Il difficile rapporto tra sindacato e politica

| 25 Febbraio 2012 | Comments (1)

Il filosofo della politica Carlo Galli sostiene che la Fiom fa bene il suo mestiere in una fase in cui gli estremisti sono al governo e gran parte della politica grava sui sindacati.

 

Mi fa molto piacere essere qui, sia per conoscere di persona Landini, a me noto finora solo sotto il profilo mediatico, sia perché ho avuto occasione di leggere il libro di Franchi Nei panni degli operai, un libro – ricco, documentato e appassionato – che verte non solo su una figura di sindacalista, benché molto importante, ma anche sulla storia della FIOM, della quale rende bene l’esperienza, il percorso – di straordinaria importanza – nella storia d’Italia. E, tuttavia, questo libro va al di là anche della storia sindacale e pone questioni politiche, perché oggi – e questo è il punto per il quale io sono qui – è molto difficile distinguere fra ciò che è vicenda sindacale e la politica generale.

 

Michelangelo - Davide e Golia

Certo, questo libro mostra che spesso non è stato semplice tenere distinto l’elemento del sindacalismo dall’elemento della politica; ma oggi questa difficoltà è ingigantita. E proprio questa difficoltà mi ha fatto riflettere sulla specificità del sindacato; a questa domanda ho dato la risposta che il sindacalismo è essenzialmente concretezza, cioè ha a che fare con il livello ultimo – o primo – della politica, cioè con gli esseri umani nella loro concreta dimensione di lavoro. Mi ha fatto riflettere anche sul fatto che la commistione tra estremismo e sindacalismo, che non è certo di moda oggi ma che ha segnato di sé gli inizi del XX secolo (parliamo dell’anarcosindacalismo, o del sindacalismo rivoluzionario) non ha portato bene né al sindacato né alla causa della sinistra in generale. Il sindacato deve restare a fare i conti con la concretezza che gli è tipica, cioè con l’azienda, con la proprietà, con i rapporti di forza concreti nelle fabbriche, con gli operai. È stato detto da Landini, è stato ripreso nel libro, che il sindacato è uno strumento; affermazione che è improbabile sentire a proposito del partito, le cui finalità e i cui orizzonti sono di solito più ampi.

Ma concretezza non vuol dire che un sindacato deve essere aziendale, corporativo, padronale, subalterno; né che deve avere i paraocchi, guardare soltanto a questioni di bassissimo profilo. No. Concretezza vuol dire che il sindacato è quel punto, quella dimensione, della società italiana, in cui le questioni politiche diventano concrete; non vuol dire che è lo spazio e il momento in cui si nega la politica e si bada soltanto a un risultato di breve periodo, ma che è lo spazio e il momento in cui la politica assume concretezza. Questo ‘assumere concretezza’ ha un valore storico: in una democrazia fondata sul lavoro il sindacato in quanto organizzazione del lavoro, operante nei luoghi di lavoro, è la forza che ha portato verso una tendenziale coincidenza la democrazia, la cittadinanza, il lavoro – il che non è poi qualche cosa di basso profilo –. Il dettato costituzionale si è realizzato (nella misura in cui si è realizzato) grazie al fatto che la nozione di “Repubblica democratica fondata sul lavoro” è stata presa sul serio da qualcuno che, dall’interno del lavoro, ha preteso che il lavoro fosse anche titolo di cittadinanza e non solo un’attività per sostenersi in vita. Quindi si può dire che il sindacato è stato un attore politico fondamentale nella storia dell’Italia repubblicana (anche se la FIOM ha 110 anni), perché ha contribuito alla realizzazione dal basso – la concretezza proprio questo significa – della democrazia del lavoro, che sarebbe più o meno la ragion d’essere della nostra Repubblica.

