Richard Hayman: Il futuro del modello sociale europeo

| 22 Aprile 2012 | Comments (0)

 

 

 

 

Richard Hayman è docente di relazioni industriali alla London School of Economics

Vorrei ringraziare innanzitutto gli organizzatori dell’evento, essere qui per me significa partecipare alla resistenza agli attacchi in corso alla democrazia, dal punto di vista politico, economico e sociale in Europa, ma non limitarsi semplicemente a resistere ma confrontarsi su quali alternative, noi che siamo a sinistra, possiamo mettere in campo.

Per questioni di tempo cercherò di presentare in modo sintetico il mio pensiero.

Il modello sociale europeo è stato parte della retorica, che non si può mettere in discussione, dell’Unione Europea per decenni, ma io credo che sia necessario decodificarlo per andare a comprenderne i punti di forza e di debolezza.

Alcune delle ambiguità del modello sociale europeo, innanzitutto quella che i tedeschi hanno definito “l’economia sociale di mercato”, una definizione che in sé controversa e che è stata oggetto di interpretazioni in disaccordo tra loro. Nella sua formulazione originaria l’idea era in un qualche modo quella di mettere l’accento sulla priorità dei cosiddetti “liberi mercati” rispetto agli strumenti di regolamentazione politica, ma nel corso del tempo è divenuta un qualche cosa che attiene più all’idea che ci possa essere una regolamentazione sociale dei mercati e la questione dell’equilibrio tra l’aspetto sociale e i mercati è proprio il punto attorno al quale si va un po’ a dispiegare tutta l’ambiguità del cosiddetto modello sociale europeo.

Una lettura alternativa e più radicale che è stata a lungo apprezzata a sinistra e in un qualche modo l’idea della dualità dei poteri e da questo punto di vista l’idea che il lavoro e il capitale possano essere due parti in causa alla pari, che si confrontano, è un ‘idea che ovviamente io ritengo ridicola perché non si può pensare che il lavoro si ponga su base equa nei confronti del capitale; ma l’idea che si potesse dire che i lavoratori potessero avere tanti diritti quanti quelli che capitalisti è un qualcosa che ha preso piede per un certo periodo di tempo.

Secondo punto è importante sottolineare che non esiste un singolo modello sociale europeo, i regimi nazionali sono diversi da tantissimi punti di vista e anche in questo l’idea che fosse possibile armonizzarli e quindi arrivare a definire strumenti di regolamentazione europea che prendevano, per certi aspetti, il meglio di tutti i diversi regimi per metterli insieme è anche questa una concezione un po’ fantasiosa.

Numero tre non c’è consenso riguardo al modello sociale europeo. Nessuno ti verrà mai a dire di essere contrario al modello sociale europeo, ma è anche vero che se ne possono sposare gli slogan senza dover in realtà tradurli in alcun modo in strumenti di azione politica.

E in fine c’è l’aspetto decorativo del modello che svolge un ruolo molto importante: prima si citava Delors e da questo punto di vista, se vogliamo, il discorso sul modello sociale europeo è stato presentato all’interno dell’Unione Europea come parallelo all’integrazione di mercato e quindi un modo per rendere l’eurocapitalismo più accettabile.

Passando a un altro punto, c’è da sempre una logica contraddittoria tra la mercificazione del lavoro e i diritti del lavoro. Tutti gli autori classici hanno sempre individuato in un qualche modo un conflitto tra lo status del lavoro subordinato al capitale e la visione dei lavoratori come cittadini ed è proprio questo conflitto che sta al cuore delle contraddizioni dell’Europa sociale. Da diversi punti di vista si può affermare che in Europa il lavoro è trattato come merce soltanto in parte, anche se poi ovviamente ci sono differenze specifiche nell’andare a guardare le differenze da paese a paese.

Molti paesi stabiliscono per legge alcuni parametri fondamentali come ad esempio il salario minimo, l’orario massimo di lavoro e quindi in un qualche modo stabiliscono la base al di sotto della quale non si può scendere.

Vengono posti limiti alle possibilità per i lavoratori, per i datori di lavoro di licenziare a piacimento quindi da questo punto di vista il modello americano dell’ingaggia e licenzia in Europa non esiste e ci sono sistemi di sicurezza sociale che determinano il fatto che il lavoratore non si trova di fronte alla scelta obbligata del “lavoro o muoio di fame”. Per gradi diversi, per livelli diversi, ci sono forme diverse di redistribuzione economica, così come sono previste forme di rappresentatività dei lavoratori sul posto di lavoro indipendentemente dal datore di lavoro, che sono un fatto unico che interessa l’Europa. Nella maggior parte dell’Europa occidentale, la contrattazione collettiva copre l’80-90% della forza lavoro, questo anche in quei paesi dove il livello di sindacalizzazione si attesta su percentuali ben inferiori. Infine i sindacati in Europa hanno status pubblico il che è forse di per sé una questione che è fonte di ambiguità ma sicuramente il loro ruolo è riconosciuto dal punto di vista della regolamentazione del mercato del lavoro.

