La criminalizzazione dei rapporti sindacali tra Fiom e Fiat

| 25 Ottobre 2011 | Comments (0)

Due avvocati della Fiom, Paolo Pesacane e Simone Sabattini, ricostruiscono lo scontro, nello stabilimento di Melfi,  tra Fiom e Fiat tra cariche della polizia e ricorsi al tribunale.

 

La criminalizzazione dei rapporti sindacali tra Fiom e Fiat, se così ci si può esprimere senza un’eccessiva dose di enfatizzazione, è un tema troppo delicato e complesso per poter essere affrontato in maniera tale da chiarire il fenomeno. L’idea sottostante allo scritto è di fornire un contributo alle analisi dei rapporti tra le due compagini, che, in momenti di turbolenza come questi, rendono visibili anche a terzi osservatori aspetti e angoli di visuale normalmente nascosti nelle pieghe delle vertenze.

Proteste davanti alla Fiat di MelfiLa storia che vogliamo raccontare inizia il 19 aprile 2004 a Melfi. Lo stabilimento è in subbuglio. Dopo anni nei quali il conflitto interno è rimasto soffocato sotto il peso della fascinazione del progetto industriale, qualcosa di molto forte si muove.

A seguito dello sciopero dei lavoratori di alcune aziende dell’indotto (Arvil e Magneti Marelli) la Fiat di Melfi assegna “illegittimamente” il senza lavoro a propri dipendenti ed a quelli delle aziende cosiddette terziarizzate. Come immediata reazione ad un clima percepito all’interno della fabbrica come vessatorio e dopo l’iniziale protesta di alcuni lavoratori giunti sin all’ingresso dei cancelli e poi mandati inopinatamente a casa, il coordinamento delle RSU aziendali del turno B della Sata proclama lo sciopero. I lavoratori chiedono la cassa integrazione per i giorni di senza lavoro e l’apertura di un negoziato “serio” sulle ingiuste condizioni di lavoro e sulle prospettive future dei dipendenti dello stabilimento più grande del Mezzogiorno.  Il clima rovente della protesta è determinato da un insieme di fattori: i lavoratori di Melfi sono costretti a lavorare il 20% in più rispetto agli altri stabilimenti Fiat; a fare il turno di notte per 15 giorni continuativi (la cosiddetta “doppia battuta”); e a percepire il 20% in meno rispetto ai loro colleghi in altre parti d’Italia. Nello stesso tempo l’azienda ha provveduto a notificare, nel corso degli ultimi dodici mesi precedenti la protesta, 2.500 contestazioni disciplinari pretestuose e in alcune circostanze mortificanti. Lo stato di agitazione, inizialmente innescato dal coordinamento delle RSU aziendali, trova il supporto della Fiom regionale, della Cgil regionale, e della segreteria nazionale della Fiom-Cgil oltre che di altre sigle sindacali minori. I lavoratori si riuniscono in assemblea permanente dinanzi ai cancelli della fabbrica. Il 26 ottobre la polizia carica i lavoratori inermi. Questa notizia viene riportata da tutti gli organi di stampa nazionali ed internazionali. Ma la carica della polizia non ottiene l’effetto sperato: i lavoratori continuano la protesta.

Il giorno successivo alla carica la Fiat presenta un ricorso ex art.700 c.p.c. al Tribunale di Melfi con cui chiede di adottare tutti i provvedimenti necessari a far cessare l’illecita condotta della Fiom e delle altre sigle sindacali minori, individuate come resistenti, nonché di alcuni lavoratori (diciassette), e l’emissione di quei provvedimenti necessari alla reintegrazione e/o manutenzione della Sata con tutti i mezzi ritenuti necessari. La Fiat chiede in ogni caso l’emissione di un provvedimento che imponga comunque lo sgombero immediato degli accessi stradali e ferroviari allo stabilimento e di tutte le altre aziende del comprensorio. In ogni caso la Sata chiede di inibire e ordinare la cessazione delle turbative e molestie messe in atto suo danno. La Fiat nel suo ricorso chiede ed ottiene dal Magistrato un provvedimento favorevole inaudita altera parte, cioè senza che sul punto vi sia stato contraddittorio, e l’udienza viene fissata a brevissimo: il 5 maggio, mentre la protesta è ancora in atto.

