Luciano Berselli (a cura di) : Un Dossier su “Dove va la cooperazione ?”
Diffondiamo da Inchiesta a stampa n.188 aprile – giugno 2015 il dossier “Dove va la cooperazione ?” a cura di Luciano Berselli che comprende una riflessione introduttiva di Luciano Berselli, una intervista a Lanfranco Turci realizza da Luciano Berselli e Tiziano Rinaldini e due interventi: uno di Sergio Caserta e uno di Rhiot. Sul tema “Dove va la cooperazione?” la rivista si propone di continuare a indagare (vedi su ww.inchiestaonline.it il tag “coop”). Il quadro in alto è di Gino Covili che ha come titolo”Discussione per la formazione della cooperativa”
1. Luciano Berselli: Una riflessione sulla Cooperazione
Centro studi R60, Reggio Emilia
In un saggio pubblicato alcuni anni fa (1), la storica Mariella Nejrotti ricostruisce un dibattito originario sulla Cooperazione, tra teoria economica e teoria del Socialismo.
Riportando attenzione su personaggi che sono stati dimenticati, come Ugo Rabbeno e Antonio Vergnanini, Nejrotti consegna una documentazione rilevante, utile anche per la riflessione sui problemi che oggi si manifestano. Per Rabbeno, la forma autentica della Cooperazione si esprime nelle cooperative di produzione lavoro: “…il grosso fatto innovativo che la Cooperazione introduceva nel sistema economico capitalistico ed era per questo che era osteggiata e combattuta da molti. L’innovazione era data dal fatto che nelle cooperative di produzione veniva abolita la compravendita della merce lavoro, o, meglio, il lavoro perdeva la sua qualità di merce.”
Vergnanini si muove in altre direzioni, tentando di delineare, e di realizzare in concreto, quella che chiama la “Cooperazione Integrale”, dove la produzione è posta in funzione subordinata rispetto al consumo. Immagina perfino che attraverso l’intreccio tra le due forme di Cooperazione si possa arrivare al superamento della moneta. Questo tentativo non ebbe successo, andando incontro nel 1913 ad un grosso fallimento nel territorio reggiano. Senza insistere ulteriormente su contenuti specifici di questo saggio, è interessante sottolineare l’asse metodologico della ricerca storica di Mariella Nejrotti.
“…la Cooperazione è formata da due componenti inscindibili, ossia essere insieme impresa economica e movimento sociale”. Questo principio di orientamento della ricerca è adeguato per descrivere ed interpretare una fase di sviluppo della Cooperazione e un dibattito che assumevano una dimensione internazionale, non circoscrivibile in un ambito nazionale e tantomeno locale. Sono esperienze che si svolgevano dalla Gran Bretagna al Belgio, dalla Francia alla Germania. Non a caso, un economista francese come Charles Gide influenza profondamente con le sue teorie l’azione di Vergnanini.
Un nesso inscindibile tra impresa economica e movimento sociale, e questo significava il Movimento Operaio, il Sindacato, i Partiti della Sinistra.
Oggi siamo al di qua di una scissione che è storicamente avvenuta, da alcuni decenni. Possiamo situare l’inizio dei processi che la determinano tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del Novecento.
Su scala internazionale, nei Paesi di più antica industrializzazione dell’Occidente, con intensità, durata e qualità diverse, si sviluppa una fase di lotta dei lavoratori, che vede al suo interno la spinta decisiva di nuovi soggetti. Pur con le caratteristiche differenti che ho ricordato, è un movimento che tende ad andare oltre il conflitto sul piano salariale e redistributivo, per affermare invece una richiesta e una pratica di intervento e di potere sulle condizioni di lavoro, per cambiare l’organizzazione del lavoro.
Questa fase in cui si esprime un conflitto sul governo del processo di lavoro non produce una risonanza, un avanzamento ed esperienze significative all’interno delle imprese cooperative. Non mi riferisco alle vicende, alcune delle quali sono diventate famose – almeno per un certo periodo – di aziende dove i lavoratori hanno assunto la gestione, per scongiurare una crisi o il fallimento. Sono vicende che si svolgono ancora oggi, in diversi Paesi – viene spesso citato il caso delle fabbriche recuperate in Argentina – e anche attualmente in Italia. Rappresentano una scelta dei lavoratori per impedire la perdita del loro lavoro, dove si presentino le condizioni per percorrere questa strada.
Tornando alla linea di riflessione che mi interessa, in quegli anni cruciali non c’è una risposta nelle imprese cooperative che si apra e si confronti con le nuove caratteristiche del conflitto sociale. Al contrario, sono già avviati i processi che vanno in una direzione del tutto opposta. All’inizio degli anni ’70, tanto nel settore delle cooperative di costruzione, come in quelle di consumo, le scelte e i criteri di fondo che guidano le trasformazioni societarie e i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro sono congeniali e in sintonia con la nuova “grande trasformazione” dell’economia, non solo a livello nazionale. Nel centro di questa tendenza generale c’è la costruzione di una risposta per arginare e spingere indietro il conflitto sociale degli anni precedenti. Nelle imprese cooperative di produzione lavoro, insieme con un cambiamento di composizione della base sociale, c’è l’adozione di un’organizzazione produttiva fondata sul sistema degli appalti e dei subappalti, che consente da un lato la frammentazione del lavoro, dall’altro la concentrazione e il rafforzamento del potere di direzione e di comando. Fenomeni analoghi avvengono in altri settori. Sono i processi di cui si discute negli interventi pubblicati nel dossier di Inchiesta. Poco dopo la metà degli anni ’70, la parola d’ordine teorica e politica che orienta il dibattito nella Cooperazione è “centralità dell’impresa”.
Succede in quel periodo un episodio che suscita grande scalpore e molte polemiche. Con un’operazione che presenta aspetti poco trasparenti, la Lega Nazionale delle Cooperative tenta di acquisire la proprietà della Duina Tubi, un’impresa privata del settore siderurgico soggetta a complicate vicissitudini. Si tratta di un “affaire” che porta alle dimissioni del Presidente della Lega Nazionale, che viene sostituito da Valdo Magnani, una figura prestigiosa di dirigente comunista. Era stato Segretario della Federazione di Reggio Emilia, espulso dal Partito perché, nel gennaio del 1951, nella sua relazione al congresso provinciale aveva criticato l’Unione Sovietica esprimendo un appoggio alla Jugoslavia di Tito. Rientrato dopo molti anni nel PCI, era diventato dirigente della Cooperazione. Dopo il caso Duina, in una situazione confusa e pericolosa per la Lega Nazionale, apparve come l’uomo più adatto per affrontare i problemi. Le radici della sua esperienza si allacciavano alle teorie dell’autogestione, che aveva conosciuto quando combatteva come partigiano in Jugoslavia, anche attraverso l’amicizia con Kardelj, che era il principale riferimento di quelle teorie.
Valdo Magnani cercò, nei due anni della sua presidenza, di mettere in tensione, dentro il dibattito cooperativo, la spinta ormai dominante ad esaltare la “centralità dell’impresa” con le sue convinzioni, non rinunciando a considerare la forma cooperativa come alternativa all’impresa privata capitalistica e all’impresa pubblica. Forse a causa di questo tentativo, e per le domande che cercava di fare, per mantenere un filo intorno al concetto di identità della cooperazione, in un recente dibattito su di lui, alcuni attuali dirigenti cooperativi si sono chiesti se Valdo Magnani fosse o non fosse un ideologo.
Hanno concluso, mi sembra, che probabilmente era un ideologo, ma poi lo soccorreva e lo salvava una certa attitudine pratica.
L’episodio che ho ricordato – uno dei tanti – è già lontano nel tempo. Si sono svolti processi dentro i quali si è esaurito un lungo filo storico che aveva stabilito un rapporto tra lavoro e Cooperazione.
Dentro il modello di impresa che oggi è dominante, si è allo stesso modo esaurita l’idea di una diversità della forma di impresa cooperativa.
Su questo punto di arrivo occorre misurarsi, quando si afferma, anche in alcune parti della Sinistra, che un richiamo ai principi del passato consentirebbe di superare le “degenerazioni” dell’impresa cooperativa.
Nei prossimi numeri di Inchiesta proseguirà la pubblicazione di contributi su questi temi.
(1) Mariella Nejrotti. “La Cooperazione tra teoria economica e teoria del Socialismo”, in “Un territorio e la grande storia del Novecento”. EDIESSE 2002.
2. Lanfranco Turci: Il rapporto tra lavoro e cooperazione
Lanfranco Turci è stato presidente della Giunta regionale della Regione Emilia Romagna e Presidente nazionale della Lega delle Cooperative. E’ stato senatore e sottosegretario all’industria nel Governo D’Alema. Questa trascrizione riproduce gran parte della conversazione con Lanfranco Turci, che per la redazione di Inchiesta è stata realizzata da Luciano Berselli e Tiziano Rinaldini. La versione completa dell’intervista sarà prossimamente disponibile sul sito online di Inchiesta.
Inchiesta:
Il tema che vogliamo sviluppare riguarda in particolare il rapporto tra lavoro e Cooperazione. Specialmente nell’esperienza italiana (anche se non soltanto in questa) è stato determinante per lo sviluppo del movimento cooperativo, e per tutti gli intrecci con il movimento dei lavoratori, dalla fine dell’800 fino ad un certo punto del ‘900. Dal tuo punto di vista e con l’esperienza che hai avuto dal 1987 al 1992 come presidente della Lega nazionale delle cooperative, come valuti i fatti degli ultimi mesi, dalla vicenda di Mafia Capitale a quelle successive?
Lanfranco Turci:
Non c’è dubbio che questi fatti sono un duro colpo per il mondo cooperativo. Soprattutto per la Lega, perché il movimento cooperativo della Lega è nato avendo come impronta storica, il legame con le Camere del lavoro, i sindacati e i partiti della sinistra. Si identifica con un nucleo di valori: la solidarietà, i lavoratori come protagonisti della creazione della stessa possibilità di vita e di sviluppo, l’emancipazione. La Lega si considera ancora erede di quella storia. Non c’è dubbio che i fatti che avete ricordato colpiscano duramente un’immagine, tanto è vero che le stesse cose quando avvengono in imprese di altro genere determinano meno scalpore nell’opinione pubblica di quello che si determina quando succedono in una cooperativa. Questa cosa dovrebbe far riflettere. Al di là del colpo sull’immagine, dietro c’è una trasformazione che è cominciata da molti anni dentro al movimento cooperativo e che per varie ragioni, è andata in una direzione che lo allontana molto da queste origini che abbiamo ricordato. Lo allontana nel modo di essere, di concepirsi nella società, nel modo in cui è anche percepito nella società e credo che in questo ci sia un rapporto diretto con il cambiamento del sistema politico. Ho fatto la tesi di laurea sul periodo giolittiano e mi ricordo che studiavo proprio il cosìddetto modello di Reggio Emilia, il modello del socialismo prampoliniano dove stavano insieme il Municipio rosso, la Camera del Lavoro, le leghe e le cooperative.
