Guglielmo Meardi: La Polonia, un’isola tranquilla nella crisi europea?
Guglielmo Meardi è ricercatore della Warwick Business School, Inghilterra
L’esperienza della Polonia durante la crisi globale appare eccezionale nel quadro europeo: si tratta dell’unico paese dell’UE a non essere mai entrato in recessione, e nel quale il PIL ha continuato a crescere senza interruzione, a una media del 3,4% all’anno tra il 2008 e il 2011. Questa eccezionalità si spiega col fatto che la Polonia è meno dipendente dalle esportazioni rispetto ai paesi confinanti, che il suo sistema finanziario non ancora del tutto moderno non ha prodotto bolle speculative, e che la domanda interna, anche per motivi demografici e per gli investimenti pubblici tramite i fondi comunitari, continua a crescere in modo costante.
Ciononostante, la crisi si è fatta percepire in Polonia, soprattutto nei settori orientate all’export e in quello finanziario. Al livello politico, la crisi ha moderato il precedente entusiasmo neoliberale, e ha condotto alla negoziazione di un “patto anti-crisi” concertato nel 2009 – che però fu alla fine, nel passaggio legislativo, modificato unilateralmente dal governo causando la disdetta da parte sindacale. La legge anti-crisi varata dal governo introdusse in particolare la possibilità di derogare alle norme sull’orario di lavoro tramite accordo aziendale. Questa innovazione ha condotto a un’ondata di accordi aziendali, senza però portare a una modificazione profonda delle relazioni industriali polacche, che continuano a essere caratterizzate da una contrattazione collettiva debole e decentralizzata, con sindacati deboli e rapporti di lavoro opportunistici basati sulla “defezione” (licenziamenti facili, turn-over, emigrazione) piuttosto che sul diritto di parola (organizzazione, rappresentanza e contrattazione).[1]
Gli echi della crisi a livello nazionale
Il fatto che la Polonia abbia evitato la recessione non significa che la crisi non sia stata sentita: in particolare, i lavoratori l’hanno sentita più che gli imprenditori.
Mentre la produzione ha continuato a crescere e i profitti si sono rapidamente accresciuti, tra il 2008 e il 2011, da 86 a 120 miliardi di zloty (dati: Ufficio generale di Statistica, GUS), l’occupazione è calata: la disoccupazione, che negli anni dall’ingresso nell’UE (2004) aveva continuato a calare grazie alla crescita e all’emigrazione, improvvisamente è riemersa, aumentando dal 7% del 2008 al 10% all’inizio del 2012. Tra le cause vi è la crisi sui mercati del lavoro occidentali, che ha ridotto le opportunità di “fuga” per i lavoratori e i disoccupati polacchi. Non si è registrato però nessun ritorno massiccio di emigrati dall’estero, così che l’aumento della disoccupazione in un periodo di crescita richiede una spiegazione più precisa. La Polonia appartiene al gruppo di paesi industrializzati, tra i quali la Spagna e gli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro ha reagito in modo peggiore al cambio di condizioni economiche. Questo appare direttamente legato all’alto livello di flessibilità e precarietà del mercato del lavoro di questi paesi. La Polonia ha un basso livello di protezione dai licenziamenti ma anche e soprattutto il più alto tasso, tra tutti i paesi UE, di lavoratori a tempo determinato sul totale degli occupati: 26,9% nel 2011. Se questo non bastasse, anche la percentuale di autonomi (18%) è più alta della media europea (15%), e da più parte è stato denunciato come si tratti spesso di lavori pseudo-autonomi. L’insistenza sulla flessibilità degli ultimi vent’anni ha fatto dei licenziamenti la risposta naturale degli imprenditori alla crisi, anziché la riduzione dell’orario del lavoro o la flessibilità organizzativa come avvenuto in Germania e, in parte, in Italia. Allo stesso momento, indipendentemente dalla crisi, le aziende polacche hanno continuato il loro processo, avviato dopo il 1989, d’intensificazione del lavoro e di sostituzione del lavoro con tecnologia.
