Giuseppe Ciarrocchi, Gabriele Polo: L’esperienza della formazione Fiom alla Ca’ Vecchia di Sasso Marconi

| 13 Marzo 2016 | Comments (0)

 

 

Da tempo la parola “formazione” è diventata prepotentemente di moda. Il contesto sociale, culturale, professionale che ne caratterizza la domanda e l’offerta è pressoché infinito.

Basta un “clic” sulla rete e si può trovare un mondo a disposizione. Cataloghi, scuole, enti, eventi, seminari, work-shop, corsi dai molteplici significati e dalle innumerevoli discipline di riferimento, si moltiplicano in esposizione come sugli scaffali di un grande centro commerciale, ricco di luci attraenti e abbaglianti per un “mercato” enorme da conquistare e per un business ricchissimo, pubblico e privato.

Accanto a una formazione più classica e istituzionale, c’è tutto un fiorire di “prodotti” dalle mirabolanti promesse per individui, aziende, amministrazioni, organizzazioni.

In questo scenario spuntano nuove figure, che “parlano” rigorosamente inglese: executive coach, trainer coaching, strategic e branding management o altre ancora, che dietro possenti curricula trasformano un semplice colloquio individuale in un’attività di “coaching one to one” e promettono di “…..potenziare notevolmente le capacità personali, amplificare l’efficacia personale e professionale, quella della propria organizzazione, ottenere il vantaggio competitivo…… per fare meglio e diventare di più” (citazione testuale di “un’offerta tipo” reperibile in rete). Motivazione, creatività, cambiamento, innovazione tutte al servizio dell’ideologia della competizione e dell’essere vincenti.

Per lenire i mali della crisi, della società “liquida” e dalla perdita di identità sociale e personale, ecco la medicina somministrata da moderni stregoni, quasi come una pozione magica e miracolosa. Tecnica e strategia commerciale fanno da supporto a un’abile manipolazione che trasforma un processo delicato e complesso, quello formativo, in un “brand” di fascino e di sicuro successo.

Nonostante questo panorama, l’esperienza sperimentale messa in campo dalla Fiom con il progetto di formazione “La testa, le braccia e il cuore” rivolto al gruppo dirigente nazionale e territoriale, ci dice che è possibile un’attività formativa pensata e realizzata diversamente.

Una “meccanica pensante” dove maneggiare con spirito e cura sartoriale, da artigiani della materia, una stoffa intrecciata di sogni e passioni, soggettivi e collettivi, capace di raggiungere la finalità semplice e allo stesso tempo difficile di ogni atto formativo: l’apprendimento e il cambiamento, dentro la condivisione di un gruppo e il piacere di viverlo insieme.

Facile a dirsi, molto meno a farsi.

Lo scopo non è costruire e trasmettere dottrine e linee di condotta già confezionate, ma creare le migliori condizioni di una ricerca comune per capire, crescere e cambiare.

In un recente libro di Massimo Recalcati, “L’ora di lezione”, l’autore scrive che “…il vero cuore della scuola è fatto di ore di lezione che possono essere avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde…”. In piccolo, vale lo stesso per la formazione.

Il lavoro e la sua dignità, un’eredità nobile e pesante da portare dentro un’organizzazione che ha attraversato il ‘900, la Fiom, soggetto sociale in grande trasformazione generazionale e culturale alle prese con le trasformazioni radicali e rapide del mondo globalizzato e del lavoro al suo interno. Questo il tema. Per un’identità individuale e collettiva a cui conferire linguaggi, pratiche, conoscenze in grado di generare futuro, nella fase storica in cui il pensiero dominante ci condanna a un eterno presente.

A Ca’ Vecchia (presso Sasso Marconi), tra luglio e dicembre 2015, abbiamo provato a dare forma a questa idea, facendo un’esperienza per certi versi nuova e inedita, per altri che riprende l’eredità delle vecchie scuole quadri sindacali e politiche. Un corso-pilota che – oltre a essere servito ai partecipanti – ha fornito alcune indicazioni di carattere più generale.

I protagonisti sono stati 22 giovani dirigenti delle Fiom territoriali – donne e uomini, provenienti da dieci diverse regioni – cui è stato proposto di partecipare a una costruzione comune, cioè a una formazione intesa come crescita condivisa, in collaborazione e comunicazione con gli altri; l’esatto opposto di ciò che solitamente si vende oggi, la formazione come business che fornisce strumenti a individui “soli” in competizione tra loro.

Il corso è partito con qualche aspettativa ma non senza parecchi dubbi. Da un lato curiosità e disponibilità, dall’altro una certa diffidenza sull’utilità di un’iniziativa decisa “dall’alto”, cioè dalla Fiom nazionale.