Stiamo parlando di più di cento anni fa, ma ancora nel secondo dopoguerra, sotto l’egemonia del PCI e non più sotto l’egemonia dello PSI, il modello somigliava a quell’impostazione.
Ricordiamoci il discorso di Togliatti a Reggio Emilia nel 1946, in cui diceva che il PCI doveva assumere l’eredità di tutto il lascito riformista prampoliniano. Fece questo discorso a Reggio Emilia, non a caso. Quindi nel secondo dopoguerra, Camera del Lavoro, leghe sindacali, cooperative, Amministrazioni rosse fanno parte di un universo comune, in cui in un circolo più largo, sono da considerare anche le associazioni dell’Artigianato, l’Alleanza dei contadini e così via.
Tutto questo mondo si è dissolto in un processo progressivo. Non è stato un colpo improvviso o un terremoto, ma un processo molto lungo. Per le cooperative in particolare il dissolvimento del contesto in cui erano cresciute e del mondo che abbiamo ricordato ha comportato, secondo me, non la tentazione, ma un vero e proprio processo di perdita di un’identità particolare.
Quando io andai alla Lega delle cooperative, nel 1987, stava per finire il PCI. La fine è arrivata poco dopo, ma era già nell’aria questo processo. Era già chiaro che il PCI di allora, non reggeva. Mi ricordo che dissi che le cooperative stavano perdendo il socio di riferimento. Usai proprio questa espressione, che si ritrova anche nei documenti ufficiali e congressuali. Il socio di riferimento non era nell’accezione dell’azionista che prendeva le quote, ma nel senso che il PCI era in qualche modo un soggetto che garantiva un certo tipo di processo di crescita del movimento cooperativo. Era una sorta di tutore esterno. Questo finché le cooperative hanno mantenuto una dimensione non troppo grande nelle realtà territoriali. Quando le cose nelle cooperative non andavano, dove non riusciva ad arrivare la struttura sindacale, la cooperativa stessa o la Lega, in qualche modo arrivava la Federazione del PCI. Se c’era un presidente che andava un po’ via di testa, se c’era una cooperativa in cui si sentiva puzza di bruciato dove non arrivava il presidente o il direttore locale della Lega delle Cooperative in qualche modo arrivava il PCI. C’era un circuito di dibattito e discussioni, che consentiva di mantenere in questo alveo il movimento cooperativo. Questo è poi tutt’altra cosa dal discorso di quanto le cooperative aiutavano materialmente il PCI. Questo avveniva anche verso i socialisti e persino verso i repubblicani, che erano allora una piccola componente della Lega.
Questa identità politico e culturale, dissolvendosi, ha fatto anche scomparire gli argini dentro ai quali il movimento cooperativo poteva crescere, mantenendo una sua identità di impresa particolare, di rapporto mutualistico, del socio che veniva prima del profitto e del bilancio. Tutti valori che man mano si sono attenutati in alcuni casi fino a scomparire.
Inchiesta:
Possiamo dire che finisce il rapporto tra Movimento ed Impresa Cooperativa, che evidentemente non sono la stessa cosa. Un’impresa cooperativa che sta dentro un movimento è diversa da un’impresa cooperativa quando il movimento non esiste più. C’è stato un periodo in cui si è discusso del fatto che l’impresa cooperativa, in seguito alla dissoluzione del movimento, acquisiva indipendenza, autonomia. Ciò veniva visto con un certo sollievo rispetto alla situazione precedente.
Tu arrivi alla presidenza della Lega partecipando a questo dibattito e a questa discussione. Quali sono i risultati che nascono da questa discussione, quali sono le caratteristiche di questa autonomia dell’impresa?
Turci:
Sono arrivato proprio nel momento in cui questo tema aveva già preso piede. Un piccolo test: qualche anno prima si era affermato nella Lega e nelle singole cooperative, il contratto autonomo dei dirigenti. Con quel contratto, si staccavano significativamente dal salario medio dei soci lavoratori. Parliamo delle cooperative di lavoro, perché riguardo alle cooperative di consumo non c’è nemmeno il discorso del rapporto tra lavoratori soci e cooperativa in quanto tale. Si diceva, e con un certo fondamento: “Le nostre imprese devono stare sul mercato, le imprese capitalistiche, le imprese private hanno dei manager pagati in un certo modo. Se dobbiamo reggere questa concorrenza, bisogna che noi siamo in grado di portare i mananger delle imprese private nelle cooperative”. Qualche caso c’è stato ma non è che fosse una buona soluzione. Si diceva occorre che i nostri manager siano motivati a restare nell’impresa cooperativa, non solo per un fatto di identità ideale, di identità politica. Devo dire, riflettendo oggi, che nella mia esperienza cooperativa ho insistito su quelle che erano le parole d’ordine che trovai già in discussione. Fare sistema, cioè cercare di fare in modo che le imprese cooperative lavorassero con strategie congiunte evitando la guerra intestina che era già abbastanza evidente e che poi si è accentuata, purtroppo. Sono rimasto per cinque anni, quelli del cambiamento della vita interna delle imprese cooperative, che era già in atto in modo significativo e che si è accentuato successivamente. Quando dico cambiamento della vita interna parlo del distacco fra il management, i vertici delle cooperative, e la base sociale. Questo è un fenomeno che poi dilaga con l’ingrandimento delle cooperative, le fusioni e tutti i meccanismi che ci sono stati. Pensiamo alle grandi cooperative di produzione lavoro nel settore delle costruzioni ma anche alle grandi cooperative di servizi, la Manutencoop, o la Cir nella ristorazione. E’ chiaro che le dimensioni hanno reso ancora più evidente questo distacco fra la base sociale e i vertici. Questi elementi si sono accentuati nel corso degli anni e secondo me sono anche uno dei fattori che spiega l’indebolimento della tradizione ideale del movimento cooperativo. Ricordo che quando ero presidente della Lega, abbiamo avuto qualche discussione con quello che era allora il segretario della Cgil, Bruno Trentin.
Inchiesta:
C’era già stata anche la rottura a proposito della questione del referendum sulla scala mobile?
Turci:
Sì, c’era già stata la rottura che poi dopo ha continuato in altre scadenze significative in cui la Lega si avvicina progressivamente alle posizioni di Confindustria. Anche gli artigiani del Cna finiscono per fare quasi tutti un blocco comune nel mondo delle imprese contro il sindacato e contro la Cgil perché c’era anche la divisione tra la Cgil e gli altri sindacati. L’indebolimento del rapporto tra i vertici e la base, e quindi l’indebolimento della democrazia interna delle imprese cooperative, parallela alla loro dimensione crescente, e a quello che ho definito prima, il dissolvimento di quel contesto in cui erano cresciute, fa sì che le imprese cooperative oggi, in molti casi, fanno fatica a chiarire in cosa sono diverse dalle altre imprese. C’è un dato di diversità che non va mai dimenticato, il patrimonio indivisibile. Questo è un punto di forza che io anche nei momenti più critici nei confronti di certe situazione delle cooperative, ho sempre difeso come distintivo. Quando un socio o anche il presidente se ne va, il patrimonio indivisibile resta lì, se non è stato bruciato dalla crisi o da cattiva gestione. Resta lì ed è un capitale attorno a cui altri soci si impegnano, creano il loro lavoro e creano anche ulteriore accumulazione. Questo è un dato che non va perso di vista.
Però al di là di questo tratto distintivo di tipo proprietario, diciamo così, il fatto è che, nelle cooperative, più aumenta la dimensione e più si indebolisce il potere dei soci. Il socio diffuso è un socio che non ha la capacità di controllare il management. Se c’è una dialettica è più facile che si risolva dentro al management, attraverso conflitti magari non sempre evidenti, piuttosto che con una chiamata esplicita della base sociale, proponendo le diverse alternative che si stanno discutendo nel vertice. Questo è uno schema che vale per le grosse cooperative. Sono quelle che fanno notizia oggi, non sono le piccole dove invece magari vive ancora il rapporto mutualistico, il rapporto di stretta fiducia e di circolazione di idee fra i vertici e la base. Credo che in questo indebolimento ci sia anche un fattore che ha reso poi meno guardinghi i vertici delle imprese cooperative nei confronti delle tentazioni del mercato. In altri termini, prendiamo gli ultimi casi in cui le cooperative sono rimaste coinvolte in vicende tipo la CPL Concordia.In qualche modo si dice che il mercato è fatto così, se dobbiamo portare a casa il lavoro dobbiamo stare alle “regole del mercato”. Allora è un bel dilemma. Mi ricordo di qualche dirigente cooperativo che aveva detto in passato “mi domando se devo fare la figura del cretino andando a casa senza lavoro e quindi senza poter garantire la continuità ai miei soci o invece fare la figura dell’eroe portando il lavoro, ma sapendo quello che alle spalle ho dovuto combinare”. E’ una domanda difficile. E’ chiaro che la risposta va cercata anche in battaglie più generali sul funzionamento dei mercati, sulla trasparenza. Adesso c’è questa raccolta di firme della Cgil per la legge sugli appalti. Tuttavia io credo che il movimento cooperativo debba porsi una domanda e decidere: noi non partecipiamo al tavolo dove girano le tangenti. Piuttosto denunciamo, creiamo lo scandalo e vediamo di dare un contributo, sapendo però che l’altra faccia della medaglia è in una situazione economica come quella degli ultimi anni in cui tutte le occasioni di lavoro sono diminuite. Senza volerli giustificare, capisco il dilemma in cui molti dirigenti cooperativi si sono trovati.
