Serbia, la Fiat compra la Zastava

| 15 Gennaio 2012 | Comments (0)

Dalla fervida collaborazione degli anni Cinquanta ai negoziati degli anni Duemila per il rilevamento dell’azienda*

L’articolo è frutto del lavoro congiunto di Sara Bernard, dottoranda in Storia dell’Europa sud-orientale all’Università di Ratisbona, e di Vladimir Unkovski-Korica, esperto di  storia politica e sociale dell’Europa dell’Est e dei Balcani. Il profilo di Vladimir Unkovski-Korica è consultabile nella versione inglese di questo articolo https://www.inchiestaonline.it/osservatorio-internazionale/serbia-crashing-the-yugo/

 

1. Il primo crollo del debito: dall’industrializzazione basata sulla sostituzione delle importazioni alla produzione orientata all’esportazione

La Zavodi Crvena Zastava (Stabilimenti Bandiera Rossa) nasce nel 1951 a Kragujevac, città situata nella regione Šumadija (Serbia Centrale), a 180 km dalla capitale Belgrado. Pur iniziando la sua attività quale produttrice di armi, la Zastava già nel 1953 avvia una produzione di macchine, divenendo in breve tempo la principale industria automobilistica jugoslava e il più conosciuto marchio “Yugo” all’estero.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, la Zastava attraversa un periodo di prosperità: godendo di una sorta di monopolio nel protetto mercato domestico, riesce facilmente a crescere, grazie all’espansione della richiesta di macchine nella Federazione jugoslava. Il successo della Zastava costituisce un fattore positivo non solo per l’economia serba ma anche per quella delle altre repubbliche e province. Infatti, seguendo il modello di produzione titino, la fabbricazione dei vari componenti è distribuita su tutto il territorio jugoslavo: le batterie sono prodotte in Kosovo, l’elettronica in Slovenia e il cambio in Croazia[i].

Il rapido successo della Zastava è reso possibile anche grazie alla collaborazione con la Fiat, che sin dal 1953 fornisce pezzi, attrezzature e licenze dei suoi nuovi modelli che vengono adottati e adattati alle necessità del mercato jugoslavo. Con l’aiuto dalla casa automobilistica italiana, negli stabilimenti di Kragujevac vengono assemblati nel 1961 più di 10.000 auto (contro le 386 del 1953) mentre già nell’anno successivo una serie di investimenti li equipaggia per la produzione su larga scala del modello Z-101, variazione della Fiat 128 [ii].

L’assemblaggio di questo modello porta la Zastava al commercio con il Comecon. La Z-101 è infatti progettata per generare un mercato di interscambio tra differenti unità industriali sparse nell’ Europa dell’Est che, utilizzando componenti Fiat, ne realizzano delle imitazioni. Questo mercato però, sfavorendo i produttori interni e non producendo valuta forte, si rivela presto svantaggioso per la Jugoslavia che abbandona gradualmente l’iniziativa. La crisi petrolifera degli anni Settanta, che giunge poco dopo, trova la Jugoslavia in acuta stagnazione economica e fa crescere vertiginosamente il debito estero, spingendo la dirigenza di Kragujevac ad una risoluta svolta verso il mercato occidentale[iii]. Tuttavia, essendo il più recente Z-101 non al passo con gli standard del libero mercato, la Zastava chiede ed ottiene licenza per produrre il nuovo modello Fiat 128. Il tentativo fallisce nei suoi principali obiettivi: l’arretratezza tecnologica dei reparti jugoslavi e la mancanza di qualificati quadri professionali, si rivelano incompatibili con i progetti megalomani della dirigenza che, per affrontare la competizione del libero mercato, entra in una nuova spirale di debito in valuta forte.

La situazione peggiora ulteriormente nei primi anni Ottanta, quando la Zastava stipula un accordo con il magnate americano Malcolm Bricklin per importare negli Stati Uniti. Il progetto di Bricklin consiste nel ridisegnare e modernizzare i modelli Yugo e Florida e di venderli ai paesi in via di sviluppo prima di lanciarne la vendita nel mercato occidentale. Il progetto però non procede come previsto, andando a danneggiare soprattutto il mercato jugoslavo. Infatti, nonostante non abbia ottenuto i finanziamenti necessari, Bricklin non abbandona il proposito di creare una compagnia di esportazione jugo-americana e invita la Zastava a fabbricare nuovi modelli che richiedono grossi investimenti e quindi prestiti stranieri[iv]. Contemporaneamente, nel disperato tentativo di stabilizzare il pagamento dei debiti e su richiesta del Fondo Monetario Internazionale, il dìnaro è svalutato[v]. Ne risulta un deprezzamento del valore delle esportazioni jugoslave e un rafforzamento del circolo vizioso che continua a generare dipendenza dal credito straniero, macchine costruite male, irrazionale gestione delle risorse e bassa produttività del lavoro.

