Rossella Ercolano: Diario di bordo di due mesi di lavoro a Napoli nell’area della formazione
Introduzione
In un mercato del lavoro, quello italiano, afflitto dal 2008 dalla crisi economica, quello che spesso le aziende propongono a diplomati e laureati in cerca di un’occupazione è un cosiddetto “tirocinio formativo”. Come rilevano i principali risultati di un approfondimento tematico effettuato dall’Istat, nell’ambito della “Rilevazione sulle Forze di Lavoro” relativo ai percorsi formativi e ai processi di inserimento lavorativo dei giovani tra i 15 e i 34 anni, nel secondo trimestre 2016 i giovani tra i 15 e i 34 anni sono 12 milioni 681 mila e rappresentano il 21% della popolazione residente in Italia: il 40% dei diplomati e il 60% dei laureati hanno avuto almeno un’esperienza di lavoro durante l’ultimo corso di studio. La maggioranza di queste esperienze è stata parte del corso di studio: il 25,8% dei diplomati e il 36,1% dei laureati hanno effettuato stage, tirocini o apprendistati all’interno del programma di istruzione1.
Anche io, dopo aver conseguito la Laurea Magistrale, mi sono ritrovata a svolgere un tirocinio formativo della durata di sei mesi con possibilità di assunzione, concluso dopo soli due mesi, presso un’azienda che si occupa di formazione manageriale; un tirocinio formativo dietro al quale, in realtà, si celava un vero e proprio rapporto di lavoro. L’idea di scriverne, sotto la forma di un “diario di bordo”, nasce proprio da quest’esperienza, per far conoscere meglio al di fuori ciò che può significare lavorare, in questo periodo storico, in un’azienda che operi nel settore delle risorse umane; ciò senza alcuna pretesa di universalità, ovviamente, ma con l’approccio del ricercatore che fa osservazione partecipante. Durante la mia permanenza lì, caratterizzata dal periodo di formazione prima e dal lavoro vero e proprio, ho documentato sul mio quaderno personale di lavoro quello che osservavo in ufficio: dal comportamento dei miei colleghi a tutto quello che accadeva a livello aziendale (Corbetta 2007, pp. 40-41).
Nel corso di questo report ho descritto le varie tappe della vicenda: da quelle che mi hanno portata ad accettare una simile “offerta lavorativa” alle altre che mi hanno fatto prendere la decisione di concludere il tirocinio formativo prima della scadenza prevista.
1. La chiamata
Ho ventotto anni e dopo aver conseguito la Laurea Magistrale ho iniziato a cercare un lavoro.
Una mattina ho ricevuto una chiamata inaspettata da una mia ex collega di università. Dopo la laurea lei si è iscritta a un corso di formazione manageriale ed è poi stata presa in tirocinio presso l’azienda che eroga questo genere di offerta formativa e che ha diverse sedi in Italia, una delle quali si trova a Napoli. Quando le ho chiesto il perché di quella telefonata mi ha spiegato che dove lavora c’era una posizione aperta per la sede di Napoli e che voleva propormi. Mi ha chiesto di inviarle il mio Curriculum, di recarmi quanto prima in sede centrale per un primo colloquio conoscitivo e che se l’avessi superato mi sarei dovuta trasferire per tre settimane, per la formazione.
2. Il primo colloquio
Il giorno del colloquio sono andata in azienda accompagnata dalla mia stessa amica. Giunte a destinazione mi ha fatta accomodare all’ingresso e mi ha portato del materiale da colloquio da compilare: una scheda dove avrei dovuto inserire i miei dati personali e alcune informazioni relative alla mia famiglia (es. “Che lavoro fa tuo padre?”), un’indagine sulle mie aspettative lavorative e un test della personalità. Terminata la compilazione mi ha portata in uno degli uffici dove mi stava aspettando quella che sarebbe diventata la mia coordinatrice che, come in ogni colloquio che si rispetti, mi ha chiesto di parlarle di me e delle mie esperienze lavorative. Conclusa la mia presentazione mi ha fornito le informazioni relative al lavoro: il ruolo che sarei andata a ricoprire in azienda sarebbe stato quello della product manager; che avrei lavorato dalle 9.00 alle 18.30 dal lunedì al venerdì, il sabato dalle 9.00 alle 13.00, e che avrei percepito un compenso pari a cinquecento euro mensili.
Mi ha spiegato che a Napoli aveva una persona molto valida, ma che doveva sostituire perché non stava raggiungendo gli obiettivi aziendali che gli erano stati assegnati. Dopo il colloquio mi ha chiesto di restare in azienda come “visitatore” per una giornata, ho accettato e sono andata con lei nell’area in cui avrei lavorato per tre settimane; l’azienda eroga diversi corsi e ad ogni corso corrisponde un’area che si occupa degli stessi. Ho conosciuto in quell’occasione due tirocinanti che sarebbero diventate le mie formatrici: una svolgeva il lavoro da responsabile marketing diretto, si occupava di fissare gli appuntamenti per i colloqui in tutte le sedi che hanno in Italia, mentre l’altra era responsabile del placement e si occupava di instaurare e mantenere i rapporti con le aziende. A fine giornata mi ha chiesto se volevo ritornare per le tre settimane di formazione, perché avevo superato il primo colloquio. Io ho acconsentito e così mi sono trasferita. In quel momento mi sono sentita fortunata. Sentivo che mi era stata data un’opportunità, anche se non avevo pagato per fare uno dei corsi che l’azienda eroga. La maggior parte dei ragazzi che ho conosciuto a lavoro, infatti, come la mia stessa amica, hanno seguito un corso e poi sono stati presi in tirocinio.
3. La formazione in sede centrale
Durante la prima settimana mi hanno dato un cartellino da “visitatore”. Il visitatore lavora otto ore al giorno come tutti gli altri dipendenti, perché è in prova, ma non viene pagato. La retribuzione inizia quando e se la persona supera il secondo colloquio con il presidente dell’azienda e viene presa in tirocinio.