La curiosità era soprattutto per gli “altri”, come se gli altri territori e gli altri compagni fossero dei mondi sconosciuti da esplorare, segnalando così una prima questione da affrontare, un primo obiettivo da conquistare: la Fiom viene recepita al suo interno come insieme di realtà separate, molto meno come comunità. L’altra spinta positiva, una vera e propria ossessione di questi tempi, è stata l’interesse per la comunicazione: un po’ perché questo è il mantra prevalente oggi – come se la comunicazione risolvesse tutto, come se fosse una tecnica che va al di là del merito e non una costruzione che, al meglio, può solo raccontare e spiegare la realtà -, un po’ perché diventa un facile alibi per i limiti culturali e le difficoltà politiche: “il problema da risolvere è che non riusciamo a comunicare bene…” è stata una delle frasi più ricorrenti in sede di avvio del corso e di sua progettazione.

Sull’altro piatto della bilancia, la diffidenza e le resistenze a mettersi in gioco. Ostacoli che sono la somma di diversi fattori: dalla tendenza a considerare la formazione un momento di apprendimento passivo di nozioni alla percezione d’isolamento sindacale concependosi spesso come minoranza, eredi di un passato – glorioso e mitizzato (e proprio per questo conosciuto molto a spanne) e al tempo stesso pesante o superato, che nel migliore dei casi si spera “ritorni” in qualche nuova forma.

Non è paradossale che queste resistenze emergano in giovani sindacalisti che non hanno vissuto direttamente la sconfitta e i ripiegamenti degli anni 80, ma “solo” le sue ripercussioni. Sono cresciuti e si sono formati in tempi in cui il lavoro e il sindacato sono stati dipinti e raccontati come residuali: questo li ha portati a essere dei “bastian contrari” assolutamente saldi nella propria decisione di esserlo, ma altrettanto fragili nella possibilità di manifestarlo, se non come testimonianza. Alla fine si tende a chiudersi un po’ – anche dentro l’organizzazione – e si rischia di guardare un po’ tutto e tutti con sospetto. E, allora, certo che “non si riesce a comunicare”.

Da questi punti di partenza, strada facendo, il clima è cambiato. Si è sciolto. I corsisti si sono “aperti” e, in buona parte, si sono appassionati; al punto da diventare, alla fine, apologeti della “formazione continua”. Cos’è successo? Cos’è cambiato? Stando ai report e alle discussioni finali hanno trovato quello di cui avevano più bisogno e che l’organizzazione non riesce a dar loro nel lavoro quotidiano. Un dato soggettivo non irrilevante, visto che la vita dell’organizzazione per loro è tanto invasiva da occupare la parte più rilevante delle loro giornate e della loro vita (cosa che, tra l’altro, li distingue e li “separa” dai loro rappresentati, che considerano il lavoro molto meno centrale di un tempo; cosa che rischia di diventare un bel problema per un dirigente sindacale, l’anticamera della burocratizzazione).

Quel che hanno trovato è stata una relazione stabile, una comunità. Naturalmente alcuni più e altri meno, a secondo della loro soggettività; ma questa “scoperta” ha attraversato e accomunato tutti i partecipanti, facendone un gruppo alle prese con una costruzione comune, libera da vincoli di ruolo, creativa.

Rivelatrici, a questo proposito, sono state le ricorrenti critiche a quelle che venivano definite le “liturgie” dell’organizzazione, dei suoi Comitati centrali o dei direttivi zonali, fino alla vita quotidiana della Fiom: relazioni tipiche di un “luogo freddo”, in cui la crescita e l’apprendimento – cioè il venire a contatto con la realtà che muta ogni giorno, le sue difficoltà e la necessità di affrontarle con l’ambizione di cambiare il mondo – sono sottoposte a regole (spesso informali, che pesano ancor di più) che frustrano la creatività. Il corso di formazione è stato invece vissuto come un “luogo caldo” che permetteva l’accesso alla conoscenza e la crescita di tutti e di ciascuno; un calore nutrito soprattutto dalla libertà d’esplorazione (degli altri, e attraverso gli altri, di se stessi).

Da questo punto di vista, una formazione basata su relazioni “calde” – nel concreto su costruzione e condivisione della conoscenza, non sulla trasmissione di nozioni o di tecniche -, a lungo andare, non solo ha la possibilità di costruire un sapere comune, come base di un gruppo dirigente, ma persino di incidere sull’antropologia dell’organizzazione.