Ma i diritti sono precari e questa è un po’ la seconda parte del mio ragionamento. Se ci chiediamo da dove vengono i diritti dei lavoratori? Sono il risultato di un grande disegno? Se stiamo a guardare nei vari paesi i modelli sono più che altro il risultato di un qualcosa che si è evoluto nel tempo e secondo logiche non razionali ma che riflettono gli esiti dei punti di scontro, di crisi, degli effetti della militanza e delle lotte che si sono andate a conquistare cose nel tempo. L’esempio italiano dello statuto dei lavoratori esemplifica questo tipo di ragionamento. Se appunto guardiamo da questo punto di vista i regimi sociali in giro per l’Europa ci rendiamo conto che sono quello che io definisco un po’ il risultato dell’equilibrio storico contingente tra classi o nei termini di una soluzione negoziata tra le diverse classi, a seguito a uno scontro o piuttosto di concessioni fatte dall’alto per spiazzare, per anticipare le possibili proteste o mobilitazioni. Non lo è, non è mai sufficiente perché il significato dei diritti, il significato delle leggi è un qualcosa che deve essere continuamente ricostruito e rinegoziato.

È divenuto ormai evidente che è più semplice per chi si oppone a questi diritti andarne a minare gli effetti nella pratica piuttosto che andare ad abolirli formalmente. Da questo punto di vista ad esempio Crouch nel suo libro sulla postdemocrazia spiega proprio, per tornare appunto a quanto si diceva nell’introduzione, che la situazione non è quella per cui gli aspetti democratici non ci sono più. Ci sono ma semplicemente non funzionano più. Stesso ragionamento, ragionamento analogo è quello che fa Streeck nel suo libro sulla riforma del capitalismo, in cui va ad esaminare alcuni strumenti come ad esempio i comitati aziendali in Germania o piuttosto gli strumenti di regolamentazione del lavoro o dei diritti e quello che viene messo in luce è come questi diritti non siano stati aboliti ma semplicemente è come se nella pratica non esistessero. Questo punto è cruciale quando andiamo a ragionare nella dimensione europea.

Andiamo ora a guardare questi punti senza stare a commentarli, perché penso siano abbastanza chiare a tutti quali sono le principali sfide dal punto di vista economico, politico, giuridico, del diritto e dell’ideologia. Volevo soltanto commentare l’ultimo punto. Trent’anni fa Margareth Thatcher ha coniato, in qualche modo, ha imposto la filosofia del “there is no alternative”, non c’è alternativa all’austerità, non c’è alternativa alla deregolamentazione. La Thatcher era da moltissimi punti di vista una outsider dell’Europa. Per molti aspetti quello che l’Europa sta diventando sembra veramente andare verso quello che la Thatcher affermava. Cercando di essere breve anche su questo punto, le politiche sociali sono state da tutti i punti di vista integrate quale elemento subordinato alla tenuta in vita dei mercati. La protezione sociale è giustificabile semplicemente perché contribuisce alla produttività. Il discorso della Commissione europea è tutto incentrato su questo, tutto incentrato su quali sono i fattori che favoriscono la produttività e la cosa di cui rammaricarsi è che molti sindacalisti hanno fatto propria questa logica, che è una logica di mercificazione della demercificazione. Laddove gli strumenti di protezione sociale non trovano giustificazione dal punto di vista della produttività, allora non hanno più motivo d’essere e quindi ad esempio le tutele dal licenziamento vengono presentate come forme di rigidità. L’alternativa a loro va sotto lo slogan di flexsecurity che sottende un’idea di molta maggiore flessibilità e molta minor sicurezza. Da questo punto di vista lo spostare l’attenzione dagli aspetti macroeconomici ad un ragionamento tutto imperniato sulle necessità dal lato dell’offerta, si traducono in ragionamenti come quelli che vengono presentati quando si parla non di creare occupazione, ma di creare occupabilità. Fare questo significa responsabilizzare l’individuo per quelle stesse politiche sociali che lo colpiscono. E tutte queste tendenze alla post demercificazione sono state ovviamente rafforzate dalla crisi economica e di bilancio o si è andato a rafforzare la tendenza a fare del welfare state un aspetto del tutto residuale. Cosa fare quindi? Come possono i sindacati proteggere la protezione sociale, se possono proteggerla? Quando ragioniamo sul dove e da cosa i sindacati traggono la propria forza contrattuale, ci possiamo dare quattro risposte abbastanza familiari che leggete sullo schermo e non vado quindi a commentare. Se andiamo a guardare gli aspetti strutturali da cui i sindacali possono trarre poteri, sono stati indeboliti dagli andamenti economici, gli aspetti associativi sono indeboliti con il calo degli iscritti ai sindacati in tutta Europa e il potere di organizzazione e la capacità di mobilitarsi è decisamente indebolito ovunque. L’unica forma di potere, di forza che rimane è quella di tipo istituzionale che è ancora abbastanza robusta, ma laddove tutti gli altri punti di forza vengono a mancare e si rimane con in mano solo la forza istituzionale, questa si riduce a qualche cosa di molto precario e il caso italiano da questo punto di vista credo che sia una buona esemplificazione di questa problematica.