Lì ho principalmente svolto un lavoro da responsabile marketing diretto, che poco c’entrava con la mansione che sarei andata successivamente a ricoprire, occupandomi di fissare i colloqui per i corsi che si svolgevano nella sede di Napoli in cui sarei andata, poi, a lavorare. Sono stata valutata in base al numero degli appuntamenti che riuscivo a fissare e a quanti si presentavano effettivamente a sostenere il colloquio. Ho contattato persone che si sono candidate per fare il corso, che spesso pensavano che si trattasse di un colloquio di lavoro e non di un colloquio per un corso di formazione con tirocinio, e ho fissato gli appuntamenti al ragazzo che avrei sostituito.
Lui, mentre io mi stavo formando, ha continuato a lavorare a Napoli e non sapeva che di lì a poco gli avrebbero interrotto il tirocinio dopo soli tre mesi. Il ragazzo in questione aveva frequentato un corso in risorse umane e avrebbe dovuto svolgere sei mesi di tirocinio, come stabilisce il contratto che viene stipulato tra azienda e corsista.
Altre attività relative alla formazione hanno riguardato anche il lavoro che sarei andata a svolgere come product manager. Ho assistito a decine di colloqui, sia quelli fatti in sede sia quelli fatti su Skype quando il candidato era impossibilitato a recarsi in sede e ho lavorato anche con le aziende affiancata dalla responsabile del placement.
In quei giorni ho anche assistito a dei momenti di tensione. In particolare un giorno in cui c’è stata la riunione dei coordinatori di area; riunione che si tiene un giorno a settimana in cui ognuno di essi informa la proprietà sui risultati che sono stati raggiunti dai product manager dislocati nelle diverse sedi. L’area in cui stavo lavorando aveva venduto poco quindi ricordo che la coordinatrice è entrata in ufficio arrabbiata e ha sgridato i product manager di area minacciando di licenziarli. I product manager di area lavorano in sede centrale e si occupano anche di coordinare i product manager che lavorano nelle sedi dislocate sul territorio nazionale, spesso si recano in queste ultime quando c’è un product manager di sede che vende poco, per aiutarlo a incrementare le entrate, per esempio, e per altri motivi. Vengono mandati da Nord a Sud, anche per diversi giorni consecutivi. L’azienda paga il treno e l’albergo, che viene prenotato in zona Stazione Centrale per risparmiare quanto più possibile, i pasti, invece, che di norma vengono pagati quando un lavoratore va in missione per conto dell’azienda, erano a carico degli stessi.
Quello che mi ha lasciata più sconcertata è il fatto che abbia urlato ai tirocinanti che li considera dei professionisti, perché sono dei manager. Li ha accusati di essere distratti e di non essere concentrati sugli obiettivi di vendita che avrebbero dovuto raggiungere lavorando di più.
Il fatto che la coordinatrice fosse quasi sempre così aggressiva e oppressiva nei confronti dei suoi dipendenti, tirocinanti compresi, dipendeva dal fatto che a determinare la sua carriera fossero i risultati raggiunti dai vari product manager che coordina. Prima di partire, proprio per questo motivo, mi ha detto che per quel lavoro “non avrei dovuto dormirci la notte”. Cercava di controllarci costantemente mirando a stimolare il nostro impegno attraverso l’empowerment, ovvero, un modello di controllo che viene utilizzato in molte organizzazioni. Esso consiste nell’appiattire le gerarchie organizzative trasferendo le responsabilità verso il basso. Se da un lato può apparire liberatorio essere responsabilizzati, perché hai apparentemente maggiore possibilità di gestire in autonomia il lavoro che ti viene assegnato, dall’altro, come mettono in rilievo i ricercatori più critici, dietro l’empowerment si cela una forma subdola di controllo che punta ad ottenere performance più elevate dai dipendenti, con un compenso inferiore. Un autore definisce lo stesso una “finzione terapeutica”: c’è un management che “da potere” ai propri lavoratori, ma alle sue condizioni (Fineman 2009, p. 5).
Piuttosto che raccontare della mia esperienza giorno per giorno, mi limiterò a due eventi salienti della formazione: il secondo colloquio, con il presidente dell’azienda, e la formazione con la coordinatrice prima del mio trasferimento.
3.1 Il secondo colloquio con il presidente dell’azienda
Stavo lavorando quando mi si è avvicinata la coordinatrice. Mi ha dato il foglio con il test della personalità che ho compilato quando sono arrivata in azienda e mi ha chiesto di scrivere dietro al foglio dieci righe, perché di lì a poco avrei sostenuto il secondo colloquio con il presidente. Ha precisato che a lui non interessava quello che scrivevo, ma come lo scrivevo. È un appassionato di analisi grafologica e gli piace farla ai suoi dipendenti durante il colloquio decisivo. Quando sono stata accompagnata nel suo ufficio ho notato che stava controllando il materiale da colloquio che avevo compilato il primo giorno.
Mi ha chiesto se mio padre lavora per un’azienda pubblica o una privata, ha letto il mio curriculum e quando ha visto che ho fatto parte di un sindacato studentesco mi ha chiesto a cosa servisse il sindacato in generale. Mi ha raccontato di quando ha fatto un colloquio a un ragazzo laureato in Giurisprudenza che aveva giudicato come un “imbecille”, perché aveva contestato il Jobs Act2.
Ha avuto da ridire anche sulla mia Laurea in Sociologia che ha reputato inutile e quando ha letto sulla mia scheda che il mio ragazzo fa il Dottorato di ricerca lo ha definito uno “stronzo”, perché “… in Italia l’università è morta e l’unica cosa che conta sono le aziende”. Si è vantato perché un’università pubblica gli aveva offerto una docenza, ma che lui “li aveva mandati a quel paese” ribadendo il concetto precedentemente espresso.
A un certo punto la parola è passata alla mia coordinatrice la quale mi ha fatto un’ottima presentazione dicendo che voleva anche chiedermi di restare lì in sede centrale a lavorare. In un primo momento aveva pensato così, ma si è poi resa conto che avrebbe avuto bisogno di me nella sede di Napoli dove avrei potuto raggiungere, secondo lei, degli ottimi risultati.