È difficile immaginare come sia possibile che l’Ufficiale Giudiziario possa riuscire là dove non è riuscita neppure la polizia con le cariche. La strategia è quella classica delle azioni di risarcimento del danno e dovrebbe spaventare il sindacato. L’azione cautelare avanzata è infatti funzionale ad una successiva azione tesa all’ottenimento del risarcimento del danno; di fatto, essa viene avanzata quasi per dare una “legittimazione”  ex post alle cariche della polizia che hanno ottenuto la disapprovazione sul piano istituzionale e sociale.

La difesa da parte del sindacato e dei lavoratori evidenzia come non sia stato messo in atto alcun blocco, ma soltanto una protesta pacifica ed un presidio assembleare permanente, che non impediscono l’ingresso al lavoro di chi non aderisce all’agitazione. Il sindacato afferma, inoltre, l’illegittimità del provvedimento reso inaudita altera parte, dal momento che non può essere ritenuta, la Fiom Cgil, la destinataria di un provvedimento che non avrebbe comunque il potere di eseguire o di far rispettare a singoli che, eventualmente, si rendano responsabili di condotte illecite.

Alla fine dei ventuno giorni di protesta e una volta sottoscritto l’accordo con l’azienda a livello nazionale, poi ratificato dai lavoratori, la fase cautelare che era in pieno svolgimento si conclude con una transazione giudiziale con cui la Sata rinuncia agli atti del giudizio ed all’azione risarcitoria tanto nei confronti del sindacato quanto dei lavoratori chiamati in giudizio. Questa rinuncia però non mette la parola fine alla vicenda processuale.

La Fiat ha deciso di muoversi in maniera concentrica tra iniziativa civile e iniziativa penale. E adesso, chiusa la fase civile, rimane pur sempre la questione penale.

Alcune considerazioni preliminari sono d’obbligo. È invalsa la pratica avvocatesca di far seguire al ricorso in sede civile una querela. L’ordinamento non impedisce di scegliere preventivamente lo strumento di difesa e l’attore agisce sul penale facendo leva sulla forza intimidatrice dello strumento sia per l’avversario, sia per il giudice civile, che si trova condizionato dall’idea che una delle due parti abbia commesso un reato. In realtà questo fenomeno si gioca su un equivoco di fondo. La procura della Repubblica, investita dell’azione, è infatti obbligata ad aprire un fascicolo; in tal modo il minimo risultato, quello di far apparire gli avversari come indagati, è sempre raggiunto. Ci sono però degli effetti importanti che seguono a questo tipo di iniziativa e la FIAT li conosce. L’azione penale ha una cifra di politicità molto alta e giunge nel pieno della protesta. In chiave sindacale, il primo effetto è la sensazione di un innalzamento del livello di scontro, generato dall’equazione operai-delinquenti. Il punto merita una riflessione: è nostra opinione che l’azione della magistratura nei conflitti sociali, anche in presenza di fatti di violenza politica, rimanga sussidiaria rispetto all’obiettivo delle parti. Nonostante questo, l’azione della Fiat è seria e soprattutto irretrattabile: quattro esposti giungono, infatti, sul tavolo del procuratore di Melfi, tre provenienti dall’indotto e uno dalla Sata in persona; sono fotocopie le une delle altre, che invocano tutela per gli operai che occupano i pullman organizzati dall’azienda per portare al lavoro coloro che non aderiscono allo sciopero e chiedono unanimemente la punizione per violenza privata di alcuni lavoratori riconosciuti durante un picchettaggio. La violenza privata non è un reato grave, ma la denuncia, una volta depositata, genera effetti non controllabili da parte di Fiat: i lavoratori saranno inquisiti, comunque indagati, e se è possibile anche condannati. A Fiat non sfugge che una condanna per condotte tenute nell’ambito delle relazioni lavorative può diventare giusta causa di licenziamento – questa prospettiva ritornerà nei più noti fatti di oggi – e agisce con forza; non si cura neppure di generare una pellicola di terzietà tra lei e le aziende dell’indotto.

In verità, questa modalità di azione concentrica sul piano processuale penale e civile finisce con l’essere una sorta di precedente, una testa d’ariete, dal momento che, successivamente ai fatti del 2004, anche tra le aziende dell’indotto diviene quasi una prassi invalsa accompagnare con una denuncia sul piano penale le contestazioni disciplinari.