Ci sono tre strade che i sindacati possono seguire per riconquistare forza. La prima è quella di vincere dal punto di vista delle argomentazioni, convincere le persone del fatto che le loro rivendicazioni sono auspicabili e possibili. La seconda verte sul costruire alleanze. Io credo che i sindacati non abbiano più la capacità da soli di scuotere il mondo, devono lavorare con altri per poterlo fare, anche se in passato sono stati molto riluttanti a diluire il proprio potere. Infine, ci vuole strategia. I sindacati devono essere intelligenti nel dispiegare le proprie forze indebolite. Questo necessita ragionamenti strategici che non siano tutti semplicemente all’insegna della reazione, del rispondere a quanto avviene e credo che da questo punto di vista in diversi contesti in Europa ci sia una difficoltà. Per concludere, credo che i modelli sociali europei abbiano indiscutibilmente bisogno di modernizzarsi, ma il problema è come farlo, e da questo punto di vista sono convinto del fatto che prima di poter difendere l’Europa sociale la si debba inventare o reinventare. I modelli attuali non rispondono agli ideali e alle istanze della classe lavoratrice all’oggi. Quello che ci dobbiamo chiedere è quali sono i modelli che possono soddisfare esigenze e aspirazioni del presente. Nella maggior parte dei paesi al momento i sindacati stanno semplicemente negoziando sulla base di un’agenda stabilita dal nemico. Credo che quello che sia necessario fare sia mettere in discussione e sfidare l’intero paradigma delle politiche che vengono proposte sul piano europeo al momento e per farlo occorre sviluppare una narrazione, un discorso pienamente alternativo che non si limiti a ripetere gli slogan che usati cento anni fa bisogna trovare il modo di connettersi con la generazione di Facebook e Twitter, che semplicemente oggi non si iscrive ai sindacati.

Nel capire come agire bisogna comprendere che quando si parla di individualizzazione bisogna allora andare ad indagare come far si che l’individuo senta il bisogno di essere parte di una collettività, ma, detto questo, avendo la consapevolezza che occorra ragionare profondamente su che cosa significhi oggi avere una identità collettiva, in qualche modo bisogna far si che l’individuo senta che la soddisfazione delle proprie aspirazioni individuali possa passare e passi attraverso una cornice collettiva e questo significa costruire alleanze e costruire forme di comunanza. Ci siamo trovati fino adesso ad avere al centro della scena principalmente attori nazionali, risposte che vengono dispiegate, risposte alla crisi che vengono dispiegate sul piano nazionale. Da questo punto di vista i sindacati finiscono per sconfiggersi e neutralizzarsi a vicenda, perché ognuno si vede impegnato a cercare di difendere la competitività del proprio paese. Questa è una situazione invece che necessita di una solidarietà internazionale o piuttosto, come preferisco dire io, di una solidarietà intesa al plurale, di forme plurali di solidarietà.

Ma l’internazionalismo burocratico non è sufficiente, la maggior parte delle organizzazioni sindacali internazionali sono estremamente burocratizzate, operano con modalità che vanno dall’alto verso il basso mentre una reale solidarietà a livello internazionale è una cosa che va costruita al contrario, dal basso, è un qualcosa che deve essere compresa appieno dai lavoratori e dai singoli sindacati e sindacalisti che operano sul campo.

Come conclusione, il futuro del modello sociale ha bisogno di fantasia strategica.

 

 

 

Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio Europa

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