A quel punto il presidente ha preso il foglio con il mio test della personalità e ha iniziato a fare l’analisi grafologica di quello che avevo scritto. Ha toccato il foglio; ha detto che ho rimarcato molto nello scrivere e che questo poteva anche dipendere dal fatto che avessi fatto sindacato e mi ha definita un soldato, ma di quelli da trincea. Finita anche l’analisi grafologica mi ha dato il benvenuto nella sua azienda e mi spiegato che se durante i sei mesi di tirocinio avessi lavorato bene avrebbero anche potuto assumermi. Quando mi sono resa conto di essere stata presa in tirocinio, considerando che il mio titolo di studio e le mie precedenti esperienze lavorative non gli erano piaciute, mi sono stupita. Prima che andassi via, quando ci siamo stretti la mano per salutarci, mi ha anche chiesto scusa per il suo comportamento. La coordinatrice mi ha poi informata che durante i colloqui lui cerca di mettere alla prova chi ha davanti, è come se recitasse un ruolo.
I contratti vengono stipulati in questo modo: c’è un primo contratto di tirocinio, di sei mesi, a cinquecento euro mensili, il secondo è di collaborazione che ha durata di tre mesi e una retribuzione di settecentocinquanta euro, invece il terzo è quello a tempo indeterminato di millecinquanta euro mensili.
Ho sentito dire che fino a qualche anno fa il contratto a tempo indeterminato veniva pagato tra i milletrecento e i millequattrocento euro al mese.
3.2 La formazione con la mia coordinatrice
La mia partenza era ormai imminente, ma prima ho dovuto fare un paio di giorni di formazione con la mia coordinatrice.
Ha detto che ogni giorno sarei dovuta andare in ufficio indossando il tailleur e ha cercato un po’ di indottrinarmi su come fare i colloqui ai candidati ai corsi. Mi ha consigliato di usare un certo metodo che ha definito “Metodo Ikea”, il metodo del “monta-smonta-e-rimonta”: prima elogio la persona che ho davanti, poi le faccio capire che le mancano le competenze necessarie per trovare lavoro e, infine, le ridò speranza con i corsi. Mi ha chiesto di studiare un libro sulle regole della persuasione e mi ha spiegato che dopo il colloquio il candidato sarebbe dovuto tornare a casa felice e convinto di iscriversi al corso, perché “un genitore fa di tutto per accontentare i propri figli”. Ricordo perfettamente cosa mi ha detto: “se non vendiamo i corsi è perché noi non arriviamo alle persone, perché al giorno d’oggi tutte le famiglie hanno tremila euro e se anche non li avessero potrebbero tranquillamente fare un finanziamento”. Alla fine mi ha consegnato le regole del product manager e all’indomani sono partita per Napoli. Le regole consistono in delle istruzioni di lavoro circa gli obiettivi di vendita, l’attività di sviluppo delle vendite, l’attività di placement e l’attività didattica.
La mia coordinatrice, tre giorni prima della mia partenza per Napoli, ha comunicato all’altro product manager che non si sarebbe più dovuto presentare in ufficio causa interruzione del tirocinio formativo.
Prima di andarmene ho chiesto se era previsto che l’azienda pagasse il biglietto del treno ai dipendenti che andavano a lavorare nelle sedi distaccate, ma mi ha risposto di no. Mi ha spiegato che stavo anche tornando a casa di sabato quindi era come se stessi andando “per i fatti miei”. Se fossi andata a lavorare direttamente in ufficio forse avrei potuto avere il biglietto pagato.
In azienda mi hanno chiesto se mi trovavo bene con loro. Io ho risposto di si, ma che il lavoro vero l’avrei “testato” nella sede di Napoli.
4. Il lavoro nella sede di Napoli
A Napoli sono rimasta a lavorare per circa due mesi; anche in questo caso cercherò di limitarmi a raccontare gli eventi più importanti. Nel corso del testo indicherò i miei ex colleghi con nomi fittizi.
Sono arrivata in sede un lunedì mattina. Arrivato Christian, con cui la mia amica mi aveva messo in contatto, siamo andati in ufficio dove ho conosciuto il resto dei miei nuovi colleghi.
C’era un malcontento generale dovuto al fatto che uno di loro era stato sostituito di punto in bianco, senza alcun preavviso. Mi hanno chiesto di lui, anche perché sapevano che sarebbe stato reintegrato in un altro settore, cosa che non è mai avvenuta. Se, da un lato, erano dispiaciuti perché sapevano che quel ragazzo aveva bisogno di lavorare e con la perdita di quel lavoro sarebbe andato a gravare sulla propria famiglia, dall’altro lato erano timorosi di poter ricevere lo stesso “trattamento”; come si vedrà nel corso della ricerca, la stessa sorte sarebbe toccata a Christian poco dopo.
I miei colleghi erano precari, pur lavorando lì da diversi mesi, probabilmente Martina lavorava per l’azienda già da un anno, e i loro contratti variavano dal tirocinio a quello di collaborazione. Solo Giulia, la coordinatrice della sede di Napoli, aveva un contratto a tempo indeterminato.
La precarietà, così come i lavori flessibili in generale, comporta ingenti costi personali e sociali a carico dell’individuo, della famiglia e della comunità. L’essere inserito in una sequenza di contratti a termine, che durano soltanto pochi mesi di lavoro, a lungo andare, è percepito dal lavoratore come una fonte immeritata di ansia. Non si ha mai la certezza di riuscire a stipulare un nuovo contratto prima della fine di quello in corso, come avvenuto al ragazzo in questione, o al termine dello stesso. L’insicurezza delle condizioni di lavoro diventa insicurezza delle condizioni di vita, in quanto il reddito e il lavoro stesso sono revocabili da chi lo ha concesso, il datore di lavoro o l’impresa, e in qualunque momento (Gallino 2009, pp. 75-76).