Nel periodo 1987-1988 la Zastava lavora a piena capacità e raggiunge il suo picco con 200.000 modelli prodotti, la maggior parte dei quali è venduta sottocosto nel mercato jugoslavo. Solo due anni dopo, seguendo il collasso del Paese, la produzione diminuisce drasticamente (fino a meno di 100.000 modelli). Stessa sorte subiscono i lavoratori che vengono licenziati in massa[vi]. La guerra, le sanzioni e il bombardamento fanno il resto. Non è solo la fine del mercato economico jugoslavo ma anche e soprattutto il crollo di 50 anni di convivenza.  Diverse alternative sono, a questo punto, possibili.  Purtroppo, la più triste e dolorosa di queste viene scelta. Le enormi difficoltà affrontate dalla classe lavoratrice, principale vittima della dissoluzione jugoslava, vengono spesso strumentalizzate e manipolate a seconda delle strategie promosse da leadership nazionaliste assetate di potere.

Prospettive per una rinascita della Zastava –  che colpita dal bombardamento Nato nel 1999 conta pure 160 feriti -devono aspettare la caduta di Milošević nell’ottobre del 2000. Tuttavia anche allora, a causa dell’estremo impoverimento subito dall’economia serba, il nuovo regime ripropone la vecchia strategia di integrazione nel mercato mondiale portandola ad un più profondo livello rispetto a quello che fino ad allora era stata una crescita guidata dal credito estero. Per riportare in vita la sua produzione automobilistica, la nuova leadership inizia a cercare ogni possibile partner straniero che voglia fare della Zastava un’industria esportatrice di macchine.

 

2. Il secondo crollo del debito: dalla mania dell’export alla partnership straniera

Durante gli anni Novanta, molti paesi dell’Europa centro-orientale dal passato comunista rilanciano con discreto successo le loro aziende automobilistiche grazie alla fusione o collaborazione con giganti del settore: la ceca Skoda con la Volkswagen, la rumena Dacia con la Renault (che sigla accordi anche con la Slovenia) e l’Ungheria, per la prima volta nel settore, con Opel, Audi, Subaru e Suzuki.

Nel cercare di riaprire i giochi e trovare un partner per la Zastava, il governo serbo ratifica nel 2001 una nuova legge sulle privatizzazioni che favorisce enormemente gli investimenti stranieri diretti. Infatti, anche se una regolamentazione sugli investitori stranieri era già stata introdotta nel 1967 e sin dal 1989 gradualmente liberalizzata, la nuova legge è sostanzialmente rimodellata secondo l’imperativo neoliberale delle istituzioni finanziarie internazionali[vii]. Il punto chiave è che per ricevere aiuto economico, la Serbia deve intraprendere una serie di riforme strutturali in campo economico, sociale e politico. Al di là dei giudizi sui contenuti, molte di queste riforme vengono imposte alla Serbia senza tempo e modo di preparare la società, sacrificando senza le dovute valutazioni risorse ed esigenze nazionali specifiche.

Nel settore economico, per esempio, sotto l’imperativo della produttività e della razionalizzazione, viene adottata una nuova legislazione sul lavoro, più flessibile e più pluralistaica, che dovrebbe generare interesse tra i possibili investitori. In pratica, “flessibilità” si traduce in centinaia di licenziamenti nel settore pubblico e “pluralismo” nell’indebolimento del potere contrattuale delle principali unioni sindacali[viii]. Con queste premesse, il governo serbo apre le porte a massive privatizzazioni di aziende statali e associate, la cui principale attrazione consiste nei bassi costi del lavoro e della produzione[ix].

Il programma di privatizzazione investe subito la Zastava. I dodici differenti reparti di cui si compone, vengono messi sul mercato ma solo alcuni di questi trovano un compratore. La Zastava auto, la più grande con circa 13.000 operai, non suscita nessun interesse: i suoi modelli sono vecchi di 15 anni e così pure la sua tecnologia. La poco promettente situazione spinge la dirigenza della Zastava, politici locali e sindacalisti a negoziare con Belgrado una sorta di strategia di sopravvivenza. Gli operai vengono ridotti a circa 4500 e parte di loro è assegnato ad un programma statale, lo ZZO (Zastava Zapošljavanje i Obrazovanje – Zastava Impiego e Formazione) il cui compito principale è in realtà distribuire sussidi (45% del misero salario mensile che ammonta a circa 220 euro),  in attesa che dall’esterno arrivi una soluzione. Secondo le previsioni dell’allora Ministro del Lavoro Dragan Milovanović e del Ministro dell’Economia Mladjan Dinkić, lo ZZO sarebbe dovuto durare circa 3-4 anni, il tempo necessario per trovare un compratore e completare la privatizzazione dei capannoni[x].