Inchiesta:
Ti viene attribuita una frase pronunciata a proposito di una vicenda siciliana, di rapporti tra cooperative di produzione lavoro e imprese che erano considerate vicine alla Mafia. Avresti detto: “non possiamo fare l’analisi del sangue alle imprese”.
Turci:
No, non sono stato io, di questo proprio sono sicuro! Questa frase era di un dirigente del PCI regionale siciliano, che poi è stato molto attaccato ma era un dirigente molto autorevole. Era sua la frase, è stata detta quando io ero presidente della Lega. Quella frase provocò molta discussione anche dentro al PCI perché ovviamente c’era una dialettica fra i compagni. Non c’è dubbio che fosse una frase che alle imprese cooperative del Nord, in particolare emiliane, che andavano in Sicilia faceva anche comodo perché consentiva di non doversi porre tutte le volte la domanda per sapere chi avevano di fronte quando facevano alleanze per una gara.
Inchiesta:
Hai detto che si fa fatica per l’impresa cooperativa a qualificare in che cosa consiste la sua diversità rispetto all’impresa capitalistica. Allora tutta la discussione sulla democrazia, sui meccanismi di controllo, anche il richiamo ai valori se non poggia su un fondamento e su soggetti che siano in grado di esprimere e affermare questi valori resta un appello retorico.
Turci:
… uno sciacquarsi la bocca. Sì, sono d’accordo con voi! Il punto è questo: in sede di Lega negli ultimi anni sono state più volte ventilate ipotesi di regolamentazione della governance, per esempio fissando dei limiti al numero dei mandati del presidente. Ipotesi sempre rimaste bloccate. Allora diciamo come stanno le cose. L’apparato politico-sindacale della Lega (che poi in parte viene dall’impresa stessa) si è indebolito perfino numericamente. Ci sono poche persone e teniamo conto che per lo più quelle persone sono pagate con i contributi delle imprese. E’ un piccolo dettaglio da non dimenticare. Quelle misure, se le applicassero davvero, andrebbero a colpire i vertici delle grandi imprese che sono quelli più immobili e che durano nel tempo. Ho visto, nel caso della Concordia, che il nuovo presidente nazionale ha preso il coraggio a due mani e ha chiesto ai soci della cooperativa di azzerare il consiglio di amministrazione. Hanno fatto un consiglio tutto nuovo, dove addirittura hanno messo l’ex procuratore della Repubblica di Modena fra i garanti dell’impresa cooperativa. Una figura cioè di consigliere esterno, di cui si è sempre parlato come garante della correttezza. Badate che bisogna limitare le mitologie, perché anche le imprese capitalistiche hanno i consiglieri esterni, sia in Italia che in America. Sappiamo che il più delle volte semplicemente questo dipende dal gettone che il consigliere esterno prende dal management. Però si parlava da tempo di queste misure. Sicuramente questi ultimi casi accelereranno questi processi arrivando a determinare misure più drastiche e ad adottare regolamenti vincolanti, per esempio sul numero dei mandati. Vedo tuttavia che la difficoltà è enorme. Quando ero già uscito dalla Lega ed ero senatore durante uno dei governi Berlusconi, con Tremonti Ministro del Tesoro, si aggiornò la tassazione delle imprese cooperative. La tassazione attuale, che viene ricordata come tassazione di favore, non porta neanche più la famosa traccia dei favoritismi strappati dal PCI e dalla sinistra. Ma al di là di questo, in quella occasione c’era anche l’aggiornamento di alcune parti del Codice civile.
Io e alcuni compagni (allora c’erano i Ds) proponemmo un emendamento chiedendo che fosse inserita questa affermazione, che di norma nelle grandi cooperative gli statuti dovessero prevedere un limite massimo della permanenza dei vertici da rinnovare, salvo votazioni con quozienti molto alti dei soci. Dopo la consultazione fra le Centrali cooperative e Tremonti il testo definitivo della riforma del codice civile arrivò senza quella norma che avevamo proposto. Mi informai allora con i compagni della Lega e seppi che era avvenuta una pressione sulla Lega da parte delle grandi cooperative, e ciò riguardava anche le altre centrali cooperative, perché non fosse inserita quella norma. D’altro lato nelle cooperative di consumo abbiamo alcuni casi in cui veramente la permanenza immutata dei vertici ha raggiunto un numero di anni strepitoso. Nelle cooperative di consumo già di per sé la figura del socio è una figura quasi indefinibile. Mettici la permanenza all’infinito di molti dei manager di questa impresa. A questo punto dov’è la specificità dei manager delle imprese cooperative?
La specificità c’è se i manager delle imprese cooperative hanno un’ispirazione adeguata almeno di tipo consumieristico cioè di difesa della qualità del prodotto, di difesa assoluta dei consumatori.
Queste ispirazioni possono averle, se le hanno, ma di per sé non sono strettamente vincolate al fatto che quella è una cooperativa, moralmente dovrebbe essere così ma potrebbe essere qualunque. Impresa. Anche in questo caso il dato strutturale è che il patrimonio dell’impresa cooperativa comunque, anche quando se ne va il presidente, resta lì a disposizione. Il tratto oggi è distintivo delle imprese cooperative, quelle almeno non spurie perché poi non abbiamo aperto il capitolo delle cooperative spurie che sono un’altra figura che sta degradando enormemente l’immagine della cooperazione in Italia. Questo però non è colpa delle centrali delle cooperative ma nelle cooperative non spurie il dato strutturale di differenziazione è soprattutto questo, la indivisibilità del patrimonio che è quello poi non tassato, l’altra parte di utili è tassata come qualunque altro utile di impresa.
Inchiesta:
Si presenta un problema di cui non è davvero facile vedere una possibile soluzione. Lasciando stare l’impresa familiare, dove il capo della famiglia decide chi debba prendere la sua successione – in genere è uno della famiglia stessa – guardiamo all’impresa capitalistica che ha assunto la forma manageriale. Qui c’è qualcosa che ad un certo punto – non solo nel caso di fallimento dell’impresa – che fa sì che chi dirige l’impresa cambia, e non decide lui la successione. Soprattutto nelle grandi cooperative il meccanismo rischia di essere simile a quello della politica, e cioè la cooptazione. Questo è un handicap pesante, tanto più quando è scomparso quel controllo politico – positivo o negativo che fosse – che permetteva di equilibrare il rischio di trasmissione per cooptazione del comando nella cooperativa. Sono casi che attraversano un secolo. Attraversano anche il Fascismo, che fu abbastanza abile in questo. Come può essere affrontato questo problema nella grande cooperativa? In quella piccola forse è più semplice.
Turci:
Nelle società per azioni, a partire dalla media dimensione, c’è una dialettica tra azionisti e management, per cui ad un certo punto, se gli azionisti sono scontenti del manager, lo cambiano, lo pagano bene ma lo cambiano e ne prendono un altro, che può avere strategie del tutto diverse. Nelle imprese cooperative, soprattutto nelle grandi imprese cooperative, non si capisce chi svolga questa funzione. Abbiamo appena detto che i soci sono una figura debole e quell’elemento di bilanciamento di poteri fra esterno ed interno, tra ruolo della politica, ruolo della struttura sindacale e ruolo della cooperativa con il suo management è andato perduto. Al momento non si vede che cosa possa sostituirlo. Credo che il mondo cooperativo dovrebbe aprire un dibattito vero, non bloccato dalla preoccupazione di aprire un vaso di Pandora, perché tanto questi problemi sono tutti sul tappeto e non sono addebitabili a cattiveria di questo o quel gruppo dirigente. Se il mondo cooperativo vuole avere una prospettiva, deve aprire un dibattito a tutto campo anche con contributi esterni, da parte del sindacato (che è una struttura tra le poche che ha ancora una sua capacità di incidenza, un suo rapporto di massa) da parte della politica e della cultura.
In Italia, dentro alla sinistra, c’è un dibattito di ritorno sul mutualismo, alla luce della crisi, alla luce di esperienze come quelle della Grecia o di altri Paesi. Il mondo cooperativo, ai suoi vertici, dovrebbe avere il coraggio di farlo, sapendo anche di rischiare conseguenze negative da una parte della sua struttura intermedia. Sarebbe un segnale di coraggio e di innovazione. Le risposte non sono facili. Alla domanda che voi ponete non c’è una risposta oggi. Nemmeno io saprei da dove cominciare. Ho in mente che, forse, il sindacato, dentro alle cooperative più grandi dovrebbe assumere un ruolo più forte. E’ vero che teoricamente la maggior parte dei lavoratori di una cooperativa di lavoro sono soci, ma solo teoricamente. Quando andiamo a vedere le grandi imprese di servizi che sono articolate in 10-20-30 scatole societarie per cui sotto ci sono società per azioni, spesso anche con alleanze miste, lì probabilmente la maggior parte sono proprio dipendenti tout court. Ma al di là delle distinzioni fra socio lavoratore e dipendente tout court, credo che il sindacato, che fra l’altro periodicamente si interroga sulla cogestione in Italia, sulle forme di democrazia industriale, potrebbe dare una mano ad aprire questa discussione dentro alle imprese cooperative.
Inchiesta:
Il problema del sindacato è al suo interno. Il meccanismo della crescita attraverso cooptazione è totale nel sindacato. Guarda la vicenda Cgil-Fiom. La Fiom apre un problema che mette in discussione meccanismi che fanno sì che attraverso la cooptazione tutto funzioni su quella base. Questa è una complicazione rispetto a quello che tu dici.
Turci:
La cooptazione è uno dei meccanismi più consolidati nella storia. Non è che sia nato con la sinistra, o con la crisi della sinistra, del sindacato, della cooperazione. Il potere, salvo i momenti di rivoluzione, in genere, arriva per cooptazione. Nelle università, quello che chiamiamo il baronato è una cooptazione, che in parte ha delle giustificazioni. Non puoi eleggere per via democratica il professore universitario. Questo uso della parola cooptazione va fatto cum grano salis, cioè con una certa attenzione e qualificazione. Il sindacato ha i suoi meccanismi interni, però nei luoghi di lavoro ha la rappresentanza, dei lavoratori, dove ne è capace. In Italia si discute se il modello tedesco, ad esempio, possa funzionare, soprattutto nelle imprese dalle medie dimensioni in su. Si può tentare in alcune imprese cooperative di porre il problema di una dialettica, non solo di contrattare i salari, come è ovvio e giusto. Il salario nelle imprese cooperative deve essere almeno quello contrattuale.