Mi hanno mostrato la sede che era nuova e ristrutturata da poco, perché da una zona più periferica di Napoli si era deciso di trasferirla in centro. Durante il primo colloquio la coordinatrice mi ha parlato degli investimenti che l’azienda aveva deciso di fare, uno di questi riguardava proprio la sede di Napoli. Parlando con i ragazzi è emerso che ad alcuni lavori di ristrutturazione hanno provveduto autonomamente anticipando i soldi di tasca propria e che dopo quasi due mesi ancora non avevano ricevuto alcun rimborso. A fine giornata mi hanno prestato le chiavi dell’ufficio e sono andata a farne una copia.
Ma i giorni passavano e quello che vedevo mi convinceva sempre meno.
Il lavoro era tantissimo perché, da solo, un product manager è responsabile di più compiti da svolgere contemporaneamente tra i quali rientrano anche quelli che possono definirsi di segretariato. Basti pensare che in sede non c’era nemmeno un addetto al front office che si occupasse di accogliere i candidati ai corsi.
Dopo un po’ di tempo mi sono resa conto che sempre più corsisti si lamentavano del fatto di non essere stati inseriti in tirocinio, come gli era stato garantito durante il colloquio conoscitivo, nonostante i corsi che avevano frequentato fossero ormai terminati da mesi; era il contratto stesso a prevedere in una clausola l’inserimento rapido in un tirocinio. Al possibile corsista non veniva spiegato chiaramente che terminato il corso avrebbe affrontato delle vere e proprie selezioni per accedere al tirocinio, ma gli veniva detto che già c’erano delle aziende partner pronte ad accoglierlo.
L’azienda in questione puntava sul far credere alle persone di poter migliorare il proprio futuro e la propria vita professionale attraverso il tirocinio che avrebbero svolto, magari anche presso aziende di un certo spessore, in seguito alla formazione. Ed è proprio la speranza di un futuro migliore a rendere alle aziende di questo tipo, che si occupano di “formazione”, denaro immediato. La promessa produce consensi tanto da poter configurare una vera e propria “economia politica della promessa”. Sempre più giovani laureati e qualificati accettano lavori sottopagati, o addirittura gratuiti, pur di inserire nel curriculum vitae esperienze da spendere sul mercato del lavoro; la promessa stessa è il salario del lavoro gratuito o semigratuito3.
Così come non gli veniva detto che dopo un certo numero di rifiuti da parte del corsista a presentarsi ad un colloquio, che il product manager fissa con un’azienda, non ricordo di preciso se dopo due o tre rifiuti, quest’ultimo viene addirittura escluso dal servizio di placement.
Quando sono arrivata anche io mi sono ritrovata con dei corsisti da inserire in tirocinio: in circa due mesi ho stipulato due o tre convenzioni con le aziende e i miei corsisti hanno sostenuto tanti colloqui, ma non sono stati selezionati perché non avevano la formazione adatta che gli permettesse di svolgere un tirocinio formativo presso un’azienda. Riporto l’esempio pratico di uno di loro che ha sostenuto un colloquio conoscitivo, come grafico, presso un’agenzia di comunicazione. Ricontattato l’imprenditore, per ricevere un feedback in merito, mi ha detto che se avesse saputo che la risorsa che gli era stata proposta aveva studiato grafica soltanto durante un modulo del corso con durata di un solo fine settimana avrebbe rifiutato di incontrarlo. Sosteneva, infatti, che per imparare a fare il grafico fosse necessario almeno un corso di un anno. Durante la riunione della mia area ho raccontato quanto accaduto, ma la mia coordinatrice non ha dato peso alla cosa dicendomi che i nostri corsi non formano grafici. Non posso, però, fare a meno di sottolineare che nel titolo del corso compare la dicitura “Graphic Design” e tra i profili in uscita c’è anche quello del grafico.
Ho capito che problemi di questo tipo, che noi product manager ci ritrovavamo a dover affrontare quotidianamente, a loro in sede centrale non interessavano. Ti dicevano di essere entrato a far parte di una “grande famiglia”, ma la verità è che ognuno lavorava per sé e non si collaborava. Se provavi a far emergere quello che non funzionava, per far sì che venisse corretto, venivi isolato e percepito come elemento di disturbo. Raccontarsi come “azienda leader”, in Italia, nell’ambito della formazione manageriale e sostenere di non avere concorrenti, produce questi comportamenti, coerenti con il proprio “storytelling”.
Un problema quotidiano in ufficio riguardava il funzionamento dei telefoni fissi che avevamo a disposizione, per contattare aziende e corsisti. Il problema persisteva ormai da due mesi, da prima che arrivassi io. Alla fine Marcella ha preso un telefono che si trovava in una delle aule e che funzionava; da allora ci siamo arrangiati con quello. Io ho sempre rifiutato di dare il mio numero personale ai corsisti: ho comunicato con loro tramite l’email aziendale e non ho usato il mio telefono personale nemmeno per chiamare le aziende. Mi sono spesso lamentata dei telefoni non funzionanti, anzi mi sono lamentata ogni volta che non funzionavano. Un giorno durante le mie lamentele Martina si è infastidita e mi ha fatto presente che stavo “parlando anche fin troppo per i suoi gusti” e che lei aveva lavorato spendendo i propri soldi quando i telefoni non funzionavano. Giulia mi ha spiegato che avrei potuto lavorare anche io con il mio telefono quantomeno per chiamare le aziende; capiva la mia titubanza nel dare il mio numero personale ai corsisti, però non c’era nulla di male che le aziende avessero il mio numero. Mi ha fatto capire che se volevo lavorare lì era così. L’impressione che ho avuto è che loro non fossero soddisfatti di quel lavoro, ma pur di tenerselo erano disposti a non pretendere il rispetto dei diritti di lavoro basilari. Mi è addirittura sembrato che fossero “assuefatti” a esso, era come se non ci fosse una distinzione tra lavoro e vita privata. Fornire il proprio numero personale ad aziende e corsisti fa sì, infatti, che quest’ultimi abbiano la possibilità di mettersi in contatto con il product manager in qualunque momento della giornata. Come si è visto sono stata “richiamata all’ordine”, non mi ero resa conto di essere, di fatto, una “deviante” rispetto al gruppo. Intendo “deviante” in relazione a quelle che sono le norme di gruppo e alla loro funzione. Con le norme possiamo definire le aspettative condivise rispetto a come dovrebbero comportarsi i membri del gruppo. La trasgressione di tali norme implica delle sanzioni per coloro che non le condividono e che deviano (Palmonari, Cavazza, Rubini 2006, p. 210).