Le previsioni si rivelano ottimiste. I sussidi temporanei (e straordinari) per far sopravvivere la Zastava si protraggono per sette anni. In questo lasso di tempo, varie impraticabili soluzioni vengo tentate. Tra queste, le più “vistose” tornano a guardare al mercato americano: prima con una rinnovata collaborazione con il partner americano degli anni Ottanta, Malcolm Bricklin, che fallisce nuovamente per gli enormi costi e scarsi risultati ottenuti; successivamente e nonostante il disastroso esito della seconda avventura oltreoceano, un ulteriore tentativo di salvare “l’affare” americano viene proposto dall’investitore serbo-canadese Stevan Pokrajac. Quest’ultimo dichiara di possedere (e voler offrire) i 230 milioni di dollari necessari per saldare il debito Zastava e rilanciare l’impresa. Tuttavia, dopo essere stato salutato per mesi come l’affare del secolo e Pokrajac come un “salvatore”, al momento di firmare l’accordo il sicuro atteggiamento di Pokrajac svanisce, così come il progetto e le ingenti somme avanzate.

Finalmente un accordo più credibile si profila nel 2005 grazie ad una proposta fatta da Fiat. In sostanza l’intesa italo-serba prevede che tra le 5.000 e 12.000 Fiat Punto, nella versione locale Zastava 10, siano fabbricate nei capannoni di Torino,  assemblate a Kragujevac e infine immesse sul mercato serbo. La rilanciata collaborazione tecnica ed economica stabilisce anche che venga saldato il debito di circa 11,5 milioni di euro che Zastava ha maturato verso la Fiat. In aggiunta, il governo serbo deve coprire i costi (circa 15 milioni di euro) per ricostruire la linea di verniciatura distrutta durante il bombardamento Nato. A cifre simili ammontano ulteriori spese che andranno in acquisizione di macchinari e attrezzature fornite da altre compagnie partner della Fiat[xi].

Vendendo immobili di proprietà della Zastava e sperando in ulteriori entrate grazie alle privatizzazioni, il governo serbo inizia ad assemblare la Punto per il mercato locale. Tuttavia i risultati sono modesti e non ripagano che in minima parte gli enormi oneri sostenuti. L’alto costo della macchina (7.500 euro) è sicuramente un fattore influente. Tuttavia, di maggior peso sembra essere l’accordo di libero scambio tra Serbia e Romania[xii] che permette a quest’ultima di importare la Dacia (al primo posto nelle vendite in Serbia) esentasse.

Gli scarsi profitti che generano il contratto con la Fiat ed uno simile successivamente siglato con Opel, svuotano le già leggere casse dello Stato serbo. Mentre la Zastava continua a lavorare a scaglioni, senza continuità, offrendo lavoro part-time ad una minima parte dei suoi operai, iniziano a girare voci che Zastava e Fiat abbiano in cantiere una nuova soluzione per l’industria automobilistica serba.

La speranza si concretizza nell’aprile 2008 quando un memorandum di intesa viene firmato. Il vice presidente Fiat Altavilla e il Ministro dell’Economia Dinkić stabiliscono i termini che porteranno al rilevamento della Zastava da parte dell’azienda italiana. La Fiat porterà 700 milioni di investimenti a Kragujevac e la produzione di due nuovi modelli, mentre il governo serbo avanza condizioni particolarmente favorevoli quali esenzione da dazi doganali sulle importazioni e utilizzazione gratuita dei 400.000m² dei capannoni di Kragujevac[xiii]. Secondo indiscrezioni giornalistiche, la generosità del governo serbo è in gran parte motivata dal fatto che la sigla dell’accordo con Fiat è visto come l’asso nella manica che permette al Partito Democratico di vincere le elezioni dell’11 maggio e di sconfiggere l’agguerrito rivale, l’ultranazionalista Partito radicale serbo[xiv].

Passano le elezioni così come numerosi incontri pubblici che confermano l’avvenuto incontro, ma l’entrata in vigore del memorandum continua ad essere posticipata. La produzione finalmente riparte con un organico ridotto di poco più di mille lavoratori, mentre resoconti sindacali evidenziano come nonostante le sovvenzioni statali offerte ai potenziali clienti, degli 8500 modelli prodotti nel 2010, 4500 sono rimasti invenduti. Segue un blocco della produzione che, anche se ufficialmente posto in essere per ristrutturare le infrastrutture, fa temere che la vera motivazione sia un ripensamento di Fiat intenzionata a  lasciare la Serbia[xv].