I salari polacchi, al contrario dei profitti, sono stati colpiti dalla crisi e sono rimasti costanti, a livelli reali, nei tre anni 2009-11 (dati GUS). Sebbene la Polonia abbia evitato il crollo dei salari nominali che si è registrato in paesi più colpiti dalla crisi (come le repubbliche baltiche) e i salari nominali hanno tenuto il passo con l’inflazione, la crisi ha interrotto la lenta convergenza coi salari occidentali che era iniziata negli anni ‘90. Il rapporto tra costo del lavoro orario polacco e quello tedesco, che era cresciuto da 0,14 nel 1996 allo 0,27 nel 2008, è poi sceso allo 0,22 nel 2009 (dati Eurostat).
L’industria è stata colpita dalla crisi molto più dei servizi, dell’agricoltura e del settore estrattivo. La produzione industriale ha registrato un calo di occupazione dell’8% nel 2009 e solo una crescita minima nel 2010-11 (dati GUS). L’edilizia è stata toccata dalla crisi ma, grazie a investimenti nell’infrastruttura legati ai fondi strutturali UE e ai campionati europei di calcio del 2012, in modo molto minore che non in Europa occidentale.
Il rapido deteriorarsi del mercato del lavoro è riconosciuto da tutte le parti. Nel periodo precedente alla crisi, la fedeizzazione dei lavoratori in Polonia era diventata una priorità politica e economica, a causa degli alti tassi di rotazione e emigrazione. Questo portava a frequenti aumenti salariali e a concessioni politiche, come prima delle elezioni del 2007. Ma con l’inizio della crisi, la preoccupazione principale è diventata la protezione dell’impiego. La retorica della flessibilità che aveva dominato in Polonia dagli anni 90, conducendo a riforme neoliberali del codice del lavoro nel 1996 e nel 2002, ha trovato così una battuta d’arresto nella sua retorica trionfalistica.
Non c’è stata però nessuna svolta in politica economica. Con l’eccezione del breve governo populista-conservatore del 2005-07, la Polonia è rimasta fedele a una politica di minimo intervento nell’economia, come dalla famosa frase del ministro dell’industria Tadeusz Syryjczyk nel 1990: “la migliore politica industriale è l’assenza di politica industriale”. La Polonia ha introdotto un pacchetto d’investimenti anticrisi nel 2008-09, pari al 2% del PIL, ma inferiore alla media europea e senza nazionalizzare nessuna banca, come avvenuto in diversi paesi occidentali. Il principale cambiamento politico è stato il posponimento dell’adozione dell’Euro, prima programmata per il 2012 ma oramai differita a un futuro lontano. Come ammesso dal presidente della Banca Nazionale Polacca, l’ex-primo ministro Marek Belka, tutte le supposizioni governative sugli effetti positivi dell’Euro per la Polonia si sono rivelate errate.
Ciononostante, si è registrato un cambiamento di clima politico. Il governo di coalizione liberale-contadino, al potere dal 2007, ha abbandonato i progetti neoliberali più radicali e condotto una politica piuttosto centrista, con una certa stabilità nonostante forti tensioni con l’opposizione di destra in seguito al disastro di Smolensk dell’aprile 2010, in cui morirono il presidente Lech Kaczyński e numerosi esponenti dei vertici politici, militari e economici del paese. Al tempo stesso, una nuova opposizione è emersa, con linguaggi diversi. Durante la crisi, il termine “contratti spazzatura”, originariamente usato negli ambienti di estrema sinistra, è diventato rapidamente di uso comune per definire i contratti precari che caratterizzano oltre un terzo del mercato del lavoro – e che fino a qualche anno prima venivano descritti come esempi positivi di flessibilità e libertà. Un nuovo partito, il “Movimento di Palikot” (dal nome del leader Janusz Palikot), simile per molti aspetti al Movimento 5 Stelle italiano, è entrato nel parlamento nel 2011 col 10% dei voti, facendo campagna, oltre che contro il clero, proprio contro i contratti spazzatura e chiedendo che “lo stato costruisca fabbriche” contro la disoccupazione – un’idea che fino ad allora era considerata come comunista. Il Movimento Palikot è in realtà sostenuto da ambienti imprenditoriali ed è veementemente antisindacale, ma nella sua ricerca del voto giovanile di protesta ha contribuito a un cambiamento notevole nei termini del dibattito politico sulla precarietà e la disoccupazione.