Dove è possibile, dove l’impresa va bene, dato che ha meno problemi di utili in confronto all’impresa privata, può essere anche qualcosa di più. Nei meccanismi cooperativi esiste quello strumento che si chiama ristorno, che distribuisce una parte degli utili ai lavoratori e ai soci stessi.
Anche dal lato sindacale occorre aprire un problema: nella casa in cui per principio la codeterminazione non dovrebbe nemmeno essere messa in discussione, perché è la casa della partecipazione assoluta, il socio cooperativo è il proprietario delle imprese, il proprietario pro tempore, perché quando se ne va lascia le sue azioni a chi arriverà. Allora, occorre proporre, anche partendo dalla dialettica sindacale, forme di controllo e di codeterminazione. Potrebbe essere il modo per cui si attiva davvero la base sociale, che di per sé sarebbe la piena titolare della direzione delle imprese. Comunque non ci sono risposte facili, questo dobbiamo saperlo. Non basta nemmeno dire che facciamo le consultazioni. Il problema è anche che cosa viene messo in consultazione. Prendiamo un’impresa come la Cpl-Concordia. Conosciamo le difficoltà che ha in questo momento, sperando che alla fine tutto si dimostri infondato, augurandoci quindi che le persone che oggi sono sotto processo, incarcerate, alla fine si dimostrino innocenti. Può tuttavia essere posta una domanda di tipo strategico in un’assemblea di soci o almeno nel direttivo di un’impresa come quella: è opportuno o meno continuare a cercare di forzare, in certi mercati, sapendo in partenza che alcuni di quei mercati sono inquinati? E’ una domanda proprio di strategia, è come decidere in un’azienda automobilistica se continuare a produrre automobili con un livello di inquinamento 10 o un livello di inquinamento 3.
Inchiesta:
Tu dici: “quali sono le fasce di attività economica su cui alla cooperazione, per non perdere completamente una propria identità, conviene investire e intervenire in una prospettiva strategica, e quali invece non si prestano ad un intervento”. Facciamo un esempio, per chiarire. Si apre tutta la questione delle attività sociali. In che senso è un’occasione per la cooperazione e in che senso può diventare l’opposto? Un’occasione che copre l’abbandono dello Stato.
Turci:
Stavo dicendo un’altra cosa Stavo proprio pensando al caso della Cpl-Concordia, contro cui c’è l’accusa di avere avuto rapporti collusivi soprattutto in certe zone del mezzogiorno. La domanda sarebbe allora: “sapendo che in quelle zone, il rischio del condizionamento mafioso è quasi inevitabile, ci dobbiamo andare o non ci dobbiamo andare?”. Non si può discutere con i soci ogni mezz’ora. Però alcune scelte come queste, poste apertamente in un dibattito fra i soci o negli organismo intermedi, dovrebbero mettere l’impresa in condizione di essere meno tentata di assumersi certi rischi. Da questo punto di vista, la democrazia interna ci aiuterebbe anche per evitare la tentazione di passare per le strade più pericolose, pur di portare a casa la sera il pasto.
Ricordo che la CMB di Carpi, se ne parlava alla fine degli anni ’60, primi anni ’70, aveva avuto un’esperienza in Calabria e da quel momento non aveva più aperto un cantiere per tanti anni nel mezzogiorno. Intendiamoci, questo è un discorso persino anti meridionalistico, quasi un discorso leghista, però l’esperienza era stata tale che la CMB ha preferito astenersi da quei mercati, continuare a vedere ciò che aveva visto. Penso che, alla luce dell’esperienza di questi anni, da Tangentopoli in poi, un’impresa cooperativa dovrebbe piuttosto dichiarare pubblicamente ai soci: “Noi ci siamo ritirati da quella gara perché abbiamo sentito odore di bruciato”. So bene che anche decidendo questo ti assumi responsabilità pubbliche. Penso che le lezioni, in termini di ritorno negativo che il movimento cooperativo ha avuto dagli scandali che sono emersi, dovrebbero indurre a denunciare piuttosto che a partecipare. Dobbiamo però sapere che, in termini immediati, non solo non si acquisisce il lavoro, ma si corre anche il rischio, di prendere delle querele, se la denuncia non è documentata. Questo è un aspetto. L’altro è la democrazia interna che non ha soluzioni facili.
Inchiesta:
Da quanti soci è composta in realtà la struttura delle grandi imprese di produzione lavoro?
Turci:
Nelle cooperative classiche, più grandi, fino a pochi anni fa la grande maggioranza era composta da soci. C’è stato successivamente un processo di societarizzazione, cioè non è avvenuta una crescita del blocco centrale della cooperativa pura, ma di tante società satelliti collegate. Si tratta di lavoratori dipendenti e non di lavoratori soci. Storicamente, la grande maggioranza erano soci.
Inchiesta:
Si sono determinate situazioni, come quella della CMC, che ha una propria azienda in Cina. Naturalmente non sono soci, ma sono lavoratori dipendenti della CMC e anche in questo caso la riflessione si è fermata e ha seguito la tendenza dei tempi.
Turci:
L’azienda in Cina fai fatica a gestirla come cooperativa…
Inchiesta:
Alle aziende in Cina, ci pensa il Partito Comunista Cinese. Finché gli interessa, le lascia fare e quando non gli interessa più le fa chiudere. C’è una serie di problemi che la cooperazione ha incontrato man mano, trovandosi scoperta sul piano politico. Non ha potuto aggrapparsi, bene o male, all’ideale dichiarato dal partito che la controllava. Si è trovata quindi esposta a questi processi di globalizzazione, mondializzazione, modifica della forma impresa. L’impressione è che sia stata in qualche misura trascinata senza un ruolo, rispetto all’andamento di questi processi. Oltre alla questione del territorio, c’è anche un’altra questione. Essendo tradizionalmente impegnata sul piano edilizio, si è trovata all’interno di un processo di segmentazione estrema della forma impresa, che è stato un veicolo straordinario di penetrazione dell’illegalità. Quando in un territorio come Reggio Emilia, ci sono 7.000 imprese edili con 12.000 addetti, compreso l’imprenditore, non ci vuol molto a capire che tutto questo (visto il meccanismo clientelare degli appalti), si è trovato esposto ad una degenerazione.
Turci:
L’impresa cooperativa delle costruzioni ha seguito questa linea di societarizzazione. Se devi lavorare in un certo appalto in Lombardia, magari lì fai una società di scopo, anche con imprese locali, cooperative e non cooperative.Le imprese cooperative di servizi sono molto più societarizzate. Se studiassimo la struttura di Manutencoop, vedremmo una struttura complicatissima di società collegate e controllate. E’ chiaro che tutti questi meccanismi sono difficili da testire con una logica cooperativa, anche volendo. Per tornare a recuperare un’originalità cooperativa (anche se la storia non si ripete mai, non si può recuperare), penso però che occorrerebbe, in un tavolo ideale, una riflessione sul futuro della cooperazione. Occorre pensare anche a vincoli giuridici. Per esempio, prevedere un ricambio necessario e obbligatorio dei consiglieri ad ogni assemblea, quando si rinnovano gli organi societari. Prevedere un limite di durata dei vertici e applicarlo. Credo che siano tutti meccanismi che, da un lato possono essere impugnati in nome della libertà di impresa, perché nell’impresa privata, non vai certo a dire che devono mandare via Marchionne dopo tre anni.
Quelli lo cacciano via, se ne sono capaci, quando non fa più il loro interesse. L’impresa cooperativa sta scritta nella costituzione, è delineata in un certo modo, ha un regime di tassazione degli utili indivisibili giustificato dall’articolo 45. Puoi anche pensare, salvo un’elaborazione adeguata, a una normativa più specifica che abbia anche dei tratti vincolistici. Secondo me questa è una cosa da non escludere. Un presidente di una cooperativa direbbe che sono matto a pensare a una cosa del genere.
Devi tuttavia trovare delle specificità. Se queste specificità non le hai più in natura, come era naturale in una certa epoca storica, devi costruirle con meccanismi di ingegneria istituzionale e questo, secondo me, sarebbe un punto importante.
Avremmo bisogno di un’autorità esterna, che non può essere rappresentata dalle Centrali Cooperative, che non ne hanno la forza, l’autorevolezza e il potere. Un’entità esterna che certificasse i valori cooperativi applicati nell’impresa non che stabilisse un generico decalogo. Sto improvvisando idee, come, ad esempio, qualcosa che assomigli alla Consob per il potere di vigilanza che ha sulle società quotate. A me è venuta in mente una cosa ancora più impegnativa, per esempio l’Authority Anticorruzione, che è diventata un potere vero solo adesso. Siamo addirittura sul terreno della magistratura. Non puoi tuttavia pensare di costruire strutture ad hoc per l’impresa cooperativa, perché sembrerebbe di considerare per principio l’impresa cooperativa come un mostro, una cosa di per sé negativa. Come si fa la normativa anti mafia si dovrebbe fare la normativa anti cooperativa! Cadremmo in una valutazione totalmente impensabile. Tuttavia, ci vuole qualcosa che garantisca meglio la natura di ciò che viene definito cooperativo, a cominciare dal compito del Ministero del Lavoro. Parlavamo prima delle cooperative spurie che sono cresciute in un modo incredibile. Voi avete citato l’edilizia, ma nel settore delle carni, tutta una parte del lavoro in molti casi è gestita da apparati mafiosi.
Inchiesta:
A Reggio c’è stato un caso specifico che aveva la testa a Castelnuovo Rangone.
Turci:
Esatto, ci fu un morto in quel caso! Queste cooperative spurie contribuiscono in modo incredibile a delegittimare l’idea di cooperazione in Italia.
Inchiesta: Però vengono utilizzate anche da cooperative che risultano ufficiali.