La Fiat, che detiene una quota del 67 per cento, e il governo, che possiede il resto, negano e spiegano come in realtà l’investimento sia cresciuto (800 invece di 700 milioni di euro dalla FIAT e 300 invece di 100 milioni dal governo serbo). Aggiungono, inoltre, che la Banca Europea per gli Investimenti contribuirà con un prestito di 500 milioni, che andranno a finanziare la produzione di due nuovi modelli minivan, la cui produzione dovrebbe raggiungere, entro il 2013, i 200.000 modelli all’anno. Questo progetto dovrebbe generare 1.500 ulteriori posti di lavoro che, aggiunti agli altri, dovrebbero poter dare impiego a 4.000 o forse 5.000 lavoratori. Sebbene queste previsioni siano in linea con i processi di automazione del lavoro e gli standard di produzione internazionali, il sindacato non è sicuro che il processo prenda davvero piede e ha dei dubbi sul fatto che possa risolvere i problemi strutturali dell’occupazione a Kragujevac[xvi].

Il crescente indebitamento pubblico e i non chiari benefici che la popolazione dovrebbe ricavare dall’accordo con Fiat, portano infine alla richiesta da parte del Consiglio anti- corruzione di esaminare una copia dell’accordo. In Novembre 2011 il verdetto, che anticipa di vari mesi la ripresa della produzione a Kragujevac, consiste nella pubblicazione di un testo di 100 pagine interamente censurato (da linee nere che ne impediscono la lettura)[xvii]. Ironicamente lo studioso Palairet[xviii], stimando che i contribuenti jugoslavi avevano perso 1 miliardo di dollari nei decenni prima del 1992 per sovvenzionare la “export-mania” della Zastava, non ha tenuto conto del ripetersi della storia; nonostante le conseguenze disastrose per le risorse finanziarie del Paese, per l’occupazione e la crescita, ancora una volta la risposta del governo risulta essere una totale abnegazione ad ogni plausibile partnership straniera.

 

3. Dalla Zastava alla FIAT: le battaglie sindacali per il diritto al lavoro

Il graduale ma constante crollo della Zastava e il suo recente trasferimento alla FIAT, non è stato un processo indolore e ha di fatto portato ad una accanita resistenza dei lavoratori, che però non ha avuto successo. Dal momento che i lavoratori hanno un grande interesse nella continuazione della produzione, fondamentale sia per il saldo dei pagamenti con l’estero sia per i consumi interni, la comprensione delle cause che hanno portato alla sconfitta dei lavoratori può essere la chiave per capire se esistono alternative per il futuro che garantiscano occupazione e crescita e come queste possano realizzarsi.

Innanzitutto è importante sottolineare che lo schema di lotta adottato dai lavoratori della Zastava è tipico del movimento operaio serbo del periodo post-Milošević. Collaborazione ai vertici tra leader sindacali e gruppi dirigenti, e guerriglia industriale e sconfitte ai livelli di base sono state la regola. Questo è il risultato di una complessa interazione fra fattori ideologici e strutturali. Attribuibili ai primi sono l’esistenza di rapporti clientelari tra Stato e sindacato e il fatto che quest’ultimo assecondi i partiti parlamentari e accetti l’ideologia che sta dietro ai principi neo-liberali. Per quanto riguarda i secondi, ne sono manifestazione il decentramento della contrattazione collettiva dopo il 2001 e la deindustrializzazione del Paese. Dall’interazione di questi fattori sono risultate isolate “battaglie” locali. Esse, normalmente, sono  di tipo difensivo, ma a volte assumono modalità offensive, che si esprimono in occupazioni, blocchi delle vie di trasporto e proteste sociali. Tuttavia, ad eccezione della lotta nel settore pubblico, il movimento sindacale nel settore privato continua ad essere debole cosa che si ripercuote non solo sui lavoratori, ma anche sulla qualità dei servizi sociali per la maggioranza dei cittadini del Paese.

La debolezza della classe lavoratrice è piuttosto sorprendente visto il ruolo centrale da essa svolto nella Rivoluzione del 5 ottobre, che ha condotto il Paese sulla strada della transizione democratica. La “combinazione di sciopero e di protesta civile” alla miniera Kolubara, nelle vicinanze di Belgrado[xix], ha rappresentato un vero turning point, consentendo all’opposizione di imporsi democraticamente e rendendo vani  i tentativi di Milošević di camuffare la sconfitta subita alle elezioni del mese precedente. Lottando contro i loro stessi dirigenti, il sindacato e il capo dell’esercito fedeli a Milošević, i minatori hanno ridato speranza a tutta la Serbia. La fine dell’ autoritarismo di regime e l’avvento della democrazia multipartitica hanno pertanto segnato la fine della subordinazione del lavoro a istituzioni dominate dallo Stato, che aveva soffocato per decenni qualsiasi reale autonomia dei lavoratori[xx].