Ma il sindacato, con la sua caratterizzazione specifica, cioè concreta e dal basso, non è mai stato l’unico attore politico in senso lato che abbia provato a realizzare la coincidenza fra democrazia, cittadinanza e lavoro. Nella storia del nostro Paese, l’azione sindacale è avvenuta per decenni in un contesto in cui questo obiettivo veniva fatto proprio da entità di grandiosa capacità politica, dai partiti di massa, e da un quasi un comune sentire del Paese e delle forze politiche intorno a quelli che si chiamano “i valori della Costituzione”. Insomma, il sindacato non era da solo, e operava, nel livello più concreto, all’interno di una sorta di divisione del lavoro, in collaborazione competitiva rispetto a un universo politico complesso abitato da altri attori politici (i partiti democratici), istituzionali (le istituzioni della Repubblica), e un sistema delle imprese (in realtà era un sistema doppio, quello dell’impresa di proprietà statale e quello dell’impresa privata) che non è mai stato particolarmente ricco di generosità, che è sempre stato più arretrato di quanto sarebbe stato possibile, ma che però, bene o male, si trovava a giocare una partita (nella quale cercava di vincere quando poteva) che gli faceva incontrare il sindacato almeno sulla prospettiva dello sviluppo. Una partita, soprattutto, in cui i protagonisti non giocavano tutti da una parte contro il sindacato, c’era un governo: anche se i governi erano a guida democristiana, c’erano dei ministri del lavoro come Brodolini, come Donat-Cattin (dei quali si parla nel libro) che avevano una capacità di pensare alla democrazia come ad una forma politica inclusiva, nella quale c’era posto per il lavoro, nella quale il lavoro aveva la centralità che la costituzione gli assegna e che le forze materiali del capitalismo e della produzione economica avanzata esigono: non si fa economica moderna contro i lavoratori.

Non stiamo a vagheggiare un lontano passato in cui tutti erano di sinistra, in cui esisteva il Bene comune e tutti erano d’accordo su di esso,  in cui esisteva l’Interesse nazionale, e tutti erano d’accordo su di esso. C’erano – è inutile ricordarlo a voi che c’eravate – conflitti durissimi; ma in questa aspra dialettica resisteva dopo tutto l’idea che esisteva un polo dei lavoratori, che non potevano essere annichiliti; che insomma avevano una consistenza sociale, economica e politica e costituzionale.

Poi questo quadro di conflittualità all’interno di un orizzonte in linea di principio democratico è entrato in crisi: questo assetto, che è l’assetto della prima Repubblica, è tracollato per i noti motivi politici internazionali e per la pesantissima, profondissima, rivoluzionaria ristrutturazione che il capitale – a partire dalla Thatcher e da Reagan – ha effettuato su stesso, sui propri metodi di produzione e sulla composizione della forza lavoro: strategia di diversificazione, di frammentazione, di grande gerarchizzazione interna alla forza lavoro. E questa strategia si è affermata anche in Italia (anche in un contesto, cioè di capitalismo assai poco liberista, se non  a parole), insieme alla crisi della Costituzione e dei suoi valori (l’attuale governo parla il meno possibile della Costituzione, fa come se non ci fosse, e non perde occasione per affermare di volerla modificare). Dentro la crisi generale della forma-Stato (soprattutto come Stato sociale) e delle ideologie, si è affermata oggi un’ideologia, che ci governa, secondo la quale lo Stato è il problema e la forma economica capitalistica è la soluzione (ovvero, è sostanzialmente in grado di autogovernarsi e di produrre un  ordine, o un fecondo disordine dal quale tutti traggono beneficio). Corollario di questa ideologia è che chi non crede in ciò non è un normale avversario ma è un nemico, sabotatore, anti-nazionale.