Turci:
Prendiamo il dato in sé delle cooperative spurie. Non c’è assolutamente una vigilanza adeguata. Questa spetterebbe al Ministero del Lavoro, non alle centrali delle cooperative. Invece si sono moltiplicate in modo incredibile e sono fonte di lavoro nero, di schiavismo sotto il controllo mafioso. Apro adesso la cooperativa e fra sei mesi la chiudo, così ho fregato tutti. Questa sarebbe una cosa da mettere sotto tiro in un modo durissimo. Certo, le cooperative ufficiali dovrebbero evitare di avere rapporti con le cooperative spurie o più o meno spurie, perché non dimentichiamo che, in Emilia soprattutto ma anche in Lombardia, le lotte più dure nel settore della logistica sono state quelle dirette dai Cobas, non dai sindacati confederali e neanche dalla Cgil. Sono le lotte dei lavoratori immigrati della logistica, che lavorano per la Nokia, per Amazon, anche per le grandi Coop di distribuzione e consumo emiliane. Una delle vertenze più grosse è stata quella nel bolognese da parte di questi lavoratori immigrati contro le cooperative più o meno spurie che li gestivano che lavoravano per i magazzini delle centrali cooperative, della Granarolo sicuramente.
Queste probabilmente non erano neanche cooperative spurie a tutti gli effetti perché erano cooperative registrate, però con una gestione interna totalmente brutale che ha determinato la rivolta di questi lavoratori. Occorrerebbe mettere insieme parecchie cose che non si esprimono solo nel mondo cooperativo. Si manifestano, più in generale, nel mercato del lavoro, nel mercato degli appalti, nei meccanismi della spesa pubblica. Fateci caso, finora abbiamo parlato di scandali e degenerazione. Non parlo dell’abuso, cioè della permanenza nel tempo dei presidenti che non necessariamente sono legati a cooperative che hanno rapporti con la spesa pubblica. Pensiamo alla grande cooperativa di Roma coinvolta in Mafia Capitale. Era il gioiello, portata ad esempio di come la cooperazione sociale poteva riscattare gli ex detenuti e abbiamo visto che cosa era diventata. E lì cosa c’era di mezzo? Il rapporto con la spesa pubblica. Quindi da questo punto di vista dove c’è la spesa pubblica è più facile che si sviluppino meccanismi corruttivi.
Inchiesta:
Non so se possa bastare il fatto che le cose date in appalto non possano essere a loro volta subappaltate. Basterebbe una cosa chiara su questo, almeno per la spesa pubblica.
Turci:
Avresti già risolto buona parte delle cose. Questa faccenda di Mafia Capitale mi fa venire in mente un’altra considerazione a proposito dell’indebolimento della capacità delle Centrali Cooperative di svolgere almeno un minimo di vigilanza. E’ possibile che cresca un cancro come quello senza che almeno un po’ di odore di bruciato non ti arrivi al naso? Torniamo al punto, questi scandali delegittimano anche le sigle associative, non solo la singola impresa cooperativa che di volta in volta si trova nei pasticci. Ecco perché occorrerebbe un sussulto di riflessione su cosa può essere la cooperazione.
Inchiesta:
C’è un bel libro scritto da Giovanni Moro “Contro il no-profit”. E’ un libro in cui demistifica questa retorica del no-profit dietro, cui si nasconde non solo la cooperazione e dice di guardarci dentro perché dentro c’è di tutto.
Turci:
Sono convinto che tutta la retorica del terzo settore sia una retorica in gran parte bacata al suo interno perché accanto a dieci volontari veri hai dieci figure di lavoro in nero, lavoro sottopagato, cooperative fasulle. Qui arriva l’altro problema che voi accennavi. Non c’entra niente con i discorsi della degenerazione del mondo cooperativo o dell’autoritarismo di alcune cooperative. Si tratta del rapporto tra alcune cooperative sociali e i servizi pubblici. Questo è un problema delicatissimo perché da un lato, è naturale che le cooperative sociali, che organizzano lavoratori che cercano occupazione, si candidino a gestire servizi sociali, che siano scuole materne, asili nido o case di riposo. E’ anche vero però che facendo forza sull’idea delle cooperative sociali, del terzo settore, si dà una spinta, si cerca di legittimare la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Questo è un gioco micidiale. Non sto dicendo che la responsabilità è in capo alle cooperative sociali perché, al di là del caso di Roma, le cooperative sociali in generale, sia come dimensioni che come modo di funzionamento, sono ancora vicine alla forma più classica della cooperazione. E’ chiaro tuttavia che se un Comune, invece di aprire una scuola materna regolare assumendo le insegnanti per dodici mesi all’anno con la tredicesima, con tutti i diritti al riposo e alle ferie, la affida alla cooperativa sociale che fa dei contratti a termine e quindi paga solo i mesi effettivamente lavorati (non tutti i contratti sono così ma in molti casi sono così) è evidente che alla fine il risultato è che hai un servizio meno qualificato. Se la gente la tratti male e non la paghi bene, lavora peggio. Hai quindi servizi meno qualificati e hai lavoratori più sfruttati perché alla fine quelle insegnanti della cooperativa sociale, sono più sfruttate, mentre quelle del servizio pubblico hanno condizioni più dignitose. E’ un bel conflitto questo. Il motore non è nelle cooperative sociali, è nella politica di attacco al welfare, nel liberismo economico. Questo lo sappiamo bene, ha a che fare con politiche macro economiche con dimensioni ampie, europee. E’ la ricaduta di un processo molecolare. Quando si trova la motivazione ideale, come il terzo settore, si nobilitano anche politiche che in realtà sono di degrado del welfare. Non per responsabilità degli operatori ma per le scelte che stanno a monte. Tornando al filo del nostro ragionamento, insisterei per provare a lanciare l’idea che si apra un dibattito pubblico senza sotterfugi, senza tatticismi, senza paura di disturbare il manovratore, sullo Stato e le prospettive della cooperazione. Una sinistra che non abbia più vicino, non dico di fianco, ma vicino, un mondo cooperativo, un mondo mutualistico, è una sinistra più povera.
Inchiesta:
Anche alla luce del problema, che sta riemergendo del mutualismo, prima che venga affondato nel pantano.
Turci:
Attenzione alla retorica sul mutualismo, perché corriamo il rischio di fare lo stesso discorso che abbiamo fatto prima con i servizi sociali. Non è che giustificandoci con la burocrazia del servizio sanitario nazionale, facciamo le piccole mutue ed è tutto più bello.Dentro alla sinistra qualche sciocchezza del genere sta girando. Ricordiamoci che, negli anni 70 l’attacco al complesso keynesiano e la fine dei “trenta gloriosi” è partito con l’attacco allo Stato, alla burocrazia, alla spersonalizzazione dei servizi. Un conto è se fai mutualismo perché ti hanno chiuso l’ospedale, ma finché è possibile, difendiamo gli ospedali e il servizio sanitario nazionale. Credo al mutualismo delle piccole cose, che non è la sanità integrativa. Se il servizio sanitario non copre le cure per i denti, se hai i soldi vai da un’assicurazione privata, collegata con mutue specializzate, che ti dà le prestazioni che non ricevi dal servizio sanitario. Non penso a questo. Penso più al mutualismo, nell’accezione dei beni comuni, delle piccole dimensioni, la dimensione comunitaria, che non è sostitutiva della dimensione di classe, sociale, della lotta politica. Sicuramente in una società che è sempre più presa dall’individualismo, dall’egoismo, dalle paure, il mutualismo in questa accezione (gestiamo insieme il piccolo parco, gestiamo insieme il parco dei bambini), può rappresentare la rinascita di uno spirito comunitario.
Inchiesta:
C’è una riflessione aperta anche in altri paesi. In Francia e in Germania c’è una tendenza ad aprirsi verso i sistemi mutualistici. In Inghilterra c’è un atteggiamento più diffidente.
Turci:
Ricordiamoci che la Big Society è lo slogan dell’attuale primo ministro inglese. Nel suo programma elettorale, la Big Society è contrapposta al Big State, al Big Governement. Decentriamo tutto…
C’è il rischio che dentro al mutualismo, se è male impostato, ci sia di peggio che nelle cooperative sociali. Leggevo l’altro giorno un pezzo su come dovrebbe cambiare il sindacato. L’autore diceva che dovrebbe tornare più sul modello storico delle Camere del Lavoro in confronto all’esperienza delle categorie. Un sindacato dovrebbe avere un ufficio in ogni territorio, per la gente che ha problemi da risolvere e non sa a chi chiedere. Questo è un lavoro che fanno in parte i patronati, ma solo in parte.
Inchiesta:
E’ un patrimonio che non viene usato come potrebbe essere usato, e cioè come un fattore di organizzazione politica e non solo come un servizio di assistenza. Non facciamoci travolgere dalla retorica che nasconde e giustifica il fatto che non si contratta più niente in fabbrica e nel territorio.
In fabbrica si accetta che i soldi li aumenti Marchionne, quando lo stabilisce lui.
Turci:
Dentro al discorso della Coalizione Sociale, ci starebbe anche lo spirito delle Camere del Lavoro, dove la gente va per raccogliere consigli e suggerimenti.
Inchiesta:
Ci sono alcune realtà, come la periferia romana, e anche altri luoghi in cui stanno facendo tentativi di questo tipo.
Turci:
Ho un amico economista che abita vicino ad un centro sociale. Tutte le domeniche va a pranzare al centro sociale. Poi fanno conferenze su vari temi. Queste sono cose preziose. Ricordiamoci cos’erano una volta le Case del Popolo. E’ vero che non c’era la televisione e non c’erano i media, però qualcosa del genere deve essere recuperato perché la chiusura individualistica è terribile. L’altra sera sono andato a cena con il figlio di un mio amico che è morto recentemente. Ho conosciuto la sua compagna, una giovane avvocatessa. Mi ha raccontato che lei è presidente della Banca delle ore. Ne ho sempre sentito parlare ma credevo fosse una di quelle trovate della letteratura sociologica che non era mai decollata. Mi ha raccontato che ci sono sessanta, settanta persone associate e si scambiano servizi. Ad esempio, c’è una vecchia sarta, lei può fare rammendi. Un altro sa fare altre cose. Danno un peso specifico alle ore dedicate, stanno insieme, fanno assemblee, è un modo di vivere in comunità.
Inchiesta:
Il problema è che la funzione delle Camere del lavoro a suo tempo, che non può essere contrapposta a quella delle categorie, era quella di riorganizzare, mettendole in un rapporto tra loro frammenti e frantumi che isolati non producevano massa politica, mentre insieme riuscivano ad essere un soggetto.