Al pubblico ministero deve giungere forte l’immagine che il tessuto produttivo di tutta l’area territoriale è messo in crisi dall’azione di alcuni lavoratori iscritti alla Fiom. L’accusa in questo senso è grave e giunge anche a chiamare in causa il segretario provinciale della Fiom nella sua qualità di rappresentante legale del sindacato. Il linguaggio usato nella denuncia, dove si addossa la responsabilità di una condotta denunciata come un reato a un soggetto in quanto sindacalista,  è improprio e, anche giuridicamente, il ragionamento non sta in piedi, ma il senso è chiaro e l’azione è diretta a incidere sui prossimi equilibri tra il sindacato e l’azienda.

Il procuratore della Repubblica assegna il fascicolo a un magistrato appena arrivato da Napoli, che delega l’indagine al commissariato di pubblica sicurezza di Melfi. Ed ecco il secondo aspetto: l’indagine della polizia giudiziaria. La polizia comincia, a questo punto, a lavorare su delega del magistrato, chiedendo ai protagonisti la propria versione. È un lavoro delicato mettere a verbale la versione dei fatti di quanto accaduto. Si trattasse di un evento privato, di una questione criminale sarebbe diverso ma tutti hanno chiaro che, attraverso la verbalizzazione, come tale sempre certa e un giorno pubblica, gli si chiede di prendere posizione a favore degli uni o degli altri. Il contesto è quello di operai contro dirigenti o, alla peggio, operai contro operai; non è il caso di sottolineare che il livello di inquinamento probatorio, nel senso di interessi in campo, è massimo. Un altro fronte si apre dentro la fabbrica, per strada, nel Paese.

Il fatto che alcuni lavoratori fossero indagati per i fatti della cosiddetta “Primavera di Melfi” è stato un elemento utilizzato soprattutto strumentalmente, non solo dall’ azienda, ma anche da parte delle sigle non aderenti allo sciopero, per delegittimare la protesta e la lotta dei lavoratori di Melfi. Queste sigle avevano addirittura provato a mettere in campo una contro-manifestazione durante i giorni dello sciopero, in cui si alludeva al fatto che la FIAT fosse una fabbrica e non il teatro per uno scontro politico. Manifestazione che tutto sommato non aveva avuto alcun seguito significativo ed era rimasta sostanzialmente una provocazione. Rimane tuttavia chiaro il tentativo di produrre una rottura nel tessuto sociale, nelle comunità attorno alla valle in cui sorge la FIAT, i cui sindaci con i gonfaloni avevano espresso solidarietà ai lavoratori in sciopero. Non riteniamo che abbia sortito nell’immediato l’effetto che noi supponiamo volesse raggiungere, anche se quell’episodio ha rappresentato uno degli elementi su cui, una volta chiusa quella esperienza, si è cercato di ricostruire il senso e di ridefinire i termini o forse gli stessi esiti di quella vicenda.

L’indagine giunge al termine e la polizia prende posizione a favore della FIAT e chiede al magistrato di procedere per il rinvio a giudizio dei manifestanti. Parte l’avviso agli accusati che le indagini sono concluse e che il pubblico ministero ha intenzione di richiedere il rinvio a giudizio per il reato di violenza privata consistito nei blocchi stradali.

È questo il momento nel quale gli effetti, anche non giudiziari, dell’iniziativa della Fiat si fanno palesi. Il sindacato è obbligato a difendersi peraltro in una situazione in cui il conflitto originario sul posto di lavoro si è già risolto. Tutto dunque si complica e per i lavoratori pare non esserci un’uscita diversa dal difendersi  in giudizio, perché è chiaro che un’eventuale sconfitta davanti al Tribunale penale aprirebbe lo spazio a licenziamenti. Il piano è diverso da quello nel quale si compongono normalmente i conflitti tra azienda e sindacato, più rigido e per nulla nelle disponibilità delle parti. Di fatto è l’aprirsi di un nuovo conflitto, diverso e più radicale senza un tavolo possibile.

Su richiesta della Fiom nel luglio 2006 vengono ascoltati i protagonisti della lotta sindacale; le audizioni sono stavolta davanti al pubblico ministero in persona e ricostruiscono gli eventi accaduti ricollocandoli all’interno di una logica di lotta sindacale. L’equivoco non può ridursi a nulla, non c’è un diritto da vantare che possa prevalere sull’altro in maniera netta. È tutta una questione che si risolve dentro la testa del magistrato a seconda dell’angolo di inclinazione del suo sentire sociale: se penderà verso gli operai allora sarà legittimo esercizio del diritto di sciopero, diversamente sarà un’azione sussidiaria passibile di essere punita come violenza privata.