Naturalmente per il successo di un corso di formazione – perché sia utile e ne rimanga traccia nella mente e nella pratica di chi lo frequenta… o più banalmente, come dicevano i nostri nonni semianalfabeti quando ci mandavano a scuola, perché siano “soldi ben spesi” – è fondamentale il merito di cosa viene comunicato e “insegnato”; la qualità del corso e dei suoi docenti. L’esperienza di questo corso sperimentale, da questo punto di vista, è stata sicuramente privilegiata, attingendo a un patrimonio e una storia di relazioni che solo i metalmeccanici e la Fiom in particolare possono vantare. Lo testimoniano i nomi dei relatori e i titoli delle lezioni; o il ricorso a supporti formativi articolati, dai film ai documentari, dalla letteratura alla pubblicistica. Tuttavia la cosa più importante non è stata cosa è stato “insegnato” ma come è stato fatto. Quel che ha trasformato le nozioni (che restano semplici fatti) in conoscenze (che possono generare azioni e cambiamenti) è stato il metodo di lavoro. Le discussioni “fitte” con i docenti, la possibilità d’interloquire, il confronto “aperto”, le esercitazioni individuali che diventavano collettive nell’intrecciarsi tra loro, con la sapiente regia di una tutor d’aula esperta in dinamiche di relazione. In particolare proprio le esercitazioni sono state quelle in cui ciascun corsista ha potuto confrontare la propria esperienza e pratica quotidiana con “l’insegnamento” che gli veniva impartito: la contrattazione in una piccola azienda delle valli lombarde con i 35 giorni dell’autunno ’80 alla Fiat; il comunicato sindacale da passare alla stampa locale con i meccanismi che governano i mass media; come si prepara e gestisce un’assemblea di reparto o di fabbrica con la comunicazione informale che scatta in un grande evento di piazza; l’analisi di un bilancio aziendale con i macro-sistemi dell’economia globale; la contrattazione in azienda con lo stato delle relazioni industriali in Europa.

Infine, ma non da ultimo, tutte le giornate del corso sono state attraversate da una “spinta etica”, da “lezione morale”: fare il sindacalista non è un lavoro, non è un modo come un altro di sbarcare il lunario, almeno nella Fiom e quindi la formazione di un sindacalista Fiom non può che avere una forte connotazione culturale. Quel po’ di tecnica contrattuale e giuridica che è necessario conoscere, ma innanzi tutto tanta politica (intesa come polis), qualche “mezzo” ma soprattutto tanto “senso”. Un vero e proprio terreno identitario da indirizzare verso chi si deve rappresentare, tenendo sempre presente che sono loro i titolari del mandato e “noi” solo un tramite dello stesso. Che la condivisione della condizione della parte di società che si vuol rappresentare è la molla essenziale per un sindacalista e per costruire la cultura comune di un sindacato. Cosa non irrilevante nella costruzione di un gruppo dirigente in una realtà governata da rapporti di potere che spingono in senso inverso; per contrastare e battere quella disgregazione individuale arrivata fin dentro l’organizzazione sindacale e con cui il corso ha dovuto fare i conti fin dal suo inizio.

E, così ritorniamo al problema del metodo, a una lezione per il prosieguo di quest’esperienza formativa. I corsisti  di Ca’ Vecchia hanno appreso un po’ di cose che non sapevano, hanno studiato bene, hanno avuto un’esperienza di lavoro di gruppo in cui, alla fine, più che il lavoro è diventato essenziale il gruppo. Ciò a cui dovremmo cercare di tendere per il futuro è una maggiore messa in gioco di ciascuno e indirizzare maggiormente anche l’attività formativa verso il rapporto con i “titolari del mandato”; magari sperimentando anche forme d’inchiesta sulle condizioni di lavoro e sul punto di vista dei lavoratori dei territori di provenienza. Magari nasce qualche nuovo Raniero Panzieri, di sicuro si costruisce una pratica comune e solidale dentro e fuori l’organizzazione

 

Category: Lavoro e Sindacato, Scuola e Università

About Gabriele Polo: Gabriele Polo (San Canzian d'Isonzo, 1957) è un giornalista italiano, è stato direttore del quotidiano il manifesto dal 2003 al giugno 2009, diventandone poi direttore editoriale, oltre che commentatore e inviato. In gioventù è militante di Lotta Continua e poi tra i promotori nei primi anni '80 del gruppo Lotta Continua per il Comunismo. Inizia la sua collaborazione al manifesto nel 1988 di cui è stato direttore dal 2003 al giugno 2009- Attualmente dirige il giornale on line I mec. Tra i suoi ultimi libri: , Il mestiere di sopravvivere, Editori Riuniti, 2000 , Diciottesimo parallelo, la ripresa del conflitto sociale in Italia, Manifestolibri, 2002; Ritorno di Fiom. Gli operai, la democrazia e un sindacato particolare, Manifestolibri, 2011.

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