3. Sergio Caserta: La ”recherche du temps perdu” del movimento cooperativo
Sergio Caserta è ricercatore e giornalista free lance con esperienze nel mondo cooperativo
Palmiro Togliatti:
“…Circa i problemi che sono stati posti, pare che essi siano stati chiariti abbastanza bene dai compagni che sono intervenuti. Le vostre risoluzioni sono molto concrete, precise e danno delle direttive, dei consigli che i compagni si attendevano. Una sola questione di principio è sorta e sulla quale, dopo quel che ha detto il compagno Longo non mi pare che ci sia bisogno d’intervenire; se qualche compagno aveva avuto qui delle espressioni che teoricamente noi non approviamo ( nel senso che hanno indicato la cooperazione che oggi si svolge in regime capitalista come socialista) credo che i compagni hanno compreso la nostra critica. In realtà, in regime capitalista, la cooperazione non si sottrae alla legge del profitto come non si sottrae, a tale legge, l’industria nemmeno nel periodo della costruzione del socialismo. Vorrei però che i compagni comprendessero che il fatto di aver precisato questi punti della dottrina non significa che noi svalutiamo la cooperazione quale oggi è, una scuola di socialismo per i lavoratori, per il sindacato, per il partito”. [1]
Ho preso “alla lontana” il tema dell’identità cooperativa perché l’intervento del segretario del PCI al primo convegno dei cooperatori comunisti del dopoguerra mette in evidenza, in un rigo,un tratto essenziale e caratteristico della sua idea di costruzione di un progetto di socialismo in Italia. Togliatti e il PCI affidavano un ruolo strategico alla cooperazione come strumento per la partecipazione da protagonista delle masse alla ricostruzione del Paese e alla realizzazione di un nuovo modello di società, non come soggetto di lotta al capitalismo.
“…il convegno ha posto con chiarezza l’esigenza di dare un ulteriore impulso a tutta l’attività specifica della cooperazione, a tutte le sue iniziative economiche, e nello stesso tempo di accentuare il carattere di massa della cooperazione, il carattere combattivo di questo movimento… il Sistema economico cooperativo non può entrare in urto con il sistema capitalistico fino al punto di esserne un elemento di rottura, ciò per il semplice motivo che l’attività della cooperazione è, per sua natura, un’attività che resta fondamentalmente di tipo capitalistico. Solo dimenticando cosa significa economia socialista si può confondere l’economica cooperativistica in regime capitalista con l’economia in regime socialista. Qualunque cooperativa deve soggiacere al regime capitalista in cui vive, non può non tener conto della legge del profitto, che non può dare al salario ai suoi dipendenti un carattere socialista perché detto salario è, e sarà sempre, in regime capitalista, un salario di sfruttamento… Non può perciò sfuggire alle leggi che dominano la formazione dei prezzi sul mercato, come diceva Lenin ‘In regime capitalista la cooperazione prende il carattere di un’azienda capitalista collettiva” [2]
La funzione della cooperazione fu per lungo tempo argomento rilevante e parte integrante del dibattito teorico e politico sui modi in cui si poteva combinare l’economia di mercato con l’aspirazione al socialismo. Nello stesso tempo il sistema delle imprese cooperative, rinato dalle ceneri del fascismo, viveva una fase di intensa crescita, attraverso l’azione di cooperatori appassionati, come Giulio Cerreti, animati da straordinario impegno e rigore ideologico.
Questo processo di crescita aveva già vissuto tappe importanti dal dopoguerra, come scrive Valerio Castronovo, in “un grande risveglio dal basso”. “C’era, senza dubbio, nei primi spezzoni del risorto movimento cooperativo una forte carica innovatrice, sorretta da un’autentica fede e passione politica. Ma sarebbe azzardato affermare che che questo stato d’animo si traducesse in istanze politiche autonome, in una sorta di movimento spontaneo alternativo o conflittuale con gli indirizzi ufficiali dei partiti della sinistra. C’era piuttosto l’aspirazione a contare di più, il desiderio che venisse riconosciuto alla cooperazione un ruolo primario nella ricostruzione del Paese… È vero che in molti militanti circolava l’idea che le cooperative fossero “cellule” di una nuova società, o che la cooperazione fosse “un’isola socialista” nell’ambito del sistema capitalistico. Ma si confidava intanto sull’appoggio delle autorità governative e soprattutto sulla sanzione dei diritti della cooperazione che sarebbe venuta dalla carta Costituzionale”.[3]
Il periodo dagli anni sessanta è stato un progressivo percorso di crescita e di cambiamento della cooperazione, attraverso fasi diverse che l’hanno caratterizzata sia sotto il profilo politico che economico: lo sviluppo di una diffusa rete di imprese e di un’organizzazione di rappresentanza con una propria fisionomia; un movimento molto articolato che, mano a mano che si affrancava dagli antichi legami ideologici e dalla dipendenza dai partiti di provenienza, coltivava l’ambizione di porsi come terzo soggetto tra pubblico e privato, tra stato e mercato. A partire dagli anni ottanta questa evoluzione è sfociata in una modificazione di natura, nell’identificazione piena della cooperazione con la cultura economica del capitalismo, mentre perdevano significato i valori mutualistici e sociali.
Le norme fondamentali che avevano inquadrato la forma cooperativa come una società diversa da quella di capitale perché non destinata a creare un lucro privato erano in primo luogo l’art. 45 della Costituzione “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato.” la successiva Legge Basevi decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 all’Art. 26 definiva i requisiti mutualistici. Agli effetti tributari si presume la sussistenza dei requisiti mutualistici quando negli statuti delle cooperative siano contenute le seguenti clausole: • divieto di distribuzione dei dividendi superiori alla ragione dell’interesse legale ragguagliato al capitale effettivamente versato; • divieto di distribuzione delle riserve fra i soci durante la vita sociale; • devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale – dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati – a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico. In caso di controversia decide il Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, d’intesa con quelli per le finanze e per il tesoro, udita la Commissione centrale per le cooperative. Queste norme erano riassunte nel principio democratico di “una testa un voto”, vincolo assoluto adottato da ogni cooperativa.
Per comprendere meglio le dinamiche dei cambiamenti, è opportuno ripercorrere in un breve excursus l’evoluzione legislativa inerente la cooperazione.
Le norme fondamentali che avevano inquadrato la forma cooperativa come una società diversa da quella di capitale perché non destinata a creare un lucro privato erano in primo luogo l’art.45 della Costituzione:“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato.” La successivaLegge Basevi (decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577)all’Art. 26 definiva i requisiti mutualistici. Agli effetti tributari si presume la sussistenza dei requisiti mutualistici quando negli statuti delle cooperative siano contenute le seguenti clausole:
• divieto di distribuzione dei dividendi superiori alla ragione dell’interesse legale ragguagliato al capitale effettivamente versato;
• divieto di distribuzione delle riserve fra i soci durante la vita sociale;
• devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale – dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati – a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico. In caso di controversia decide il Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, d’intesa con quelli per le finanze e per il tesoro, udita la Commissione centrale per le cooperative.
Queste norme erano riassunte nel principio democratico di “una testa un voto”, vincolo assoluto adottato da ogni cooperativa.
Le innovazioni legislative introdotte nel corso degli anni, hanno contribuito a modificare la struttura societaria, finanziaria e anche l’identità cooperativistica, accompagnando il processo di “ibridazione”.
La legge Pandolfi del ’77esentava dalle imposte il reddito delle cooperative accantonato a riserve indivisibili e non distribuibile tra i soci, una norma sicuramente importante per dotare le cooperative di maggiori capacità finanziarie.
Una seconda legge del 1983, denominata Visentini bis,consentiva che le cooperative potessero costituire o essere azioniste di società di capitali: questo provvedimento di fatto aprì le porte ad una profonda modificazione della struttura imprenditoriale cooperativa proiettandola nel regime privatistico da cui in precedenza era esclusa; fu un bene?Penso che col senno di poi si sarebbero dovute prevedere procedure più rigide per non incorrere nei problemi di snaturamento dei principi cooperativistici sociali e di mutualità derivanti dalla disinvoltura con cui furono gestite queste nuove opportunità.
Nel 1992 la legge 59, istituì le azioni di partecipazione cooperativa APC e la figura del socio sovventore, strumenti per accrescere la capacità finanziarie e di capitalizzazione e finanziarie.
La Legge 23 dicembre 2000, n. 388 Art.17 contiene l’interpretazione autentica sull’inderogabilità delle clausole mutualistiche da parte delle società cooperative e loro consorzi: gli effetti di questa norma restano ancora da comprendere. Se da un lato il concetto di “mutualità prevalente”, pur introdotto con requisiti quantitativi, può essere interpretato come una spinta a rinverdire lo spirito cooperativo, dall’altro non si può non valutare negativamente l’obiettivo esplicito, contenuto nella legge, di trasformare le cooperative in società di capitali.
L’esperienza personale di cooperatore iniziata alla fine degli anni settanta mi ha consentito di partecipare direttamente alle vicende che hanno riguardato una delle fasi di più intensa trasformazione del movimento cooperativo, aderente alla Lega. L’age d’or della cooperazione comincia dalla fondazione dei grandi consorzi avviata a metà degli anni sessanta con in campo commerciale Coop Italia e Conad, nei servizi CNS, di appalto nelle costruzioni CCC -CONACO, queste strutture hanno costituito un volano per il movimento cooperativo, in particolare utilizzando la leva finanziaria (Unipol- Fincooper) per realizzare piani di sviluppo e conquistare quote di mercato, anche nel meridione. Contemporaneamente si affermava il mito della “grande impresa” quale elemento centrale e motore del movimento. Gli anni settanta e la prima metà degli ottanta sono stati forse i più fecondi nel rapporto tra innovazione, sviluppo e aspirazione a una funzione di rinnovamento sociale della cooperazione. Dopo le cose sono rapidamente cambiate.
Uno degli aspetti meno indagati nella già scarne ricerche sugli sviluppi degli ultimi anni che ho vissuto direttamente, riguarda il cambiamento intervenuto nelle strutture dirigenziali della cooperazione, conseguenti l’affermarsi di grandi imprese a carattere regionale o nazionale. Il confronto nel mercato con le imprese private di pari dimensioni, la partecipazione a grandi appalti pubblici,l’introduzione di organigrammi e tecniche di gestione del personale tipiche dell’impresa privata, l’adozione dei contratti collettivi con i sindacati, hanno determinato una spinta ad omologare anche il livello delle retribuzioni dei manager a quelli delle imprese capitalistiche. Questa scelta, in parte dovuta ad un’esigenza reale di rafforzare i settori in crescita tumultuosa con professionalità adeguate che non erano numerose all’interno, fu affrontata non senza conflitti d’interesse e ambiguità ( tanti decidevano in fin dei conti per se stessi), ha concorso a mutare definitivamente l’orientamento e la cultura d’impresa di uno stuolo di funzionari, costituendo in poco tempo le condizioni per la creazione di un élite. A Metà degli anni ottanta, nelle associazioni più forti, si modificarono i contratti di dirigenti adeguandoli pressoché interamente a quelli del settore privato, con una forte lievitazione retributiva, l’introduzione di mutue speciali per ricoveri e cure mediche particolari, dotazioni di benefit, appartamenti di lusso per i fuori sede ecc.