Ma l’attività sindacale dopo la Rivoluzione d’Ottobre non ha fatto i passi in avanti sperati, dal momento che le principali federazioni sindacali hanno di buon grado accettato di continuare a subordinare l’autonomia dei lavoratori agli imperativi del governo, in cambio di sussidi e di un posto al tavolo dei negoziati. Questa scelta è stata condivisa sia dall’ex sindacato di regime, Savez Sindikata Srbije (Confederazione dei sindacati della Serbia), sia dai sindacati d’opposizione, l’UGS Nezavisnost (Indipendenza) e la ASNS Asocijacija slobodnih i nezavisnih sindikata (Associazione dei sindacati liberi e indipendenti). I sindacati di opposizione hanno dimostrato di portare ancora i segni dei tempi in cui sono nati: da un lato, manifestano il desiderio militante delle file degli operai, che si sono staccati dal SSS durante la crisi; dall’altra, hanno appoggiato le privatizzazioni quali basi per un nuovo ordine economico sul modello occidentale[xxi].

Il loro seguire la corrente, simboleggiata dall’entrata del leader dell’ASNS nel governo guidato dal liberale Djindić come Ministro del lavoro, ha relegato i sindacati di opposizione all’ex regime in una logica che rende la resistenza agli effetti della privatizzazione inconciliabile con le loro ambizioni programmatiche. Al contrario, il riformato e rinominato SSSS (Confederazione dei sindacati indipendenti, vecchio SSS) che è rimasto il principale sindacato serbo, ha preso parte nell’autunno del 2003 ad una grande manifestazione organizzata dai partiti nazionalisti di opposizione contro le privatizzazioni e per elezioni anticipate. A questa mobilitazione, tuttavia, è seguito un periodo di relativa inerzia da parte sindacale, che è andato ad accentuare la sfiducia della popolazione nei confronti del sindacato, come è emerso  da un sondaggio condotto nel 2006[xxii].

La relativa tranquillità che sembra predominare dalla metà degli anni 2000 è il risultato dell’abile utilizzo della strategia del “bastone e della carota” da parte dei governi nazionalisti presieduti da Koštunica, succeduti ai governi liberali dei primi anni 2000. Infatti, da un lato i salari reali sono aumentati ma solo grazie ad una crescita guidata dai crediti e dall’afflusso di investimenti esteri diretti; dall ‘altra, la nuova legislazione del lavoro, che ha introdotto alcune protezioni per i sindacalisti, ne ha anche limitato il diritto di chiamare allo sciopero per i lavoratori impiegati in servizi primari. Secondo l’indagine annuale della CISL Internazionale sulle violazioni dei diritti sindacali, queste limitazioni interessano il 60 per cento dei lavoratori. La nuova legge ha permesso ai dirigenti della JAT (compagnia aerea di bandiera) di fermare uno sciopero contro la ristrutturazione della compagnia che ha comportato il licenziamento dei due terzi dei lavoratori.

La crescita, trainata dall’esterno, non si è fermata ma continua ad alimentare un vero e proprio processo di deindustrializzazione, come è emerso da uno studio condotto dal dottor Ivan Stošić dell’Istituto di Scienze Economiche di Belgrado, secondo il quale la produzione industriale in Serbia nel 2009 era scesa ai due terzi rispetto a quella del 1989. I media nel 2010 sono stati ancora più pessimisti, sostenendo che parlare di due quinti è più vicino alla verità. Questa sfiducia è confermata anche dai dati dell’Agenzia per le privatizzazioni che mostrano come quasi un quarto delle privatizzazioni siano fallite. Per un certo periodo, una ben orchestrata campagna mediatica ha sponsorizzato una forma rudimentale di darwinismo sociale quale ideologia guida nella società, rafforzando disunione e passività sociale.

Eppure, nella seconda metà del 2007, Kragujevac, con il sostegno di altre industrie locali, era riuscita a ribellarsi allo status quo e a portare in strada 7.000 lavoratori, dando voce ad una protesta che è stata soprannominata “la rivolta dei lavoratori di Kragujevac”[xxiii]. La protesta, organizzata per costringere il governo a continuare a sostenere finanziariamente il programma ZZO, che dal 2001 erogava dei sussidi sociali ai lavoratori licenziati o in cassa integrazione, è purtroppo fallita, lasciando a casa circa 2.500 lavoratori della Zastava. Ma la rabbia ha continuato a crescere sempre più.

Il senso di frustrazione della base ha iniziato a preoccupare le classi dirigenti. È stato in questo contesto che l’accordo del 2008 con la Fiat ha assunto un ruolo chiave nella campagna elettorale che ha visto la prima vittoria decisiva del blocco filo-europeo dopo la caduta di Milošević. Tuttavia, la promessa che l’integrazione in reti di produzione straniere avrebbe finalmente permesso alla Serbia di risollevarsi si è  dimostrato ancora una volta un’illusione. Il credito straniero si è drasticamente ridotto dopo il crollo economico in Occidente del 2008, fatto che si è immediatamente ripercosso sulla crescita in Serbia del 2009, crollata del 4%. La FIAT ha continuato a rimandare l’avvio della produzione concedendo nel frattempo un programma sociale per circa i tre quinti dei lavoratori, che probabilmente verranno licenziati[xxiv].

