorzio tra civiltà, cultura e politica. 
La lista delle sconfitte della politica continua con un aspetto sottovalutato della legge elettorale, che riguarda la rappresentanza. Siamo di fronte ad una “Serrata del Maggior Consiglio”, simile a quella che si ebbe nel 1297 a Venezia, quando si riservò ai soli membri delle vecchie famiglie l’elezione del Doge.

Con l’argomento della lotta ai partitini, si cuce una legge elettorale su misura dei partiti esistenti, con qualche mancia per i possibili alleati (norma salva Lega, candidature multiple per Alfano, vantaggi al “miglior perdente” delle coalizioni). Alle ultime elezioni i votanti furono trentaquattro milioni. Poiché si prevede una soglia dell’8%, rimarrebbero fuori dal Parlamento anche partiti votati da più di due milioni di persone. Le dinamiche politiche sarebbero bloccate e la rappresentatività del Parlamento pregiudicata.

Ma la questione della rappresentanza ha ormai una portata generale, come dimostra il conflitto che si è aperto nella Cgil intorno all’accordo tra sindacati e Confindustria del gennaio di quest’anno. Siamo anche qui di fronte ad una sorta di serrata, che limita non solo il dissenso all’interno del sindacato, ma incide proprio sul diritto dei lavoratori ad essere rappresentati, tanto che si parla di una libertà sindacale “sequestrata”, in evidente contrasto con quanto ha stabilito la Corte costituzionale accogliendo un ricorso della Fiom.

Questa vicenda importantissima ci dice che ormai il tema della rappresentanza e la politica costituzionale fanno tutt’uno.
 La voce della politica è tornata con la giusta critica di Napolitano alle logica dell’austerità. Ma, per riprendere la via dell’Europa, non basta “ridemocratizzare” le sue istituzioni, come chiede Habermas.

È indispensabile “rilegittimare” l’Unione attraverso un recupero della fiducia dei cittadini che passa attraverso il riconoscimento dei diritti negati in questi ultimi anni.


Category: Lavoro e Sindacato, Politica

About Stefano Rodotà: Stefano Rodotà. Nato nel 1933 a Cosenza da una famiglia originaria di San Benedetto Ullano, comune della minoranza arbëreshë di Calabria, discende da una famiglia che ha annoverato, fra il XVII e il XVIII secolo, intellettuali e religiosi. Ha frequentato il liceo classico Bernardino Telesio nella città natale e successivamente l'università La Sapienza a Roma, presso la quale si è laureato nel 1955 in giurisprudenza, discutendo una tesi con il docente Emilio Betti, allievo di Rosario Nicolò. È fratello dell'ingegnere Antonio Rodotà ed è il padre della giornalista Maria Laura Rodotà, editorialista del Corriere della Sera. Nel 2008 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria dalla città di Rossano. Dopo essere stato iscritto al Partito Radicale di Mario Pannunzio, rifiuta nel 1976 e nel 1979 la candidatura nel Partito Radicale di Marco Pannella. È eletto deputato nel 1979 come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, diventando membro della Commissione Affari Costituzionali. Nel 1983 viene rieletto e diventa presidente del gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente. Deputato per la terza volta nel 1987, viene confermato nella commissione Affari Costituzionali e fa parte della prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Nel 1989 è nominato Ministro della Giustizia nel governo ombra creato dal PCI di Achille Occhetto e successivamente, dopo il XX Congresso del partito comunista e la svolta della Bolognina, aderisce al Partito Democratico della Sinistra, del quale sarà il primo presidente del Consiglio nazionale, carica che ricoprirà fino al 1992. Nell'aprile del 1992 torna alla Camera dei Deputati tra le file del PDS, viene eletto vicepresidente e fa parte della nuova Commissione Bicamerale. Nel maggio del 1992 in qualità di vicepresidente della Camera sostituisce il presidente Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza del Parlamento convocato in seduta comune per l'elezione del presidente della Repubblica: Scalfaro, che prevedeva l'elezione al Quirinale, aveva infatti preferito lasciare lo scranno della presidenza. Nel 1994, al termine della legislatura durata solo due anni, Rodotà decide però di non ricandidarsi, preferendo tornare all'insegnamento universitario.Nel 2007 partecipa ad una Commissione Ministeriale istituita al fine di dettare una nuova più moderna normativa del Codice Civile in materia di beni pubblici. Questa commissione voluta da Clemente Mastella e presieduta da Stefano Rodotà ha presentato in Senato un disegno di Legge Delega che però non è mai stato discusso. Dal 1983 al 1994 è stato membro dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa. Sempre in sede europea partecipa alla scrittura della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Dal 1997 al 2005 è stato il primo Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, mentre dal 1998 al 2002 ha presieduto il gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell'Unione europea. È stato inoltre componente del gruppo europeo per l'etica delle scienze e delle nuove tecnologie e presidente della commissione scientifica dell'Agenzia europea dei diritti fondamentali. Rodotà è stato votato, ma non eletto, durante l'elezione del presidente della repubblica italiana del 2013. Sul suo nome sono andati a convergere i voti del Movimento 5 Stelle (che lo ha proposto dopo una votazione in rete tra i suoi iscritti), di Sinistra Ecologia Libertà e di alcuni esponenti del suo partito (Partito Democratico) che, alla fine, ha preferito altre figure facendo rieleggere il presidente uscente, Giorgio Napolitano. In seguito ad alcune critiche del giurista alla conduzione dirigenziale del Movimento 5 Stelle è stato definito da Beppe Grillo "ottuagenario miracolato dalla rete" Il 29 novembre 2010 ha presentato all'Internet Governance Forum una proposta per portare in Commissione Affari Costituzionali l'adozione dell'articolo 21bis, che recitava: "Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale". Nei confronti del mondo di internet Rodotà ha assunto posizioni di tipo libertario, implementando le sue idee sui media in diversi ambiti quali: Internet Governance Forum dell'Onu, all'Unesco, al Parlamento europeo. Ha insegnato nelle università di Macerata, Genova e Roma, dove è stato professore ordinario di diritto civile e dove gli è stato conferito il titolo di professore emerito. Ha insegnato in molte università europee, negli Stati Uniti d'America, in America Latina, Canada, Australia e India. È stato professore invitato presso l'All Souls College di Oxford e la Stanford School of Law. Ha insegnato presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne e ha collaborato con il Collège de France. Ha ricevuto la laurea honoris causa dall'Università Michel de Montaigne Bordeaux 3 e dall'Università degli Studi di Macerata. È presidente del consiglio d'amministrazione dell'International University College of Turin. Fa parte del comitato dei garanti del Centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino.Dal 2013 è titolare del corso di Bioetica presso la Scuola di Studi Superiori dell'Università di Torino.Ultime sue pubblicazioni: Elogio del moralismo, Roma-Bari, Laterza, 2011; Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012. La rivoluzione della dignità, Napoli, La scuola di Pitagora, 2013 È stato Presidente della Fondazione Lisli e Lelio Basso e dal 2008 dirige, in qualità di responsabile scientifico, il Festival del diritto di Piacenza. In campo editoriale ha diretto 'Il diritto dell'agricoltura' e dirige attualmente le riviste 'Politica del diritto' e 'Rivista critica del diritto privato'. Ha collaborato a diversi giornali e riviste, tra i quali Il Mondo, Nord e Sud, Il Giorno, Panorama, il manifesto, L'Unità. Collabora dalla fondazione con il quotidiano La Repubblica.

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