Tutto ciò però avveniva, invece che mediante un’attenta selezione della congruità e delle compatibilità, con le forme di automatismo tipiche di un’organizzazione di massa di emanazione sindacale, ovvero senza definire criteri di valutazione rigorosa, applicandola schematicamente per ogni tipo d’incarico, a prescindere dalla complessità o dalla competenza effettiva delle persone, nonché dalle risorse necessarie. Soprattutto con un principio di “egualitarismo politico” condizionato dal permanere di componenti partitiche che imponevano pressoché ovunque il raddoppio se non la triplicazione delle rappresentanze. Questa proliferazione indistinta e generalizzata di alti livelli retributivi, fu a parer mio la condizione per spingere la cooperazione ancor più decisamente verso una forma di falsa autonomia che diventò un “mercato parallelo delle professioni”, in cui si confondevano alleanze, appartenenze, incroci inconfessabili con le strutture dei partiti di provenienza che persa ogni funzione di orientamento politico e culturale diventarono ben presto le retrovie di accordi di potere, per carriere altamente remunerative.
Non è un caso se questi cambiamenti accompagnavano anche le “strilla” sull’autonomia della cooperazione da ogni vincolo di partito, mentre il sodalizio restava intatto soprattutto nel soddisfacimento delle relazioni economiche con i poteri pubblici e si esplicava e si esplicano tutt’ora anche nelle indicazioni di voto.
L’evoluzione o l’involuzione che dir si voglia, fu segnata in questi passaggi inoltre da vicende giudiziarie che anche in questi ultimi tempi stanno infliggendo alla cooperazione non poche mortificazioni.
Tutto cominciò da Duina: il primo segnale che una gestione manageriale troppo personalizzata non s s’addiceva ad un movimento cooperativistico a carattere collettivo, fu la vicenda che colpì nel 1977 il presidente nazionale di Legacoop Vincenzo Galletti che con qualche elemento di improntitudine ( o per obbedire ad una pressione politica) obbligò la Lega con una lettera di patronage impegnativo a garantire l’acquisto della società industriale sull’orlo del fallimento, senza avere ricevuto un preciso incarico dagli organismi, costringendo la cooperazione a rimborsare un enorme somma di danaro che contribuì ad un aggravamento della situazione generale. Circa dieci anni dopo in Campania, un altro scandalo locale coinvolgeva l’intera struttura della Lega regionale, nella vicenda denominata delle “cooperative di ex detenuti”, ovvero un’indagine della magistratura scopriva un giro di false fatturazioni, utilizzate dagli uffici amministrativi della Lega e delle altre centrali cooperative, per coprire spese non documentate che sottintendevano una gestione non corretta di danaro pubblico. Anche quella vicenda causò un traumatico rivolgimento non solo nell’organizzazione campana ma produsse effetti negativi anche nella presidenza nazionale, fino a quel momento retta con brillante capacità da Onelio Prandini. Giungiamo al 1992 l’epopea di Mani pulite e le indagini che coinvolsero anche se in misura non particolarmente rilevante il movimento cooperativo, se si eccettua il caso Greganti che tenne accesa l’attenzione dell’opinione pubblica sul sistema degli appalti e delle tangenti anche a sinistra.
Nel 2006, il caso Unipol- BNL divenne paradigmatico delle conseguenze negative che la gestione centralizzata di un enorme potere finanziario nelle mani di alcune persone, dotate di alte capacità e di ancor più elevata spregiudicatezza, in un sistema che deve invece fondarsi sul principio di democrazia economica, non può esistere. Su questo argomento c’è un’ampia letteratura ed ha segnato in maniera indelebile un cambio di fase storica. La sconfitta culturale e anche politica della sinistra in Italia, la perdita di credibilità di un’intera classe dirigente, sono state le conseguenze a lungo termine, anche di quest’operazione che voleva coniugare imprenditorialità d’assalto e conquista dei “salotti buoni della finanza” per una cooperazione che avrebbe dovuto invece, continuare ad occuparsi soprattutto della sua missione economico sociale. Rimando ad un mio scritto agli albori della vicenda che avanzò qualche dubbio di legittimità sul piano dei principi cooperativistici e giuridici, prima che le indagini giudiziarie scoperchiassero tutte le responsabilità, quelle note di chi ha pagato ma anche quelle rimaste nascoste.[4] La sequenza non si è interrotta: passando per Milano e per la vicenda che convolse Penati allora presidente della Provincia ed il Consorzio Cooperative Costruzioni, si è poi sviluppato negli ultimi dieci anni un coinvolgimento sistematico in tutti i più grandi scandali che hanno riguardato il sistema degli appalti pubblici, fino a Expò, Mose e “mafia capitale” con il coinvolgimento di cooperative e strutture aderenti alla Lega. Sembra aprirsi finalmente una fase di ripensamento autocritico, la nuova dirigenza afferma che è necessaria una rifondazione di cui però non si comprendono ancora distintamente i tratti.
Nel caso della cooperazione non è separabile il raggiungimento di buoni risultati economici dalla coerenza etico sociale dei comportamenti che è indispensabile per non compromettere i principi su cui fonda l’esistenza stessa della cooperazione; va da sé che ciò è più difficile in un Paese prostrato sul pieno dell’etica pubblica qual’è purtroppo il nostro.
La cooperazione resta un importante soggetto sociale ed economico del paese, solo se riesce a ritrovare la bussola di una sua rinnovata identità. Ovviamente non si può preconizzare un “ritorno alle origini” della cooperazione eroica ed ideologizzata dei “braccianti e carriolanti romagnoli che bonificarono Ostia costituendovi una comunità anarchico-libertaria” descritta nel bel romanzo di Valerio Evangelisti[5]. Anche in una società moderna, è possibile ridare dignità ad una realtà che avrebbe tutte le potenzialità per poter tornare a svolgere una funzione economica e sociale utile alle lavoratrici e ai lavoratori e al Paese.
4. Rhiot: Narrazioni di graffitismo, mecenati e cooperative
Rhiot è un graffitaro emilano
Se vi capita di fare un giro nei dintorni di Reggio Emilia e vi muovete attraverso le strade di campagna che portano a Parma, potreste incrociare Campegine: un paese che di tanto in tanto si sente nominare nei racconti sulla resistenza. Nelle vicinanze di Campegine visse infatti la famiglia dei fratelli Cervi, uccisi per rappresaglia durante la seconda guerra mondiale. Quella dei Cervi era una famiglia contadina che come tante altre prima della guerra prese parte alla trasformazione del sistema agricolo passando dalla mezzadria all’affitto dei campi. In Emilia, questa trasformazione avvenne anche grazie ad organizzazioni come cooperative, case del popolo, leghe di resistenza: strumenti organizzativi che divennero basilari nelle lotte per il rinnovo dei patti agrari e che portarono ad un effettivo miglioramento delle condizioni di vita nel mondo agricolo.
Nel caso vi trovaste da quelle parti consiglio anche di fare un giro nella zona industriale del paese che, pur non esistendo al tempo dei fratelli Cervi, racconta un altro pezzo di storia della nostra terra. Qui potete trovare i caratteristici capannoni in cemento armato che – in modo del tutto onesto – contestualizzano l’atmosfera bucolica che stavate inutilmente cercando e restituiscono il senso di essere persi in un’eterna periferia suburbana. Se, nonostante tutto, decideste di addentrarvi nell’esperienza e imboccaste via Kennedy, potreste rimanere colpiti da un’ulteriore svolta estetica inaspettata: a fare da contraltare alle linee squadrate dell’architettura industriale si incrocia ad un tratto un enorme murale di 280 metri quadri con sfondo giallo a pois rossi.
Il murale che potete osservare copre interamente la facciata di un capannone. Quando l’ho visto mi ha colpito, oltre che per le dimensioni, per il contrasto tra la precisione nella cura dei particolari e la scelta di soggetti dal tratto istintivo; mi ha fatto pensare a una pittura tribale di epoca moderna. Su internet si legge che il dipinto ‘The invention of time’ è stato realizzato nel tempo record di 36 ore da un graffitaro californiano conosciuto in arte col nome di ‘Zio Ziegler’. In un’intervista, Ziegler racconta di aver dipinto al MoMa di New York, di aver graffitato la sede di Facebook, di aver disegnato una linea di scarpe streetwear e di aver dipinto per altre decine di ‘mecenati’, tra cui uno che si fece pasticciare la macchina abbandonandogliela in giardino. E’ curioso pensare queste cose mentre si gira nella zona industriale di Campegine: luogo ignorato dai più, che tuttavia nasconde al proprio interno un murale già definito da alcuni ‘un santuario dell’arte contemporanea’.
Mi è capitato poco tempo fa di ritrovare una foto del graffito ‘The invention of time’ sulla pagina dello spazio Gerra, mentre ne leggevo la programmazione per il 2015. La foto era affiancata dal titolo di una mostra: ‘DO U C ME?/ 4-6 settembre’. Leggendo, ho scoperto che si tratta di una due giorni collegata ad un premio di streetart promosso da un’azienda del territorio e rivolto agli istituti scolastici di Reggio Emilia e della regione. Il premio include la realizzazione di opere grafiche inedite sui muri della stessa azienda con l’idea di realizzare “una sorta di mostra d’arte a cielo aperto dove ognuno è un visitatore”. La ditta che promuove l’evento si chiama Snatt ed è la stessa sui cui capannoni Ziegler ha realizzato il gigantesco murale.