Ho dovuto, inoltre, chiedere più volte che mi venisse inviato tramite email il contratto che avevo letto e firmato in sede centrale, ma che avevo lasciato lì perché bisognava apportarvi alcune modifiche in quanto in alcuni punti non era corretto. Sono riuscita a ottenerlo soltanto quando gli ho fatto notare che era un mio diritto.
Poco dopo il mio arrivo a Napoli su quel gruppo si è abbattuto un altro evento come “un fulmine a ciel sereno”. A Christian è stato interrotto il tirocinio. In merito a questo passaggio, però, devo spiegarmi meglio. Il suo coordinatore gli ha detto che l’azienda non poteva fargli un altro contratto di tirocinio, dopo sei mesi, e gli ha quindi proposto di andare a lavorare in sede centrale. Per quel che ricordo la paga sarebbe dovuta ammontare a seicento euro al mese qualora avesse accettato. Christian ci ha pensato un po’, poiché quella paga non gli avrebbe permesso di vivere da solo e in un’altra città. Ricordo che all’inizio ha rifiutato proprio per questo motivo, poi quando ha deciso di accettare l’azienda non era più disponibile. Lì mi sono resa conto che nel gruppo qualcosa si stava muovendo, perché per la prima volta ho visto che i ragazzi si sono preoccupati. Nel giro di un mese, probabilmente anche meno, sono stati mandati via due colleghi senza preavviso e senza che venissero reintegrati successivamente. Si sono accorti che forse quel lavoro non gli avrebbe dato le garanzie nelle quali confidavano.
Andato via Christian è subito arrivato il sostituto che chiameremo con il nome di Gianfranco. La prima volta che Gianfranco è venuto in sede è stato accompagnato dalla sua product manager di area. Dopo quella giornata è ritornato in sede centrale e, poi, si è definitivamente stabilito a Napoli. I primi giorni è venuto in ufficio anche un sabato, io probabilmente sono andata a lavoro perché dovevo fare un colloquio o ero semplicemente andata a fare compagnia a Marcella. Gli ho chiesto come mai fosse venuto nonostante non avesse colloqui da fare o corsisti da seguire, mi ha risposto che era venuto a lavorare “per il rispetto del contratto che ha firmato”; si stava riferendo al suo contratto di tirocinio, lo stesso che ho avuto anche io.
Le mie giornate da product manager sono trascorse tra colloqui, telefonate alle aziende e le riunioni settimanali con la coordinatrice della sede centrale e altri product manager. Durante le riunioni la coordinatrice ci ha sempre informato di come stessero procedendo le vendite, nelle varie sedi, relative alla nostra area. Ogni volta ci ha ricordato che eravamo product manager e quindi dovevamo darci da fare e recuperare gli obiettivi di vendita qualora la settimana precedente fossimo stati carenti. Spesso ci ha definito “mosci”.
Le pressioni che subivamo erano tante.
Per quanto mi riguarda le vendite dei miei corsi non sono andate bene. Stavo ormai lavorando da un mese a Napoli quando mi hanno chiesto, dalla sede centrale, ancora di vedere come facevo i colloqui conoscitivi. C’era qualcosa che non li convinceva; secondo loro non ero abbastanza incisiva nel momento della vendita. Mi hanno proposto di farli affiancata dalla mia product manager di area collegata su Skype e anche quando ho dovuto richiamare i corsisti per chiedergli se si sarebbero iscritti ai corsi ho impostato il telefono in modalità vivavoce, per fare in modo che loro sentissero quello che dicevo. Ogni volta che un ragazzo mi diceva che il corso costava troppo e non poteva permetterselo, per esempio, mi dicevano che non avevo insistito abbastanza.
A questo punto della ricerca è necessario sottolineare il ruolo che hanno le emozioni all’interno delle organizzazioni. Esse sono così influenti nei processi decisionali e per il raggiungimento del successo organizzativo che i leader aziendali cercano sempre di controllare ed influenzare le emozioni dei propri dipendenti. Questa scoperta ha dato inizio a progetti di ricerca sul lavoro emotivo; una forma di gestione in cui gli individui si impegnano quando, per soddisfare le esigenze del proprio lavoro, modificano le emozioni effettive o esibite. La maggior parte delle ricerche si focalizzano sul lavoro emotivo che avviene per effetto del controllo manageriale quando i manager, per esempio, come nel mio caso, controllano le performance dei lavoratori per stabilire se questi ultimi esibiscono le emozioni prescritte e mostrano quelle desiderate nei confronti dei clienti. Si prenda in considerazione il concetto di lavoro emotivo sviluppato da Hochschild che si concentra sul controllo manageriale delle emozioni dei dipendenti. Secondo l’autrice, in cambio di una ricompensa, i dipendenti asservivano il controllo sulle proprie emozioni agli ordini dei datori di lavoro o delle politiche aziendali (Fineman 2009, pp. 83-85). La mia coordinatrice, infatti, durante il mio primo colloquio conoscitivo mi aveva parlato di “premi” in termini economici, anche molto alti, qualora avessi raggiunto gli obiettivi di vendita assegnatimi. Ad associarsi al lavoro emotivo è un controllo manageriale manifesto in cui i manager monitorano i lavoratori osservando, per esempio, i dipendenti mentre svolgono il proprio lavoro. Questi ultimi a volte, attraverso la presenza del capo o telecamere visibili, sanno di essere monitorati; sarebbe stato così anche per me. Il controllo manageriale incoraggia l’esibizione delle emozioni prescritta, ma allo stesso tempo i manager possono dare l’impressione di non fidarsi dei dipendenti che potrebbero resistere o ignorare le prescrizioni del management. Io, alla loro richiesta, ho sentito violata la mia privacy e ho chiesto che ad affiancarmi durante i colloqui ci fosse Giulia e non qualcuno che facesse parte direttamente della mia area (ivi, pp. 86-87).