Accanto alla crisi della fondazione costituzionale, alla crisi dello Stato, alla crisi della sinistra come ipotesi alternativa rispetto al sistema esistente, alla ristrutturazione del capitalismo attraverso le disuguaglianze, è stata di decisiva importanza la crisi dei partiti, che si sono autodistrutti, tutti, come nome, come funzione, come legittimazione. Ne è conseguita la resa della politica alle ragioni dell’ideologia economicistica, o meglio alla potenza reale dell’economia – che è globale e competitiva, a volte, ma più spesso parassitaria, corporativa e collusa con la politica in un rapporto di reciproca corruzione –. La politica, oggi, maschera la propria debolezza strategica facendo la voce grossa con i poveri e i deboli, e presentandosi come nuova patriottica politica finalmente libera dalle ipoteche ideologiche, una nuova patriottica politica fondata su una comunità d’intenti originaria – di questa deriva ideologica della politica a mascherare la sua debolezza reale è un esempio significativo il fatto  che il partito di destra che esprime la maggioranza non si autodefinisce nemmeno ‘partito’, ma si autodefinisce ‘popolo’, come a voler dire che gli avversari non sono legittimi, ma anzi sono nemici del popolo –. Così, in nome di un presunto superamento del ‘teatrino della politica’ la politica, nella forma del populismo a base mediatica,  si sforza di creare le condizioni perché il capitalismo possa autogestirsi.

Il che naturalmente non è né vero né possibile. Il capitalismo ha sempre bisogno di politica; solo, vuole una politica anti-operaia, e in Italia la ottiene da ciò che resta dello Stato, dal regime della destra. Infatti, le difficoltà della politica a non farsi ancella della democrazia interessano tutto l’Occidente, ma questa difficoltà è gestita in modo diverso a seconda dei diversi contesti politici nazionali o statali. Da noi questa difficoltà ha agito in modo devastante perché nel decennio berlusconiano è stata assunta – e qui veniamo al cuore del libro – come l’occasione per chiudere la partita con ciò che resta della democrazia del lavoro, cioè con il sindacato. Infatti, venuti meno tutti gli altri livelli di mediazione politica e istituzionale che abbiamo elencato, che cosa rimane? Resta l’elemento della concretezza, ovvero il fatto che dopo tutto ci sono ancora degli operai, e sono ancora organizzati nel sindacato. La crisi serve come occasione per liquidarli come soggetto organizzato.  Le vie di questa liquidazione sono naturalmente giuridico-contrattuali, ma anche mediatiche (la destra esercita l’egemonia linguistica e culturale, oggi): i sindacati di sinistra, la Fiom, sono dipinti come estremisti, antagonisti, come capaci solo di dire di no e di riempirsi la bocca della retorica dei diritti, invocati a sproposito dato che nessuno li minaccia, come viene dimostrato dal fatto che altri sindacati più pragmatici stanno al gioco, invece che sottrarsi al gioco come i sabotatori della Fiom, che fanno il male degli stessi operai.

Questa narrazione liquidatoria sta benissimo in bocca a una componente padronale arretrata, che preferisce risparmiare sul costo del lavoro anziché migliorare e innovare la produzione (non si può trattare in realtà di risparmio economico, dopo tutto risibile, data la scarsa incidenza del costo del lavoro sui costi di produzione: la vera vittoria è l’incontrastato comando politico nelle fabbriche). Il dato impressionante, però, è che tutto ciò non è in bocca solo a un elemento padronale arretrato, ma anche al ministro del lavoro; è il ministro del lavoro che ha detto con giubilo che Mirafiori sancisce la fine del controllo sociale sull’impresa (posto che ci fosse mai stato un controllo sociale sulla Fiat, che non fosse piuttosto la Fiat a controllare la società);  è il ministro del lavoro che dice che la Fiom vuole la democrazia assembleare permanente mentre oggi va di moda la democrazia rapida e veloce (che non è democrazia, ma plebiscito, il dire sì o no a una domanda fatta da altri). Sappiamo insomma che la Cgil in generale, nelle sue interne articolazioni, e la Fiom in particolare, si è trovata a reggere l’urto di una ristrutturazione non solo del sistema di produzione, ma del sistema politico, e della stessa idea di politica, cioè della forma costitutiva di un Paese.