Il patto anti-crisi del 2009 e i suoi effetti
La crisi finanziaria globale dell’Autunno 2008 ha rapidamente trovato eco in Polonia, conducendo a negoziazioni tripartite intense su come rispondervi. Dopo l’intervento massiccio di molti governi occidentali, proposte simili sono state sollevate in Polonia. Le prime richieste sono venute dal settore automobilistico, strettamente legato alle economie occidentali e in particolare tedesca. Subito dopo che il governo tedesco varò il suo piano d’investimenti e l’estensione degli schemi di riduzione del mercato del lavoro nel novembre 2009, in dicembre le federazioni metalmeccaniche dei due sindacati principali, Solidarność e OPZZ, si sono unite agli imprenditori dell’Associazione Industriale dell’Automobile per chiedere al governo un intervento di salvataggio per il settore. Quest’azione rappresenta una svolta rispetto alle relazioni conflittuali che prevalevano nel settore: per la prima volta gli imprenditori, che prima rifiutavano ogni trattativa di settore, hanno mostrato un atteggiamento conciliatorio e in favore di uno “scambio politico” col governo.
Le trattative anticrisi raggiunsero presto il livello nazionale e il 13 marzo 2009 sindacati e imprenditori firmarono un patto per un “pacchetto anti-crisi” da sottoporre al governo – il più importante accordo interconfederale dai primi anni ’90. Tra i 13 punti dell’accordo si trovavano l’annualizzazione degli orari di lavoro e incentivi per la formazione continua, ma anche concessioni ai sindacati come l’aumento del salario minimo e limiti ai contratti di durata determinate. Il governo espresse apprezzamento per l’accordo ma quando arrivò a trasporlo in legge, il 1 luglio 2009, lo fece in modo selettivo, procrastinando l’aumento del salatio minimo e riducendo le garanzie per la flessibilizzazione degli orari. La legge anti-crisi, introdotta per un periodo di due anni, ricevette l’appoggio degli imprenditori ma provocò la rabbia dei sindacati e in particolare Solidarność, che ritenne che gli accordi di marzo erano stati violati. Ciononostante, i sindacati si limitarono a dichiarazioni di delusione, senza organizzare proteste significative, pur continuando campagne a favore di aumenti del salario minimo.
Il pacchetto anti-crisi ha avuto effetti misti. Le norme sull’orario di lavoro sono state quelle con più applicazione: oltre 1300 aziende, che occupano oltre un milione di lavoratori (metà delle quali nel settore automobilistico) hanno sfruttato la norma che permette accordi aziendali per la flessibilizzazione dell’orario di lavoro (in particolare, l’annualizzazione dell’orario). Questi accordi sembrano aver limitato le perdite occupazionali nell’industria, anche se manca una valutazione sistematica. Nonostante le critiche dei sindacati contro la legge, a livello aziendale i rappresentanti dei lavoratori hanno mostrato atteggiamenti partecipativi, scambiando flessibilità degli orari per garanzie occupazionali. Nelle aziende senza presenza sindacali, la legge permette accordi con rappresentanti eletti ad hoc. Questa ondata di accordi può sembrare un passo avanti per la contrattazione collettiva, ma non ha avuto effetti più ampi sul clima delle relazioni industriali o su altri temi di contrattazione. Altre misure della legge anti-crisi sono rimaste praticamente lettera morta, come quelle sulla formazione continua (solo 15 aziende per un totale di 55 dipendenti ne hanno fatto uso). I cambiamenti nella regolazione dell’occupazione a durata determinata non hanno ridotto il livello altissimo di questo tipo di occupazione. A causa delle opinioni divergenti sulla legge, una volta scaduta nel 2011, non è stata rinnovata.