Per tutto il tempo della mia permanenza lì ho fatto un report giornaliero delle attività che svolgevo. Ho deciso di farlo da quando la coordinatrice, a sorpresa, ci ha chiesto di inviarle un report personale con le attività che avevamo svolto in un tot periodo di tempo. Il report glielo aveva chiesto il responsabile marketing, per controllare il lavoro che effettivamente svolgevamo. È successo dopo un paio di settimane dal mio trasferimento, così ho deciso di registrare tutto il lavoro che svolgevo per essere pronta in ogni momento e per non omettere nulla. Mi è stato molto utile come mezzo.
Un giorno abbiamo ricevuto un’email con cui ci informavano che ci saremmo dovuti recare in sede centrale per una formazione obbligatoria, di organizzarci autonomamente con le nostre auto e che ci sarebbe stato dato il rimborso per le spese di viaggio sul prossimo stipendio. In ufficio eravamo in sei e in un’auto sola non ci saremmo andati tutti, solo uno di noi era automunito. Ho provato a chiamare la coordinatrice di sede centrale per dirle che qualora non ci fosse stato il posto in auto per me o l’azienda mi avrebbe pagato il biglietto del treno o io non ci sarei andata, ma non mi ha risposto. A fine giornata mi ha ricontattata lei dicendomi che sapeva cosa volessi e di stare tranquilla in quanto mi avrebbe preso i biglietti del treno e di non dire nulla ai miei colleghi. Il giorno dopo le ho inviato su Whatsapp gli orari dei treni che avrei potuto prendere, ma a quel punto ha iniziato a tirarsi indietro. Annoiata dal suo atteggiamento ho parlato con Giulia che a sua volta l’ha richiamata per spiegarle che i posti in auto non erano sufficienti e che se non avesse provveduto l’azienda a prendermi i biglietti del treno io non sarei andata a fare la formazione. La mia coordinatrice di sede le ha risposto che era per formazione, che restava a me, e quindi sarei potuta andarci a spese mie. Secondo lei avrei anche potuto trovare un passaggio con BlaBlaCar, per risparmiare. Era evidente che non aveva intenzione di rispettare quanto precedentemente pattuito con me. Giulia le ha risposto che quella è un tipo di formazione che potevo spendermi soltanto in quell’azienda e non altrove e che non ero intenzionata a spendere un euro. Alla fine è stato deciso che Giulia sarebbe rimasta a Napoli, così noi altri ci saremmo potuti organizzare con un’auto che era quella di Umberto il quale ha anche anticipato le spese di viaggio.
Parlando con i colleghi è emerso che per recarsi alla convention nazionale dell’azienda, che viene organizzata a fine anno, avevano pagato le spese di viaggio di tasca propria, senza ricevere alcun rimborso.
Il giorno prima della giornata di formazione, dopo il lavoro, siamo partiti. L’azienda ha rimborsato le spese di viaggio, mentre per dormire siamo stati ospitati dagli amici che avevamo lì.
La formazione ce l’ha fatta il “responsabile marketing”. All’inizio è stato proiettato un video con una storia inventata su un’aquila e dei polli, con una domanda finale: “Tu vuoi essere aquila o pollo?”. Pensavo che si trattasse di una formazione pratica, per esempio su come usare il gestionale aziende, invece abbiamo passato la giornata ad ascoltare il responsabile marketing che ha parlato di comunicazione e di tecniche di persuasione. La formazione era finalizzata a stimolarci per incrementare le nostre vendite e ad inculcarci quanto fosse necessario far capire ai nostri possibili corsisti che seguire un loro corso era indispensabile per trovare lavoro, mentre andare all’Università è inutile e troppo costoso.
Poiché il controllo manageriale può causare dei problemi, di cui ho precedentemente parlato, le organizzazioni usano anche altri tipi di controllo; uno di questi è il controllo culturale che fa sì che i lavoratori allineino i propri sentimenti ai valori e alle credenze dell’azienda. Con esso le organizzazioni controllano i dipendenti inculcando in loro, appunto, un senso di orgoglio e identificazione. Basti pensare che Gianfranco, per esempio, mi ha detto di essere venuto a lavorare un sabato mattina “per il rispetto del contratto che ha firmato”. Erano riusciti, con lui, al momento dell’assunzione, a far sì che condividesse i loro ideali. Con il controllo culturale le aziende abituano i dipendenti ad esprimere determinate emozioni e se i lavoratori si identificano in quella cultura aziendale i manager si aspettano che sia quest’ultima a fargli fare le “scelte giuste” sugli atteggiamenti emotivi da esibire. Un esempio di controllo culturale è lo studio di Van Maanen e Kunda sul lavoro emotivo a Disneyland. Le sessioni di addestramento dei nuovi assunti, e molti di noi effettivamente lo erano, erano piene di esortazioni, filmati, racconti che miravano a incoraggiare i lavoratori ad allineare le loro emozioni con i valori dell’azienda. Anche questo tipo di controllo può, tuttavia, incidere sui dipendenti con modalità negative. C’è chi si allinea a quei valori, ma c’è anche chi può rifiutare gli ideali culturali dell’azienda resistendo attivamente alle regole vigenti in tema di lavoro emotivo. Io, per esempio, mi sentivo insoddisfatta della loro cultura aziendale e trovavo ingiusto il fatto di dover dire, in sede di colloquio, che l’Università non serve a nulla e infatti non l’ho mai fatto (ibidem).
Quello che ho notato è che quando le vendite non andavano bene, la causa veniva indicata nell’incapacità dei venditori, ovvero nel fallimento personale.