In questo frangente, sono sorprendentemente emersi segnali di una possibile estensione della lotta operaia, che suggeriscono la possibilità di mettere alle strette la Fiat e il governo serbo, costringendoli  a cambiare strategia per uscire dalla crisi, investendo maggiormente nella creazione di posti di lavoro e nella crescita e cercando di far crescere la domanda. Per avere successo, la sezione locale del sindacato SSSS alla Zastava dovrebbe sviluppare contatti internazionali per far pressione sulla FIAT e collegamenti nazionali per far pressione sul governo serbo. Sembra si stiano aprendo possibilità per entrambe queste strategie. Rappresentanti sindacali della Zastava hanno partecipato ad un raduno internazionale dei lavoratori di tutti gli impianti Fiat nel settembre 2008 per discutere le modalità di contrattazione collettiva a livello internazionale. In Serbia, nel frattempo, i lavoratori sembra si stiano muovendo verso strategie coordinate di lotta, come dimostrato dal fatto che nell’estate del 2009 hanno portato oltre 40 imprese in sciopero,  di cui una parte ha istituito una commissione ad hoc che si è poi trasformata in un comitato di coordinamento delle proteste dei lavoratori[xxv]. La Serbia è stata inoltre teatro di altri numerosi scioperi del settore pubblico, come quelli che hanno avuto luogo nell’inverno del 2010[xxvi] per il congelamento dei salari e quelli che sono stati organizzati in marzo, sostenuti da 15.000 manifestanti per le strade di Belgrado.

Per quanto riguarda il movimento operaio nel settore privato invece non ci sono stati progressi. Ciò è singolare perché entrambe le volte che il settore pubblico ha indetto lo sciopero, le attività che ne sono seguite riguardavano da vicino gli scioperi del settore privato. Allo stesso modo, dopo un’estate bollente per l’’industria e un altrettanto acceso inverno nel settore pubblico, è seguita una primavera mite con l’annuncio da parte del sindacato degli operai metalmeccanici di una serie di proteste per la stipulazione di un programma nazionale di cooperazione tra Stato e settore privato finalizzato a riportare l’industria in attivo. Eppure, invece delle decine di migliaia annunciate, solo 1000 hanno preso parte alla prima protesta nelle province e di conseguenza la campagna ha perso ben presto vigore. Le proteste del Primo Maggio, che era stato segnalato come momento culminante, ha attirato solo un paio di centinaia di lavoratori e attivisti di sinistra[xxvii].

Proprio nell’inverno del 2010, mentre gli operai di Kragujevac inauguravano una nuova strategia per la riscossa del movimento operaio, veniva sancito il collasso della lotta nel settore privato. Quest’ultimo promuove uno sciopero alla fine di dicembre 2010, quando circa 100 lavoratori occupano il municipio di Belgrado in nome del diritto al lavoro, dichiarando l’intenzione di continuare la loro azione fino a che le loro richieste non sarebbero state soddisfatte. Durante la notte però, in circostanze poco chiare, il sindacato firma un accordo leggermente modificato, mentre il leader del sindacato finisce in ospedale per un attacco cardiaco.

In verità, lo sciopero e la protesta dimostrano per lo più la mancanza di direzione da parte dei sindacati del settore industriale in Serbia più che la rabbia e la disperazione degli operai. Nonostante la consapevolezza che una soluzione era in sospeso da diversi anni, il sindacato ha fatto poco per creare legami più forti con la comunità e su una piattaforma più ampia rispetto alle domande di sussidi sociali per i propri membri. L’aspetto più tragico dello sciopero del dicembre 2010 e che ha accompagnato la scomparsa della Zastava, è stata la ripetizione degli errori commessi dal movimento operaio nei decenni precedenti. Il suo carattere apolitico, il suo cercare compromessi con il governo locale in cerca dell’aiuto dell’ultima ora, così come la sua caratteristica retorica altisonante e trasudante disperazione che ha toccato il fondo con il minacciare scioperi della fame, erano tutti stratagemmi già proposti anche prima nel 2007, ad eccezione della “nuova” minaccia di autolesionismo[xxviii].

Purtroppo ancora niente di concreto è maturato sul fronte dei collegamenti internazionali del sindacato. Le condizioni economiche di crisi nella “Zona euro” e gli imprevedibili scenari politici che ne scaturiranno in Serbia, portano i lavoratori non licenziati a continuare la produzione e a sperare in un suo aumento. È probabile che gli operai metalmeccanici in altri paesi affrontino simili incertezze. Per questo, la chiusura di uno degli stabilimenti Fiat in Italia non comporta solo la sconfitta di un gruppo di lavoratori ma l’abbassamento degli standard di tutti gli operai Fiat nel mondo. Purtroppo, le attuali strategie sindacali e le istituzioni non hanno ancora a disposizione strategie per affrontare condizioni di prolungata crisi economica su scala mondiale[xxix].

