Roland Erne: La dimensione democratica e tecnocratica del sindacato

| 5 Aprile 2013 | Comments (0)

 

 

 


4. Pubblichiamo integralmente gli atti del seminario C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro? organizzato dalla Fondazione Claudio Sabattini e tenuto a Roma il 5 aprile 2013. La numerazione degli interventi corrisponde all’ordine in cui sono stati fatti.

 

Vi ringrazio dell’invito, la mia origine è di Zurigo, in Svizzera, ho fatto il sindacalista dell’edilizia Selenia per qualche anno e dopo ho lasciato il Sindacato per studiare. Ho studiato Scienze Politiche e relazioni industriali in Germania, in Francia e in Italia, a Firenze, al momento sono da 10 anni a Dublino e vado a fare una presentazione oggi sul caso analitico che ho sviluppato in un libro sul sindacalismo europeo, ma parlo in inglese, dopo potete fare anche delle domande e spero di rispondere direttamente in italiano.

Per essere, comunque, più chiaro e forse anche più concreto ho deciso di parlare in inglese e abbiamo qui la mia collega che tradurrà questi argomenti. Quello che farò oggi è partire da una cornice analitica che ho sviluppato in un libro pubblicato nel 2008, subito prima dello scoppio della crisi, e che va ad analizzare le diverse tipologie di azione sindacale, quindi l’intenzione oggi è quella di rivedere questa cornice analitica e discutere l’azione sindacale ad oggi, alla luce – appunto – di questa analisi che avevo condotto già nel 2008.

La cornice analitica, la griglia non è pensata per mettere i Sindacati in una casella piuttosto che in un’altra, quindi il Sindacato tedesco lo mettiamo in questa casella e quello italiano in quest’altra, perché in realtà quello che ho verificato sul campo è che i Sindacati in tutti i Paesi fanno i conti con problematiche analoghe, seppure i livelli di tensione possono essere diversi, quindi la funzione di questa mia griglia è più che altro quella di andare ad evidenziare i dilemmi con cui i Sindacati fanno i conti all’oggi.

Nel farlo sono partito da due dimensioni, innanzitutto specifico che non mi interessa andare ad analizzare i Sindacati semplicemente dal punto di vista delle relazioni industriali, ma dentro una dimensione più ampia che è anche politica, sociale ed economica.

Da questo punto di vista si parte, generalmente, dall’individuazione solitamente di due dimensioni, quella nazionale e quella europea, per cui la distinzione classica è quella del focus nazionale o del focus trasnazionale ed europeo nell’andare ad esaminare l’azione, in realtà questa divisone classica non è più sufficiente ed io ho aggiunto altre due dimensioni che definisco come la dimensione tecnocratica e quella democratica.

Che cosa intendo dire con questo? Ovviamente qualunque Sindacato si definisce democratico, così come in Europa non c’è nessuno che non sia pronto a definirsi democratico; quello che io intendo per orientamento democratico alla politica un approccio in base al quale si parte dal presupposto che ci sono alternative differenti e che si possono fare scelte differenti.

Per orientamento tecnocratico intendo quell’approccio che afferma che, in realtà, di dimensione possibile ce n’è una sola, di scelta se ne può fare solo una, quindi c’è soltanto un’agenda da seguire che nel caso specifico è quella della promozione di una maggiore concorrenzialità.

Andando a guardare, appunto, queste strategie tipiche, anche per semplificazione, vorrei fare alcune considerazioni sulla situazione precedente al 2008, per poi andare a discutere anche l’atteggiamento e l’approccio dei Sindacati nel contesto della crisi.

Nel farlo parto, appunto, dalla definizione di quello che io chiamo l’orientamento democratico nazionale, con questo intendo quei Sindacati che tipicamente lavorano per ristabilire una autonomia del sistema politico nazionale, ma anche di quello economico e, tipicamente, si tratta di quelle forze che tendono a rifiutare il processo di integrazione europea, si tratta in realtà di una casistica più limitata ma, se l’andiamo a guardare, tendenzialmente le organizzazioni che seguono questo approccio appartengono a Paesi che hanno delle particolarità.

Prendiamo l’esempio della Norvegia, questo è un Paese che dispone di risorse nazionali come il petrolio, il pesce, queste possono essere risorse che possono far pensare ad un Paese in cui c’è una prospettiva di indipendenza, quindi il rifiuto tradizionale scandinavo del processo di integrazione europea si riesce a risolvere anche in chiave socialdemocratica, perché si tratta di Paesi che dispongono di risorse che permettono questo.

In tempi più recenti, però, vediamo una tendenza a seguire l’approccio democratico nazionale anche da parte di altri Paesi, prendiamo l’esempio della Grecia che ha un po’ la tendenza a dire: “Visto quanto sta accadendo, torniamo alla situazione precedente all’euro, usciamo dall’Unione o dall’euro”. Il problema che si pone è che dire oggi “usciamo dall’Unione o usciamo dall’euro” non significa uscire dall’economia globalizzata, così come un’eventuale uscita dalla moneta non andrebbe a risolvere il problema di quelle che possono essere comunque pressioni che impongono, in ogni caso, nei fatti una corsa al ribasso.

Passiamo, adesso, all’altro approccio, quello che chiamo “approccio tecnocratico nazionale”. Durante gli anni ’90 abbiamo visto l’affermarsi di questo orientamento in molti Paesi e in molti campi, il caso irlandese è senz’altro uno dei casi più emblematici, ma l’abbiamo visto replicarsi e riproporsi anche altrove, l’idea è quella di dire: “Ebbene sì, abbiamo perso autonomia, lo Stato nazione ha perso autonomia, a questo punto l’unica soluzione è quella di aumentare la concorrenzialità della nostra economia in modo da gareggiare meglio con gli altri e, se riusciremo a farlo bene, anche i lavoratori ne trarranno vantaggio”, ebbene, il caso irlandese sintetizza benissimo questa filosofia, la filosofia degli anni ’90 è stata quella di dire: “E’ meglio accettare che i lavoratori abbiano una fetta più piccola della torta, però favorire maggiori investimenti, perché se favoriremo l’afflusso di maggiori investimenti, anche se abbiamo accettato di prenderci una fetta più piccola, in ogni caso per i lavoratori le condizioni saranno migliori”.