Un secondo effetto, più indiretto, della crisi è stato sulla spesa sociale. Il deficit pubblico è aumentato fino a superare il 7% del PIL nel 2009 e 2010, e nonostante il debito pubblico rimanga, al 56,3%, ben sotto la media europea dell’82,5% e al di sotto del criterio di Maastricht, il governo ha proceduto a tagli alla spesa sociale. Dopo aver ottenuto un secondo mandato alle elezioni del 2011, il governo Tusk ha varato una riforma pensionistica che include in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile da 60 (uomini) e 55 (donne) a 67 anni. L’opposizione sindacale è stata durissima, ed è stata occasione per un’alleanza inedita tra I due sindacati rivali Solidarność e OPZZ. Solidarność. Solidarność ha raccolto oltre due milioni di firme per richiedere un referendum, che però è stato rifiutato dal parlamento. Ciononostante, le proteste hanno avuto qualche effetto, e il governo ha fatto qualche concessione permettendo età pensionabili più flessibili per le donne, seppur con penalità. La forte opposizione all’innalzamento dell’età pensionabile delle donne va compresa alla luce della carenza di servizi per l’infanzia in Polonia e la diffusissima abitudine di affidare la cura dei bambini alle nonne: la riforma quindi rischia di colpire il già basso tasso di occupazione femminile (53,1%, ben al di sotto della media UE del 58.5%).
Divergenze settoriali nella contrattazione collettiva
La contrattazione collettiva ha avuto sviluppi diversi a seconda dell’esposizione alla crisi economica.
Il settore del carbone, tradizionalmente molto importante in Polonia, ha in realtà beneficiate dell’aumento del prezzo del petrolio e, dopo due decenni di ristrutturazioni e tagli occupazionali, è tornato competitivo. Allo stesso tempo, una coalizione tripartita tra sindacati, datori di lavoro e governo è emersa a livello politico sulla questione strategica delle emissioni: la Polonia ha post il veto a direttive comunitarie che impongano riduzioni vincolanti delle emission di CO2, che la Polonia potrebbe realizzare solo con la chiusura delle centrali a carbone. Ma nonostante questo accordo interclassista sull’ambiente, le relazioni industriali sono rimaste conflittuali. I sindacati sono passati all’offensiva, dati i rapidi aumenti di produttività, e hanno ottenuto aumenti salariali ben al di sopra dell’inflazione (nel 2011, 30% rispetto a una media nazionale di solo il 5,4%, secondo dati GUS). Aumenti salariali notevoli si sono registrati anche nel settore energetico.
Anche il settore pubblico ha registrato offensive sindacali, soprattutto nella sanità. La spesa pubblica per la sanità in Polonia è tra le più basse dell’UE (4% del PIL nel 2007, contro una media europea del 6,7%, dati della Commissione Europea), e c’è una forte pressione politica perché aumenti. Negli anni precedenti alla crisi, l’emigrazione del personale medico e infermieristico si era tradotta in mobilitazione sindacale per aumenti salariali, con notevoli risultati. Nonostante il peggioramento delle condizioni delle finanze pubbliche, la spesa sanitaria non è stata tagliata dopo il 2007 e i sindacati hanno mantenuto la loro pressione per il miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro. I medici hanno avuto maggior successo, ma anche le infermiere hanno raggiunto un importante contratto collettivo nel 2010. In generale, nel settore pubblico si è registrato un notevole aumento degli scioperi dal momento dell’ingresso nell’UE.
La situazione è più complessa nell’edilizia. Il settore dell’edilizia abitativa ha sofferto, mentre quello delle infrastrutture ha continuato a crescere. Il settore edilizio polacco ha sofferto di una fortissime emigrazione verso l’Europa occidentale e nonostante la crisi europea non si è registrato un rientro significativo di lavori edili. Quando nel periodo 2004-07 la carenza di lavoratori aveva prodotto aumenti salariali a catena, i datori di lavoro, anziché negoziare un contratto di settore, scelsero di far ricorso a immigrati da Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Asia. Anche se furono emessi solo 35.000 permessi di lavoro, i sindacati stimano che 300.000 stranieri lavorino in nero nell’edilizia. Il settore rimane pertanto disorganizzato, con associazioni datoriali frammentate, sindacati molto deboli e una forte incidenza del lavoro sommerso.