Questa forma – nelle parole di Marchionne che ha studiato filosofia e sa dire le cose nel modo più radicale – è la seguente.  Esiste uno spirito del tempo, oggettive leggi della storia che non dipendono dalla volontà dei singoli; e chi le interpreta e le segue (come appunto Marchionne) non è una parte, ma, hegelianamente, l’universale, lo spirito del mondo. Mentre chi vi si oppone sarà spazzato via dalla faccia della terra, escluso dalla storia. Come per Hegel Napoleone, così Marchionne si crede portatore non di una possibilità, ma di una necessità, e forse non riesce a comprendere come ci sia chi non capisce l’imperativo categorico del momento: comprimere i diritti degli operai, farne una variabile dipendente del capitale.

Questo vuol dire che non c’è dialogo e che la dialettica si risolve tutta e solo nei  rapporti di forza: le condizioni vanno dettate, e se sono rifiutate la Fiat lascia il Paese. L’interlocutore operaio non è portatore di alcuna istanza oggettiva, le sue sono solo ipotesi di carattere soggettivo parziale, meritevoli di cadere davanti alla oggettività imparziale che nell’impresa si incarna. Questa è la partita, e queste sono le regole (o meglio, l’assenza di regole). Nessuno, meno che mai il governo, deve poter dire che la democrazia non funziona così, che esiste un concetto di dialettica, di confronto, di equilibrio, di mediazione; che esiste un dettato costituzionale, che non si può fare l’economia contro i lavoratori.

È a questo punto che intervengono alcuni esponenti del mondo intellettuale della sinistra, interessati alla tenuta costituzionale di questo Paese, alla democrazia di questo Paese. Queste persone sono scioccate dall’idea che i rapporti dentro una società civile siano esplicitamente teorizzati solo come rapporti di forza, cioè dall’idea che si può prescindere dalla costituzione,  che questa non è l’orientamento del Paese,  che è una variabile che vale nella misura in cui è compatibile con la vera costituzione materiale, cioè il primato del profitto nella sua forma contemporanea, alle cui esigenze si deve adattare.  È questo che ha mosso una serie di persone (fra le quali io stesso, per ultimo) a vedere nella vicenda sindacale qualcosa che va al di là, che la trascende.  In questo mondo intellettuale un tempo si pensava che il sindacato ha la forza, la capacità, l’esperienza per cavarsela, nella dialettica sociale. Oggi, invece, si comprende che – per quanto agguerrito – il sindacato è solo, perché il mondo  che stava dalla parte del sindacato non c’è più, o è debolissimo; e che nei rapporti tra la parte padronale e la parte sindacale si sta giocando una partita che sicuramente non è politica in modo indiretto, ma in modo diretto,  e che investe non solo i rapporti di lavoro, ma attraverso di essi investe direttamente ed immediatamente il tema della cittadinanza democratica.

È questo ciò che qualcuno ha visto, e ha detto, ovvero che oggi è in atto uno squilibrio  che non si limita ai rapporti di lavoro –  anche nel 1955 la Fiom era stata sconfitta, ma poi c’è stata la rivincita nel 1969, proprio perché esisteva ancora la Costituzione, scritta dall’intero popolo italiano perché dentro le sue norme si sviluppino le dialettiche normali, storiche che fanno parte della società civile –. Ma adesso il gioco è cambiato perché se si può dire “ non c’è la Costituzione” questa assenza non tocca solo i sindacati, ma anche me, anche i giovani: insomma, tutti. Questo è il motivo per cui la questione sindacale non è una questione solo sindacale, per cui alle manifestazioni sindacali non vanno solo gli operai ma anche quelli che il lavoro non l’hanno, i giovani, e quelli che chiedono la cittadinanza e i diritti di cittadinanza, così che oggi i sindacati di sinistra sembrano il baluardo di un sistema di diritti che pochi hanno la forza di difendere.