La riprova che di questo si tratta è data da uno studio sui precedenti giurisprudenziali, di merito e legittimità. Quando, infatti, i tribunali si occuparono di analizzare il diritto al cosiddetto picchettaggio si aprì uno scontro tra la giurisprudenza di merito, cioè le  pronunce dei tribunali sul territorio che sostenevano la liceità del picchettaggio, e la giurisprudenza della Cassazione, che invece ha ritenuto lecite solo un certo tipo di azioni sussidiarie allo sciopero, ribadendo la tutela di coloro che volevano ugualmente accedere al luogo lavoro. Così, per quanto attiene alla giurisprudenza di merito, il tribunale di Pisa in data  28 gennaio 1972 ha assolto gli operai che ostacolavano l’ingresso al posto di lavoro di altri lavoratori al fine di persuaderli alla lotta; il Tribunale di Padova, il 27 novembre 1974, ha considerato lecito il picchettaggio di un gruppo di operaie accusate di violenza privata, che avevano posto in essere “un picchettaggio mediante barriera o catena a braccetto”; il tribunale di Rovereto, il 23 giugno 1980, ha escluso la responsabilità per chi “ha tentato di dissuadere il ‘crumiro’ trattenendolo per il tempo necessario dell’illustrazione delle ragioni dello sciopero”; il tribunale di Torino, il 24 giugno 1981, ha assolto per difetto di violenza o di minaccia i lavoratori in sciopero che avevano posto in essere “una compatta barriera” impedendo l’uscita; il tribunale di Milano, in data 9 febbraio 1981, è giunto alle medesime conclusioni; e così il tribunale di Monza, in data 7 ottobre 1981, rispetto all’opera di persuasione e presidio agli ingressi.

Se, dunque, dovesse unicamente fare fede  questo consolidato filone giurisprudenziale non vi sarebbe materia alcuna per proseguire l’indagine. È, però, altrettanto vero che il percorso giurisprudenziale davanti alla Cassazione è stato assai diverso: a fronte di alcune prese di posizione molto severe nei confronti delle azioni sussidiarie orientate a reprimere tutti gli episodi di violenza, si è giunti nel tempo a rintracciare un equilibrio tra le diverse tensioni costituzionali (quella di lavorare e quella di scioperare), cristallizzatosi in un criterio finanche accettabile che vede punibili condotte di conclamata violenza e minaccia o azioni tese ad impedire totalmente l’accesso allo stabilimento.

Nelle pronunce che hanno confermato le accuse di violenza privata in casi di picchettaggio ricadono tutte quelle azioni in cui avvennero episodi di inequivocabile violenza o minaccia[1].

Nei casi in cui la dialettica tra i contendenti non sia mai travalicata in scontro fisico, la Corte di Cassazione ha statuito che il limite oltre il quale la tutela penale dovesse intervenire fosse quello del “blocco a chiunque superabile solo con la forza o l’opposizione di ostacoli fissi”[2], statuendo che deve essere necessario che “l’ingresso sia stato impedito”[3]. In un’altra occasione, la Corte di Cassazione ha sottolineato che la violenza privata si configura nelle azioni sussidiarie allo sciopero solo se vi sia stata “violenza o minaccia per costringere i lavoratori a desistere dall’accesso al posto di lavoro”[4].

Nello specifico, l’assemblea permanente e la presenza fisica dei lavoratori dinanzi allo stabilimento non costituiva  un impedimento insormontabile per chi avesse voluto andare a lavoro, anche se da parte dei manifestanti era stato imposto che non si transitasse con gli autobus, ma che si procedesse a piedi.

Come è evidente, dagli anni nei quali i Tribunali si sono pronunciati, il clima politico e culturale e il livello di conflitto sociale incidono pesantemente sulla decisione del giudice; in altre parole, la rigidità della Cassazione si può anche spiegare come disinteresse ad una mediazione sul campo, alla quale invece si impegnano anche i tribunali estendendo al massimo la copertura costituzionale di azioni che si compiono nell’ambito di contestazioni sindacali. Ciò – è possibile intuirlo – risponde ad un interesse di gestione dell’ordine pubblico che prescinde, anzi si tiene ben lontano, dalla dialettica tra aziende e i sindacati e al fondo diviene uno dei tanti piani in cui si misura l’indipendenza della magistratura.

Anche la procura di Melfi dimostra questa sensibilità, congela il procedimento, lascia che venga coperto dall’oblio, scommettendo sul fatto che nessuno dei due contendenti si vorrà misurare su quel campo. E vince: nel marzo 2010 richiede l’archiviazione del procedimento, la Fiat non si oppone, il giudice archivia.