Se fate un giro sul sito di Snatt noterete che il murale di Ziegler si inserisce all’interno di una sperimentazione chiamata ‘Snattlab’. Nelle parole del board di progetto Snattlab si costituisce come “un’officina di idee, un laboratorio di discussione, di confronto, di ricerca e di sviluppo di tutto ciò che può essere realizzabile ed utile per l’azienda e le persone, la qualità del tempo e della vita di ciascuno. Per l’ambiente, per l’arte, la cultura personale e generale […] una condivisione di intenti in divenire.” Nel sito è possibile consultare un ‘diario di bordo’ virtuale in cui si racconta nel dettaglio l’esperienza formativa che l’azienda ha portato avanti in collaborazione con le scuole. Il tema del concorso “I Vestiti di Kronos” si ispira a quello trattato dal murale di Ziegler: verte sul passare del tempo e sull’evoluzione dell’abbigliamento nel corso degli anni, sul cambiamento nella concezione dei canoni estetici e nella moda nel corso della storia dell’uomo. I primi incontri con i ragazzi delle scuole erano infatti accompagnati da un video (accessibile da Youtube) che racconta ‘The invention of time’ con un linguaggio giovanile e che ricorda alcuni video di graffiti presenti nella rete. Attualmente, il progetto è giunto al termine e a settembre le idee migliori saranno presentate allo spazio Gerra in un evento dedicato all’arte di strada.
Mentre leggevo le informazioni relative a Snattlab riflettevo sul modo in cui graffiti intersecano i rapporti sociali del nostro territorio. Mi sono reso conto che di fronte avevo una serie di istantanee provenienti da ambiti diversi legati al mondo dell’educazione, del mercato dell’arte e dei rapporti lavorativi. Quando ho cercato di ricomporre i pezzi mi sono accorto di aver fatto un percorso, alquanto discrezionale e soggettivo, che si lega ad un’altra storia della periferia industriale emiliana. Questa si svolge nello stesso paese dei fratelli Cervi, nella stessa azienda e parte circa quattro anni prima che Ziegler realizzasse ‘The invention of time’.
Se vi fosse capitato di fare un giro in via Kennedy nel novembre 2010, più o meno all’altezza da cui oggi potete osservare l’enorme graffito, avreste incrociato degli operai in sciopero fuori dai cancelli di Snatt. La ditta è una delle più grandi aziende di logistica del nord Italia per quanto riguarda il settore abbigliamento, calzature e accessori; i suoi capannoni fungono essenzialmente da magazzini per la gestione e la movimentazione delle merci. Dentro ai capannoni lavorano operai che non sono dipendenti diretti di Snatt, ma di cooperative che hanno in appalto la gestione del servizio di facchinaggio. Nel novembre 2010 questi operai stavano presidiando i cancelli di ingresso dell’azienda dopo aver improvvisamente ricevuto notizia della rescissione del contratto tra Snatt e Gfe (Gruppo Facchini Emiliano), la cooperativa per cui lavoravano. La rescissione del contratto era stata comunicata unilateralmente da Snatt qualche giorno prima dell’inizio del presidio e giungeva al culmine di una trasformazione interna che avrebbe segnato la storia della Gfe. Era infatti accaduto durante l’estate che i soci lavoratori avessero approvato un cambiamento relativo alle condizioni contrattuali vigenti nella cooperativa. Le modifiche stabilivano l’applicazione integrale del contratto nazionale logistica firmato dai principali sindacati. Sino ad allora il contratto era da tempo applicato in deroga, il che comportava un salario orario lordo inferiore ai 7 euro (arrivando in alcuni casi anche a retribuzioni di 3,90 euro netti all’ora) e scarse tutele in caso di infortunio, malattia e maternità. Nell’autunno erano improvvisamente nate due nuove cooperative di logistica (Emilux e Locos Job) che, immediatamente dopo la rescissione del rapporto tra Snatt e Gfe avevano riassorbito una parte dei 500 lavoratori di quest’ultima. Le coop. applicavano il contratto nazionale UNCI: una soluzione contrattuale non sottoscritta dai principali sindacati che nella sostanza riportava i lavoratori alla scarse tutele precedenti la modifica dei rapporti lavorativi all’interno di Gfe.
Al presidio era immediatamente seguito un ricorso presentato in tribunale dai 185 lavoratori che avevano rifiutato di essere riassorbiti dalle nuove cooperative. La tesi avanzata era essenzialmente che Snatt avesse rescisso il rapporto con Gfe in maniera illegittima, concedendo la gestione del ramo logistico a soggetti cooperativi non dotati di autonomia propria, ma creati quasi esclusivamente per soddisfare le esigenze del committente. Esigenze che, in questo caso, supportavano l’applicazione di un contratto nazionale meno dispendioso, sebbene questo garantisse anche minori tutele per i lavoratori. In corrispondenza con la presentazione del ricorso si era verificata un’escalation nei toni della vicenda e nell’aprile dell’anno seguente alcuni ex dipendenti avevano intrapreso uno sciopero della fame e della sete. In relazione allo sciopero Silvia Piccinini, avvocato di Snatt, aveva rilasciato un’intervista in cui accusava i sindacati di mandare allo sbaraglio gli operai, di criminalizzare le imprese, di voler influenzare i giudici e di comportarsi come Berlusconi. Silvia Piccinini era all’epoca anche presidente dell’assemblea provinciale del Partito Democratico, nonché responsabile interna del dipartimento giustizia, ma dichiarò che la lettura in chiave politica anziché legale delle proprie dichiarazioni era pura strumentalizzazione.
Nella gestione della vicenda, in attesa della sentenza del tribunale, era intervenuta la politica. Ad un primo incontro negoziale tra i rappresentanti di Snatt e dei sindacati, le Centrali Cooperative, il vicepresidente della provincia Saccardi e l’assessore regionale alle attività produttive Muzzarelli, quest’ultimo aveva inserito a verbale che tra gli elementi essenziali per risolvere la questione era l’applicazione del CCNL sottoscritto da Cgil Cisl e Uil, nonché la riassunzione dei 185 lavoratori al momento esclusi. Snatt aveva chiesto come presupposto per raggiungere un accordo il congelamento della causa giudiziaria in atto contro la società. L’adozione di un verbale comune in cui i partecipanti concordavano di voler procedere con i negoziati aveva portato alla sospensione dello sciopero della fame. Contemporaneamente, 449 lavoratori dipendenti e soci di cooperative operanti in appalto si erano costituiti in giudizio a sostegno di Snatt. Un accordo fu comunque raggiunto al tavolo del 14 luglio 2011 [la prise de la Bastille]. Il verbale riportava che Snatt aveva individuato la possibilità di collocare al lavoro, previa loro messa in mobilità, parte dei soci lavoratori Gfe: l’assunzione rimaneva comunque condizionata al ritiro della causa in tribunale. Le Centrali Cooperative si impegnavano a segnalare con priorità gli eventuali soci Gfe non ricollocati alle imprese proprie associate. L’ultimo punto riportava che Snatt logistica, nel rispetto della propria autonomia imprenditoriale, si sarebbe adoperata per ottenere dai propri appaltatori l’impegno ad un percorso di allineamento alle condizioni economiche del CCNL firmato da Cgil Cisl e Uil, entro il 31 dicembre 2012. Poco dopo, il 20 luglio [la grande peur], il tribunale di Reggio si era espresso a favore della legittimità dell’appalto esistente tra Snatt e le cooperative che avevano sostituito Gfe.
Al 31 dicembre 2012 nessuna delle cooperative che lavoravano per conto di Snatt aveva adottato il CCNL indicato nell’accordo, mantenendo il contratto UNCI. In compenso, lo stesso mese, era nato Snattlab. Quasi un anno dopo, un decreto del ministro Zanonato aveva revocato il riconoscimento dell’UNCI quale associazione nazionale di rappresentanza del movimento cooperativo sostenendo che la stessa non risultava essere più in grado di assolvere efficacemente alle funzioni di vigilanza sugli enti cooperativi associati. Nel gennaio 2014 è stato annunciato che tre cooperative reggiane operanti nel settore hanno adottato il CCNL richiesto dai lavoratori Gfe (nel frattempo messa in liquidazione). Ad oggi, meno di 40 dei 185 lavoratori che promossero la vertenza sono stati reintegrati al lavoro attraverso i canali indicati nell’accordo; le cooperative che si occupano del settore logistica per conto di Snatt continuano ad applicare il contratto UNCI. E’ stato realizzato un graffito gigante e sono state coinvolte le scuole per un progetto di ‘Street Art’ sul cambiamento dei canoni estetici nel corso della storia dell’uomo.
Stasera stavo finendo di scrivere questo intreccio di storie e ripensavo alle diverse trasformazioni che stanno attraversando il nostro territorio. Mi chiedevo quanto, dei collegamenti che mi è capitato di fare, sia il frutto di orientamenti di valore che precedono la lettura della realtà. Mi chiedevo se sia plausibile raccontare una storia in questo modo e se altri trovino sensata questa narrazione dei fatti. Mi facevo domande che forse non presupponevano risposte. Ad un certo punto è tornato a casa il mio coinquilino, un writer odiato dai più. Mi ha chiesto cosa stavo facendo, allora ho colto l’occasione per testare i miei dubbi e gli ho raccontato un po’ di quello che ho scritto qui. Ha ascoltato tutto in piedi vicino alla tavola con gli occhi socchiusi. Quando ho finito mi ha guardato e mi ha detto: “Fanculo a tutti”. Ci ho riflettuto e gli ho risposto: “Sì, però ogni tanto occorre scrivere qualche pagina di parole per spiegarlo perché sennò alcuni non capiscono”. “Meglio così” ha concluso senza pensarci un attimo.
Questo scritto è comparso nella pubblicazione “Reggio Emilia alla rovescia “, presentato nelle due giornate 11 e dodici aprile organizzate dal Laboratorio NOEXPO di Reggio Emilia.
[1] Palmiro Togliatti intervento al convegno dei cooperatori comunisti del 26-28 ottobre 1946, pag.108. da “i comunisti e la cooperazione” storia documentaria.1945-1980 editore De Donato.
[2] Idem
[3] Renato Zangheri, Giuseppe Galasso e Valerio Castronuovo “Storia del movimento cooperativo in Italia 1886-1986” Giulio Einaudi Editore
[4] Critica Marxista n.4 maggio 2005. Sergio Caserta “caso Unipol e identità cooperativa”
[5] Vivere lavorando o morire combattendo. Il sol dell’Avvenire coll. Strade blu. Ed Mondadori
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