L’economia del debito permanente, che seguita ai keynesiani ‘Anni d’oro’ del dopoguerra, dal 1970 in poi si è di fatto basata sull’offensiva contro il movimento operaio. Ora, è proprio il suo attacco alla richiesta di invertire i tassi di profitto in caduta che ha ostacolato la crescita reale e intensificato la finanziarizzazione, con tutta l’instabilità che essa comporta[xxx]. Questo processo ha chiaramente preso piede non solo nel mondo sviluppato, ma anche nelle sue aree periferiche quali l’ex Jugoslavia e l’attuale Europa sud-orientale[xxxi]. La crisi dell’industria automobilistica rappresenta uno specifico aspetto  di questa crisi, con diversi cicli di apertura al mercato mondiale, prima come sostituzione delle importazioni, poi come sviluppo trainato dalle esportazioni e infine come la piena integrazione delle reti di produzione internazionale. Il corso della crisi ha coinvolto anche lo Stato specialmente in Occidente dove lo Stato ha tentato di fare del debito privato un debito pubblico e di fornire una sorta di barra protettiva che blocchi un’ulteriore caduta dell’economia. I crescenti vincoli transnazionali di produzione che hanno seguito l’internazionalizzazione del capitale finanziario insieme al crescente intervento dello Stato durante la crisi economica, hanno portato alla crisi simultanea dello Stato e della globalizzazione.

La assunzione che ‘non c’è alternativa’ al neoliberismo solo ora comincia ad essere erosa, ma è ancora l’ostacolo principale allo sviluppo di nuovi movimenti dei lavoratori, in quanto ha impedito ai principali sindacati di portare le vere lotte dal livello locale a quello nazionale e internazionale. Questo ha permesso ai governi di far passare la linea del ‘siamo tutti sulla stessa barca’, abbandonando invece a se stessi piccoli sindacati che lavorano su realtà locali, dove gli effetti dell’ austerità e il fondamentalismo dei mercati hanno avuto l’impatto più immediato. La crescente offensiva a scapito del settore pubblico, che ha preso piede in tutti i paesi, è più facile da giustificare se la resistenza non include il settore privato e tutti coloro che sono sul punto di vedere il loro standard di vita abbassarsi drasticamente a causa dello smantellamento dello stato sociale. Fino a quando i sindacati si concentreranno solo su strategie industriali e rifiuteranno di aiutare movimenti politici a livello nazionale e mondiale che chiedono e propongono un’alternativa al neoliberismo, la crescita e l’occupazione continueranno ad essere le vittime dell’imperativo del profitto e del potere della classe dominante.

 

 


[i] Zdenko Antić, Motorization in Yugoslavia Expanding, Radio Free Europe, OSA, Background Report/35.

[ii] Michael Pailaret, Mismanaging innovation: the Yugo car enterprise (1962-1992), Technovation Volume 13 No 3, p.119.

[iii] Milovan Mracevich, Rising from the Ashes, 29.06.2005. Transition Online: Regional Intelligence, www.tol.org .

[iv] ibidem. Si veda, anche, Michael Pailaret, op. cit. .

[v] Carl-Ulrik Schierup, Migration, Socialism and The International Division of labour. The Yugoslav Experience, Avebury, Aldershot, 1990, pp.192-195.

[vi] Davide Sighele, Il reportage: Pianeta Zastava I, Osservatorio Balcani e Caucaso 22.09.2005, www.balcanicaucaso.org

[vii] Si rimanda a Martin Upchurch, Strategic dilemmas for trade unions in transformation: the experience of Serbia, South-East Europe Review 4/2006, 43-64. See also Carl-Ulrik Schierup, op. cit. pp.196,197.

[viii] Si veda Martin Upchurch, op. Cit.

[ix] Questa è la tipica forma di proprietà del modello Yugoslavo “dell’autogestione”, nel quale la proprietà di stato è teoricamente gestita da libere associazioni di produttori. Al riguardo, si veda Radomir Lukić, Društvena imovina i samoupravljanje, 1964

[x] Si veda l’intervista con Zoran Mihailović (Trade Union leader) pubblicata in Crvena Kritika, www.crvenakritika.org 17.12.2010.

[xi] Ibidem. Si veda, anche, Milovan Mracevich op. cit. .

[xii] A che punto la “Punto”? 4 Settembre 2006 www.balcanicaucaso.org .

[xiii] Dejan Erić/Ivan Stošić/Zvonko Brnjas, Doing Business in Serbia: Case of Strategic Partnership between FIAT and ZASTAVA under circumstances of Global Trends in Automotive Industry, Business opportunity in Serbia. The Case of the Italian Business Sector and the Role of Management Education, Belgrade Banking Academy 2009, pp.165,166. Si veda, anche, Vladimir Tomić, Fiat Automobiles in Serbia. Reviving Automotive Industry http://www.oecd.org/dataoecd/31/20/45560256.pdf .