Ora, io credo che non sia equilibrato un Paese in cui gran parte del peso della politica grava sui sindacati. Naturalmente, è necessario che i sindacati sopportino questo peso per quanto possono, ma prima o poi dovranno presentarlo alla politica come una questione che va affrontata a livello generale. Certo, accanto alla questione politica c’è anche il tema del rapporto dei sindacati fra di loro; mi pare di aver capito che esistono forme di convergenza nei fatti, che quasi non possono essere dette, che producono contraddizioni dentro altre confederazioni sindacali. Queste forme di convergenza sono dimostrazione del fatto che non siamo davanti a una strana impuntatura di una casta di sindacalisti che difende il proprio ultimo spazio di riserva indiana che verrà poi spazzato via dalla trionfante civiltà capitalistica, ma che anzi dentro questa ci sono contraddizioni che oggi emergono, e che parlano a tutti, non solo alla Fiom, non solo alla Cgil, ma anche a pezzi di altri sindacati, e – per tornare al tema –  anche a pezzi di culture di sinistra che non sono necessariamente legate al sindacato ma che oggi vedono nel sindacato una trincea di cui, con la stessa determinazione, deve occuparsi anche la politica, che non può lasciare queste contraddizioni solo sulle spalle del sindacato. Perché nelle lotte operaie oggi ne va della libertà e della democrazia per tutti.

Le contraddizioni del presente esigono mediazioni che il sindacato può soltanto indicare ma che devono essere portate avanti dalla politica: il sindacato è il livello più basso della sinistra – che non vuol dire quello gerarchicamente inferiore, ma quello della concretezza –; bene, su questa concretezza si sta sviluppando una battaglia che deve essere fatta propria anche da chi si muove non nelle fabbriche, ma nelle istituzioni, nella società civile. Perché, in questa fase, attraverso il sindacato, la Cgil e la Fiom nel caso specifico, cade o sta la capacità non solo di resistenza ma di affermazione positiva e di rinnovata efficacia della nostra costituzione democratica e repubblicana.

In risposta alle domande del moderatore faccio queste precisazioni. A proposito dell’autonomia della Fiom temo che non ci sia più un problema: è nelle cose, perché non c’è più nessuna forza rispetto alla quale non essere autonomi. Il protagonismo  del sindacato è in rebus ipsis.

Naturalmente protagonismo non significa solitudine. Si pone cioè, la questione delle alleanze: direi con uno slogan che oltre ai partiti della sinistra il sindacato deve guardare alla società civile, ai giovani, e al mondo intellettuale (senza giungere a teorizzare qualcosa come “professori e operari uniti nella lotta”, l’intellettualità di sinistra dovrebbe sapere leggere la valenza costituzionale delle lotte operarie, oggi).

Infatti, a quanto ho capito, la vocazione primaria del sindacato non è diventare un attore politico a pieno titolo, ma è fare i contratti, e farli buoni e, in questa fase, fare emergere una serie di contraddizioni, esprimere una serie di bisogni che trovano poco spazio a livello politico. Non mi è parso che nella Fiom ci sia una volontà di fare politica in senso proprio, in senso autonomo: non per un tabù, ma perché a tale scopo dovrebbe cambiare natura, modalità di lotta e di comportamento, andando oltre la propria stessa storia.

Per quanto poi riguarda il modello emiliano, questo indiscutibilmente esiste, il che non vuol dire che siamo un’isola felice: nondimeno, è difficile negare la specifica qualità e la specifica paternità del nostro tessuto economico, della storia delle nostre relazioni industriali (che hanno avuto anche momenti di sanguinosa durezza), della nostra coesione sociale.  La sfida è capire quanto questo modello resista, oggi; è dimostrare che si fa impresa, si fa società, si fa politica e si fa sindacato meglio con un modello di questo tipo che non con altri. Io credo sia ancora possibile, in Emilia e anche nel resto d’Italia – anche a quelle parti che all’Emilia non assomigliano – organizzare una politica nella quale i rapporti fra l’impresa e il lavoro, pur nella loro costitutiva conflittualità, siano inscritti in una comune idea di cittadinanza –; naturalmente,   a patto che la politica cambi radicalmente segno e qualità della propria prestazione, che cioè si ri-costituzionalizzi. Se non si fa questo, si va nella direzione che vede nell’impresa solo uno spazio privato in cui vige la legge della forza; si va verso un Far West che, anche se piace a Marchionne, non è nemmeno l’idea di tutto il capitalismo italiano.