Finita la formazione siamo dovuti tornare a Napoli in serata, perché il giorno dopo dovevamo lavorare. Siamo tornati quasi a mezzanotte.
Dopo pochi giorni Marcella ha trovato un altro lavoro e ha deciso di licenziarsi. Era la prima ad arrivare e l’ultima ad andare via, spesso era rimasta in ufficio anche fino alle otto di sera. Un giorno sono rimasta a farle compagnia, perché dalla sede centrale le hanno comunicato che un corsista poteva sostenere il test di fine corso dopo il nostro orario di lavoro. Ore di lavoro in più non pagate.
Andata via Marcella, prima che riuscissero a trovare qualcuno che la sostituisse, sono stati mandati dalla sede centrale i product manager di area per fare da tutor durante i corsi. All’inizio, tuttavia, hanno cercato di trascinarci in quello che era un loro problema: un venerdì, per esempio, siamo stati chiamati a turno dai nostri coordinatori o product manager di area i quali ci hanno chiesto di fare “un favore” ai loro colleghi restando, di sabato, in ufficio fino alle due del pomeriggio. Dopo un paio di settimane hanno finalmente provveduto a mandare, dalla sede centrale, qualcuno che facesse da tutor durante i corsi.
5. Quando ho deciso di andare via
Dopo circa due mesi di lavoro a Napoli ho deciso anche io di lasciare. Lo detestavo ed ero quasi sempre di cattivo umore. Sentivo di non poter crescere in quell’azienda.
Ogni volta che un ragazzo è venuto a sostenere un colloquio conoscitivo ha dovuto perdere tempo nella compilazione di tutto materiale da colloquio perché in teoria la selezione doveva essere di qualità, ma in realtà non era così. In sede di colloquio ci facevano dire che quel materiale sarebbe stato esaminato da una commissione in sede centrale, per stabilire se il candidato fosse idoneo o meno a partecipare al corso anche in vista del tirocinio. Tutto questo non era vero. Quando un product manager deve formare la classe che gli permetterà di far iniziare il corso, per far si che lo stesso non venga annullato a causa di carenza di iscritti e per raggiungere il budget che gli è stato assegnato dall’azienda, iscrive chiunque; non gli è concesso porsi il problema del se la persona che ha davanti possiede le competenze che gli permetteranno di trovare il tirocinio una volta terminato il corso. Quasi tutte le persone prese come tirocinanti all’interno dell’azienda stessa erano, ovviamente, ex corsisti; durante il tirocinio scoprivano, dunque, di essere stati ingannati, poiché ora loro stessi erano spinti a convincere ad iscriversi ai corsi, anche con promesse irrealizzabili di futuri ingaggi, le persone necessarie a conseguire un guadagno per l’azienda. In merito a quanto appena descritto ricordo quando un product manager di area è venuto a Napoli. Parlando della product manager di un’altra sede ha affermato che lei promette ai candidati il tirocinio con una delle squadre di calcio più famose della Serie A, che è sbagliato perché non è vero, ma che non le si poteva dire niente perché iscrive molte persone.
Quindici giorni prima di andarmene ho avvisato la coordinatrice della sede centrale che avevo intenzione di interrompere il mio tirocinio. Quando ho comunicato la mia decisione ai miei colleghi loro mi hanno risposto che stavo sbagliando, perché almeno un anno di esperienza lì poteva aprirmi molte porte nel mercato del lavoro, che non avrei combinato più nulla una volta uscita da quell’ufficio. Loro, in fondo, sapevano perché me ne andavo. Ho cercato di fargli capire che a lavorare lì, per così pochi soldi e così tante ore, si fa “beneficenza” all’azienda; alla mia affermazione tutti si sono girati a guardarmi e all’unisono hanno esclamato che mi pagano quindi come faccio io a fare beneficenza all’azienda se mi paga? Questo vuol dire che non hanno consapevolezza della loro condizione da lavoratori sfruttati e sottopagati.
Qualche tempo prima, inoltre, quando ho ricevuto le email con gli orari dei corsi e ho constatato che per uno o due sabati sarei dovuta restare in ufficio fino alle 18.00, cosa che non era prevista nel contratto di tirocinio, ho chiesto ai miei colleghi se fosse normale e loro mi hanno risposto di si, che l’avevano fatto diverse volte e che avrei dovuto farlo anche io.
Durante i miei ultimi quindici giorni di lavoro è venuto uno dei product manager della sede centrale. Quando ha saputo che di lì a poco sarei andata via ha esclamato: “No, anche tu vai via? Stanno andando via tutti!”.
Durante gli ultimi giorni di lavoro mi ha chiamata la responsabile del placement per avvisarmi che il mio tirocinio sarebbe stato interrotto tre giorni prima della fine del mese, perché non potevano avere in tirocinio due persone nella stessa area. Qualcosa non mi quadrava; infatti quando ho chiesto se avrei perso dei soldi lei mi ha risposto che mi sarebbero stati detratti cinquanta euro dall’ultimo rimborso spese che avrei ricevuto.
Conclusioni
Il neoliberismo sfrenato e l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori4 hanno fatto si che imprenditori senza scrupoli, com’è avvenuto nel mio caso, possano usufruire di manodopera qualificata a basso costo o, addirittura, a costo zero. Se da un lato, in un simile contesto di precarietà lavorativa, le politiche del lavoro non aiutano, dall’altro, ad aggravare la situazione ci si è messo anche il processo di smantellamento della scuola e dell’università pubblica; il sindacato studentesco Unione degli Universitari (Udu) ha pubblicato, a novembre, l’inchiesta sulle tasse universitarie 2017 dal titolo Dieci anni sulle nostre spalle. Nel dossier pubblicato dall’Udu è possibile leggere che negli ultimi dieci anni la tassazione media in Italia è aumentata di 437,58 euro (+ 61,10%)5; ciò significa che sono stati gli studenti e le loro famiglie a pagare per i tagli che sono stati fatti all’istruzione pubblica nel periodo di tempo considerato.