[xiv] Si rimanda a Aleksandra Mijalković, Miraggio Fiat, 19.12.2008, , www.balcanicaucaso.org .

[xv] Brane Kartalović, Do juče radnici „Zastave“od danas u “Fijatu”, Politika online, 01.02.2010.

[xvi] Si veda Aleksandra Mijalković, Torino ferma Belgrado aspetta, 12.09.2008, www.balcanicaucaso.org .

[xvii] Tamara Spaić, Skandal vlast ne mari za zakon:Vlada cenzurisala ceo ugovor s „Fijatom“, Blic, 03.11.2011 http://www.blic.rs/Vesti/Tema-Dana/287234/Vlada-cenzurisala-ceo-ugovor-s-Fijatom

[xviii] Si rimanda alla nota II.

[xix] Darko Marinković, ‘Strike at Kolubara – a case study’, SEER South East Europe Review for Labour and Social Affairs, issue: 03 / 2003, pg. 41

[xx] Per una storia delle organizzazioni sindacali del periodo comunista, si veda: Sharon Zukin, ‘The Representation of Working-Class Interests in Socialist Society: Yugoslav Labor Unions’, Politics & Society June 1981 10: 281-316

[xxi] Darko Marinković, Štrajkovi i društvena kriza, 1995

[xxii] Dragan Plavšić and Vladimir Unkovski-Korica, Sindikalni pokret u Srbiji danas: Što nam je činiti?, Novi Plamen, no. 9, 2008, pg. 18-19. See also Darko Marinković, ‘Sindikati i političke stranke u tranziciji, Slučaj Srbije’, Politička revija, no. 2, 2009, pp. 39-60

[xxiii] “Masovni bunt u Kragujevcu”, Politika, 23.08.2007

[xxiv] “Osnovan Koordinacioni odbor radničkih protesta u Srbiji” Radiotelevizija Vojvodine, 02.09.2009

[xxv] “Talas štrajkova širom zemlje” B92, 19.01.2010

[xxvi] Jovana Rabrenović, “Srbija razgovara: Štrajk zaposlenih u javnom sektoru”, Politika, 07.02.2011; Posle protesta opet štrajk, Večernje novosti, 25.03.2011

[xxvii] “Prvi Maj – Borba za jedinstvo i prava radnica i radnika”, Solidarnost, 02.05.2011

[xxviii] Per esempio negi anni Ottanta, si veda Palairet, op. cit., pg. 128

[xxix] Alternative di sinistra di cooperazione sindacale  internazionale rimangono allo stadio iniziale. In genere, esse tendono a sovrastimare la coerenza del progetto europeo e sottostimare il ruolo di primo piano che continuano ad avere gli stati  nazionali.Si veda, per esempio, Dan Jakopovich, ‘The Construction of a Trans-European Labour Movement’, Capital and Class, Vol. 35, No. 1, February 2011

[xxx] Si veda David Harvey, A Brief History of Neoliberalism, 2006; and Alex Callinicos, Bonfire of Illusions: The Twin Crises of the Liberal World, 2009.

[xxxi] Andreja Živković, ‘Bankrot Europske Unije, ili: kako izaći iz evrodezintegracije?’, Zarez, no. 302, 03.11.2011

 

*Segnaliamo che per un errore redazionale, l’articolo pubblicato su Inchiesta, n.178, ottobre-dicembre 2012 è sprovvisto di note. Ci scusiamo per il disagio.

Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio internazionale

About Sara Bernard: Sara Bernard è dottoranda in Storia dell’Europa sud-orientale all’Università’ di Ratisbona (Regensburg), in Germania, dove sta lavorando ad una tesi che verte sul ritorno dei gastarbeiter in Jugoslavia negli anni Settanta ed Ottanta. Suoi campi di interesse sono i processi migratori, le identità, le relazioni tra Stato e società con focus geografico sull’area dell’ex Jugoslavia. Tra le sue pubblicazioni: L'immigrazione in Italia: un'indagine sulle politiche emergenziali, in «Storicamente», n. 3, 2007, http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/03bernard.htm; The return of the Yugoslav Gastarbaiters Home: a chronological division, in «Forschungsplattform Südosteuropa», Agosto 2011, www.fpsoe.de; Emigrazione, reti e coscienza di appartenenza: il caso dell’emigrazione serba prima e dopo la dissoluzione della Jugoslavia, in A.D’Alessandri e A.Pitassio (eds.), Dopo la Pioggia. Gli Stati della ex Jugoslavia e l’Albania 1991-2011, Bari, Argo, 2011, pp. 491-506.

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