Allora battere questa cattiva idea, poco lungimirante, e fare emergere in convergenza tutte le idee di capitalismo diverso, di cittadinanza diversa, di condizione operaia diversa, di democrazia diversa da questo Far West: questo è un grandioso obiettivo che io penso sia prima di tutto praticabile qui in Emilia, e che possa essere indicato come obiettivo strategico nazionale, tanto dalla Fiom quanto sperabilmente da tutti i sindacati, quanto infine dalle forze politiche, perché senza quelle non si va da nessuna parte. L’invenzione di un partito in tre mesi l’ha fatta Berlusconi solo in certe circostanze: inventare partiti non è così ovvio; è meglio far sì che quelli che esistono facciano al meglio il loro mestiere.

Io di questo sono veramente convinto, come sono convinto che la Fiom stia facendo, ora, esattamente il suo mestiere, e lo stia facendo bene; oltre tutto, in modo sostanzialmente moderato (nel senso di ragionevole), ben al di fuori dalle tentazioni del sindacalismo rivoluzionario. In realtà la Fiom è espressione di un sindacalismo che vuole arrivare ai contratti e che invece si trova davanti interlocutori estremisti.  Estremista, il sindacato non lo è: un’analisi oggettiva delle sue posizioni mostra che queste sono fondate su un’idea di democrazia ragionevole, su un’idea di condizione operaia ragionevole, e che si scontrano con l’estremismo di una parte della Confindustria (e anzi di qualcuno che dalla Confindustria vorrebbe perfino uscire), e con l’estremismo del governo. Noi oggi stiamo facendo l’esperienza strana che i moderati sono all’opposizione e gli estremisti sono al governo. Non è una cosa consueta, in ambito democratico, e quindi dal punto di vista dell’analisi politica è molto interessante; se come cittadino trovo imbarazzo in questa situazione, come studioso di politica provo una certa soddisfazione dall’analizzare una situazione che vede gli estremisti sedere al governo, e l’opposizione essere portatrice della ragionevolezza, del dialogo.

 

Un intervento di Carlo Galli, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Bologna, registrato in occasione della presentazione del libro di Massimo Franchi «Nei panni degli operai», durante la FestUnità PD il 13 settembre 2011. Il testo è stato rivisto dall’Autore. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista «Inchiesta» luglio-settembre 2011.

 

 


Category: Lavoro e Sindacato, Politica

About Carlo Galli: Carlo Galli (1950) è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Nel 1987 è stato fra i fondatori della rivista «Filosofia politica» (Bologna, Il Mulino) e dal 2005 ne è direttore responsabile. Per la stessa casa editrice ha ideato e dirige varie collane editoriali. Collabora con diversi periodici culturali e politici, ed è editorialista del quotidiano «La Repubblica». Dal 2009 è Presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Tra i più originali interpreti del pensiero politico moderno e contemporaneo, nei suoi studi si è confrontato con gli autori seminali e terminali della modernità, pubblicando volumi e saggi ormai tradotti in diverse lingue. La sua ricerca lo ha condotto, inoltre, a indagare le categorie filosofiche e politiche moderne nella loro trasformazione storico-concettuale in rapporto alle svolte di rilevanza epocale per la storia contemporanea, con una particolare attenzione alle differenze specifiche e alle novità dell’èra globale. Tra le sue opere recenti: Contingenza e necessità nella ragione politica moderna (Laterza, 2009), Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno (Il Mulino, 2010, seconda ed.), Perché ancora destra e sinistra (Laterza, 2010), Non nominare il nome di Dio invano (con Pietro Stefani, Il Mulino, 2011), Il disagio della democrazia (Einaudi, 2011).

Comments (1)

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  1. rocco ha detto:

    Comlpimenti al professore Galli, bellissimo intervento che fa molto riflettere.
    rocco

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