Il settore dell’automobile è stato quello più colpito dalla crisi europea: rappresenta metà delle esportazioni polacche ed è dominato da aziende multinazionali. Dato che la produzione è in gran maggioranza per l’export, la domanda interna non è stata sufficiente a evitare un forte calo della produzione, del 20% nel 2009. Dopo un periodo in cui in Europa prevalevano le delocalizzazioni da Ovest a Est, la crisi ha rivelato una maggiore insicurezza dell’occupazione nelle fabbriche polacche che non in quelle occidentali, che spesso possono beneficiare di appoggi politici. Nonostante il settore automobilistico sia stato quello con il maggior uso di accordi aziendali sull’orario di lavoro, a livello di settore non si è registrato nessun progresso verso contratti di categoria.
Infine, nel settore dell’acciaio si è registrata una grave crisi delle relazioni industriali.[2] La siderurgia è un’eccezione in Polonia per aver avuto alcuni importanti accordi di settore tra il 1998 e il 2003, e per un tasso di sindacalizzazione al 60% (contro una media nazionale del 15%) con tradizione di forte militanza (ad esempio uno sciopero di due mesi all’acciaieria di Varsavia, allora di proprietà Lucchini, nel 1994). Accordi di settore e aziendali firmati nel 2003 e 2004 prevedevano garanzie occupazionali fino al 2009, quando sarebbero dovuti essere rinnovati. Ma una volta arrivati al 2009, i datori di lavoro si sono rifiutati di negoziare nuovi accordi e hanno proceduto a licenziamenti unilaterali, di circa 10.000 lavoratori alle acciaierie ArcelorMittal (che rappresentano il 70% della produzione di acciaio polacca). Dopo aver proceduto ai licenziamenti, nel 2010 l’ArcelorMittal ha proceduto a riassumere metà dei licenziati tramite agenzie interinali, con minori garanzie occupazionali e salariali: la crisi veniva quindi sfruttata come occasione per una notevole precarizzazione delle condizioni di lavoro.
Fine dell’euforia di mercato?
Nonostante una performance economica relativamente positiva, la Polonia ha sofferto della crisi tramite cali occupazionali, stagnazione salariale e tagli alle pensioni. Gli effetti della crisi sono stati però molto diversi tra settore e settore, a seconda del livello di integrazione nei mercati internazionali. Le risposte polacche sono state caratterizzate da dialogo sociale parziale (con l’accordo interconfederale del 2009, in parte disatteso dal governo) e proteste frammentate. La difficoltà tradizionale di imporre un tavolo di contrattazione ai datori di lavori a livello d’industria permane, e anzi, in uno dei pochissimi settori dove questo tavolo esisteva, la siderurgia, questo si è infranto con l’inizio della crisi.
A livello simbolico, però, questi cambiamenti segnalano la fine dell’euforia di mercato in Polonia, il paese che aveva iniziato per primo la “terapia dello shock” di trasformazione capitalistica nel 1990. La ristrutturazione tramite integrazione nei mercati globali si è rivelata non essere necessariamente benefica, data l’esperienza dei settori automobilistico e siderurgico. La flessibilità finora celebrata come fattore di competitività si è rivelata preparare il problema della precarietà per larghissime fasce della popolazione. E mentre la riforma e semiprivatizzazione delle pensioni del 1998 era passata senza incontrare resistenza, la nuova riforma del 2012 ha causato le proteste sindacali più forti degli ultimi vent’anni. Anche se la crisi non sta avendo in Polonia gli effetti devastanti di altri paesi europei, il paese è sempre più alla ricerca di risposte politiche a un modello economico dai gravi scompensi sociali.
[1] Cfr per una panoramica generale: G. Meardi, Social Failures of EU Enlargement: A Case of Workers Voting with their Feet. London: Routledge, 2012.
[2] Per l’informazione sull’acciaio, sono grato a Vera Trappmann per la sua collaborazione.
Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio Europa