Difficile dire se tutto questo abbia portato a qualcosa, se le strategie della Fiat siano state esaudite. Sicuramente si tratta di nuovo metodo di conflitto o comunque di una scelta molto decisa su come agire in caso di conflitto. L’osservatore non sindacalista è portato a pensare che vi sia una volontà di scavalcare il piano delle relazioni con la parte sociale o persino di denunciarlo come accadrebbe in una qualsiasi lite tra cittadini.

È appena il caso di evidenziare come in questa circostanza (come in altre che si sono verificate in questi anni) la durezza della misura posta in atto si misura nell’irretrattabilità dell’azione penale, il cui tramite è l’aver denunciato un reato che non è nella disponibilità negoziale delle parti: la violenza privata, lo ripetiamo, è un reato perseguibile d’ufficio. In una situazione come quella verificatasi durante la “Primavera di Melfi” ciò accadde nonostante la stessa Polizia, che decise di caricare i manifestanti, non avesse proceduto contro di loro. In altre parole l’innesco del procedimento penale e l’iscrizione di alcune persone specificamente individuate avviene esclusivamente per la denuncia della Fiat.

Senza voler dare un eccessivo peso dal punto di vista, per così dire, probatorio a questa circostanza (e cioè che, se fosse stata riscontrata la commissione evidente di un reato, gli agenti avrebbero avuto il dovere di denunciarlo), emerge una realtà inaspettata: la stessa Polizia mantiene distinti i diversi aspetti, quello dell’ordine pubblico da quello giudiziario in senso stretto. La Fiat no.

L’interrogativo più significativo allo stato delle cose riguarda il tipo di inquadramento che questa azione Fiat possa avere all’interno delle relazioni sindacali. Ben sappiamo che lo schema è stato replicato recentemente in un’altra vicenda ancora in corso. Ciò partendo dal presupposto che la denuncia penale reca effetti dopo anni, al finire delle indagini, ma si tratta di conseguenze potenzialmente più gravi per le persone coinvolte, che in caso di condanna vengono licenziate. Un metodo preciso che a nostro avviso va inquadrato all’interno di questo rinnovamento dei metodi di conflitto in corso tra Fiat e Fiom, tentato in un Tribunale di provincia privo di una propria elaborazione giurisprudenziale e di un rapporto diuturno con rapporti industriali e con le relazioni sindacali.

Paolo Pesacane è un avvocato della Fiom di Melfi ed è anche Assessore provinciale delle politiche sociali di Potenza. Simone Sabattini è avvocato e collabora alla Fiom nazionale.

 

 


[1].Cass. pen. sez. V, 5 marzo 1975, Mattei “auto sollevate e prese a calci”; cass. pen. sez. V, 24 gennaio 1979, Canna, “auto prese a pugni”; cass. pen. sez. V, 25 gennaio 1978, Sandri, “pugni, spintoni e locali occupati”; cass. pen. , sez. V, 27 settembre 1979, Bobbio “calci e pugni”; cass. pen., sez. V, 22 febbraio 1980, Sacchetto e altri, in cui è stata contestata anche la resistenza aggravata e le lesioni

[2] Cass. pen. sez. V, 26 giugno 1979 , Filippi

[3] Cass. pen., sez. V, 1 giugno 1979, Cocco

[4] Cass. pen. sez. V, 20 aprile 1982, Serafini

 

 


 

Category: Lavoro e Sindacato

About Simone Sabattini: Simone Sabattini (1974) è avvocato dal 2001. Cultore di Diritto penale presso la Facoltá di Giurisprudenza dell’Universitá di Bologna, ha partecipato come avvocato di parte civile ad alcuni dei più importanti processi a livello nazionale degli ultimi anni: basti citare – tra gli altri – quello contro Mario Lozano, per l’omicidio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e il ferimento della giornalista de «Il Manifesto» Giuliana Sgrena; il processo contro le forze dell’ordine imputate per l’irruzione alla scuola Diaz e quello per le torture nella caserma di Bolzaneto, durante le giornate del G8 di Genova del 2001; e il processo per le morti da amianto degli ex lavoratori della Casaralta e quello delle Officine Grandi Riparazioni Ff.Ss. È stato consulente per la Commissione bicamerale di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, che operò dall’ottobre del 2003 fino alla primavera del 2006.

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