Perché ho deciso di aprire questa breve parentesi? Durante il lavoro che ho svolto a Napoli, seppur per breve tempo, e i “colloqui conoscitivi” che ho condotto ho capito che molti ragazzi si rivolgono ad enti di formazione di questo tipo, perché cercano una “scorciatoia”. Ritengono che studiare sia faticoso e costoso e nella maggior parte dei casi inutile; la tendenza è quella di cercare un percorso più breve fatto di corso e tirocinio che, secondo loro, gli permette di avere un contatto diretto con il mercato del lavoro e gli consente di inserirsi più facilmente in esso. Se lo Stato finanziasse il diritto allo studio e se le politiche del lavoro tutelassero i lavoratori o chi sta per approcciarsi con il mercato del lavoro, probabilmente, i ragazzi non sentirebbero la necessità di rivolgersi a soggetti come quello descritto nella ricerca.
Bibliografia
Bascetta M., L’economia politica della promessa, https://ilmanifesto.it/leconomia-politica-della-promessa/, consultato il 2 febbraio 2018
Corbetta P. (2007), La ricerca sociale: metodologia e tecniche. III. Le tecniche qualitative, Bologna, Il Mulino.
Fineman (a cura di) (2009), Le Emozioni Nell’Organizzazione. Il potere delle passioni nei contesti organizzativi, Milano, Raffaello Cortina Editore
Gallino L., (2009), Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Bari, Laterza
Palmonari A., Cavazza N., Rubini M. (2006), Psicologia Sociale, Bologna, Il Mulino.
ISTAT, 2017, I giovani nel mercato del lavoro, www.istat.it
http://www.unionedegliuniversitari.it/dossier-tasse-2017-universita-aperta/
http://www.unionedegliuniversitari.it/wp-content/uploads/2017/11/inchiesta-tassazione_pidieffe.pdf
https://www.wikilabour.it/tutele_crescenti.ashx
https://www.studiocataldi.it/guide_legali/rapporto_di_lavoro/articolo-18.asp
Note
1 https://www.istat.it/it/archivio/205078
2Il 7 marzo 2015 è entrato in vigore il Decreto legislativo n. 23/2015, attuativo del cosiddetto Jobs Act (Legge n. 183 del 2014), riguardante il “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”. il decreto non introduce una nuova tipologia contrattuale, bensì un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato a sostituire la disciplina prevista dall’art. 18 della Legge n. 300 del 1970 (cosiddetto Statuto dei Lavoratori); detto regime non avrà valenza generale, ma verrà applicato ai soli lavoratori che verranno assunti a tempo indeterminato, come operai, impiegati e quadri, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 aprile 2015). Rispetto alle tutele offerte dall’art. 18, peraltro già fortemente depotenziate dalla riforma del 2012 (cosiddetta Legge Fornero), la nuova disciplina restringe ulteriormente le ipotesi di reintegrazione del lavoratore, individuando nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo. L’espressione “tutele crescenti” fa in particolare riferimento alle modalità di calcolo di detta indennità, il cui ammontare è parametrato all’anzianità di servizio maturata dal dipendente al momento del licenziamento. Il decreto si occupa anche dei dipendenti dei datori di lavoro che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18, introducendo un sistema di tutele che, rispetto a quello applicato ai lavoratori delle imprese di maggiori dimensioni, esclude la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e prevede un’indennità risarcitoria dimezzata.
Tra le novità introdotte dal decreto c’è anche una nuova procedura conciliativa, che ha l’obiettivo di rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, e che prevede l’immediato pagamento, da parte del datore di lavoro, di un indennizzo in una misura compresa tra 2 e 18 mensilità. Per favorire questo tipo di soluzione, il legislatore ha peraltro previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Ancora sotto il profilo procedurale, il decreto stabilisce che ai nuovi assunti non si applica la preventiva procedura di conciliazione davanti alla Direzione territoriale del lavoro, introdotta dalla riforma del 2012 per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Infine, il decreto prevede altresì che ai licenziamenti intimati nel nuovo regime non si applica il cosiddetto rito Fornero, introdotto anch’esso dalla Legge 92 del 2012, che tanti problemi interpretativi e pratici ha posto e pone tuttora ai giudici e alle parti (cfr: https://www.wikilabour.it/tutele_crescenti.ashx).
3https://ilmanifesto.it/leconomia-politica-della-promessa/
4Il nostro ordinamento prevede da diversi anni delle tutele forti contro i licenziamenti illegittimi. Storicamente, la più importante di queste tutele è quella racchiusa nell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, dopo essere stato riformato in maniera imponente dalla Legge Fornero numero 92/2012, ha oggi intrapreso la strada del “pensionamento” a seguito dell’introduzione del contratto a tutele crescenti ad opera del cosiddetto Jobs Act. Oggi le tutele previste dall’articolo 18 della legge numero 300/1970 si applicano soltanto ai rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015 se sussistono i requisiti dimensionali previsti dalla legge. Per tutti gli altri rapporti si applica, invece, la disciplina del contratto a tutele crescenti contenuta nel decreto legislativo numero 23/2015. A tal proposito occorre precisare che la disciplina del contratto a tutele crescenti si applica anche ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 quando, in conseguenza di nuove assunzioni, il datore di lavoro raggiunga le soglie dimensionali previste dall’articolo 18 (ovverosia l’unità produttiva arrivi a contare più di 15 lavoratori, o più di 5 in caso di impresa agricola, o i dipendenti totali diventino più di 60) dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 23. Il contratto a tutele crescenti si applica anche ai casi di conversione in contratto a tempo indeterminato, a partire dal 7 marzo 2015, di un rapporto a tempo determinato o di un contratto di apprendistato instaurati prima di tale data
(cfr: https://www.studiocataldi.it/guide_legali/rapporto_di_lavoro/articolo-18.asp).
5http://www.unionedegliuniversitari.it/wp-content/uploads/2017/11/inchiesta-tassazione_pidieffe.pdf
Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio Sud Italia