Il problema che si viene a porre è che questo è un discorso che può funzionare fino a che a gareggiare ci si mette un Paese solo ma, nel momento in cui tutti in realtà entrano in questo meccanismo di gara, quello che avviene è che poi tutti i lavoratori vanno a perdere perché, se a gareggiare sono tutti, la percentuale di reddito che poi resta ai lavoratori non fa altro che andare a diminuire ovunque.

C’è, poi, un secondo aspetto e su questo di nuovo il caso irlandese è particolarmente emblematico: per 20 anni l’approccio governativo e la filosofia che è stata seguita è quella di dire che i lavoratori potevano compensare il fatto che il loro aumento salariale non era proporzionato all’aumento della competitività attraverso il meccanismo del credito, quindi una forma di keynesismo privato, sostanzialmente, per cui il credito veniva erogato dalle banche e favoriva un meccanismo di consumi keynesiano, non attraverso un debito pubblico, ma privato, i lavoratori andavano tutti ad indebitarsi presso le banche per poi investire sul mercato immobiliare e competere tra di loro sullo stesso.

Questo creava la sensazione di un maggiore benessere, per cui anche l’operaio, il lavoratore medio aveva la casa da 400.000 euro, quindi poteva avere la sensazione di un maggiore benessere diffuso nel Paese. Questa sensazione è stata in qualche maniera favorita e seguita anche dalle forze sindacali come filosofia, ovviamente il problema è che persino nel 2008 uscivano testi che dicevano: “Gli irlandesi hanno trovato la chiave, hanno trovato la soluzione!”.

Ma con la crisi finanziaria e con il crollo finanziario è crollato anche questo modello di sviluppo.

Ovviamente i Sindacati oggi si sono trovati a dover fare i conti con questa situazione, quindi se prima l’idea era quella di accettare una fetta più piccola di una torta, che però diventa più grande, ti ritrovi in una situazione in cui devi accettare una fetta più piccola di una torta che diventa sempre più piccola.

Questo ha determinato una situazione per cui il patto sociale in Irlanda è semplicemente crollato. In questo caso parlo italiano per guadagnare un po’ di tempo. Il sindacalismo irlandese, allora, è veramente in crisi, una crisi fortemente grave perché la logica fondamentale del sindacalismo irlandese non funziona più, ma per un momento abbiamo visto il grande sciopero in Irlanda, perché?

Per prima cosa i lavoratori irlandesi sono veramente in una situazione difficile, il 15% dei lavoratori sono in ritardo sui pagamenti dei mutui e questo non dà molta libertà di azione; l’altro problema è che abbiamo soprattutto nel servizio pubblico una situazione per cui anche i leader sindacali pensano ancora nel loro orientamento di fare delle riduzioni e di gestire la situazione facendo concessioni anche salariali, quindi ora c’è guerra nel servizio pubblico perché i grandi Sindacati del servizio pubblico hanno avut la splendida idea di fare un accordo nazionale sul servizio pubblico, dove la maggioranza dei lavoratori non sono attaccati . . (?), ma sono quelli che lavorano la notte e quelli che lavorano il week end, così abbiamo una maggioranza dei dipendenti perché le riduzioni salariali sono pagati dalle persone che lavorano nel week end, quindi è logico che è iniziata una guerra all’interno del Sindacato che può condurre anche alla divisione del Movimento sindacale, perché quei Sindacati hanno detto: “Se voi volete fare queste concessioni sulle nostre spalle, noi vi diamo la . . . (?)”.

Questa è la situazione attuale, ma ho perso troppo tempo per discutere questi aspetti nazionali e non abbiamo più tempo, credo, per parlare del livello europeo, ma posso solo dire due o tre cose.

Credo che c’è una possibilità per un rilancio delle azioni sindacali, anche transnazionali a livello europeo, perché ironicamente quando abbiamo una Commissione Europea e una Banca Centrale Europea che dicono: “Noi vogliamo togliere i salari, noi vogliamo controllare le spese pubbliche”, non ci sono più i mercati che fanno questo processo di pressione sui salari, sono gente con una faccia, sono dei politici. Questo nella storia sindacale è sempre stato più facile, cioè attaccare delle decisioni prese dalla gente piuttosto che attaccare delle decisioni del mercato.

Il cambiamento della situazione è che oggi queste pressioni salariali non sono il risultato delle pressioni astratte dal mercato, ma sono delle decisioni pubbliche, politiche, che possono dare anche la possibilità di politicizzare questi problemi.

E’ vero che c’è una discussione in merito: “I tedeschi non vogliono questo, gli italiani non vogliono questo, etc. . . .” e c’è il tentativo di nazionalizzare questo conflitto ma, quando parlate con i sindacalisti in Germania, nel servizio pubblico, anche loro hanno pagato molto in questa corsa verso il basso e forse la FIOM può contribuire ad un rilancio, non parlando soltanto con il Sindacato metalmeccanico tedesco, ma forse ancora di più parlando con il Sindacato del servizio pubblico in Germania, perché loro hanno pagato molto su questo. Credo che ci sia una possibilità di convergenza politica contro queste decisioni tecnocratiche di altri.

 

Category: Fondazione Claudio Sabattini, Lavoro e Sindacato, Osservatorio Europa

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