Francesco Garibaldo: Recensione del libro di Giuseppe Berta su Detroit

| 13 Aprile 2020 | Comments (0)

 

Giuseppe Berta – Detroit. Viaggio nella città degli estremi – Il Mulino, 2019; pp. 235

Recensione di Francesco Garibaldo – Febbraio 2020

Il bel libro di Berta su Detroit raccoglie in poco più di 200 pagine una grande diversità di temi tenuti insieme da due fili conduttori che avvolgono la storia del territorio urbano di Detroit. Il primo è l’industrialismo e il suo cuore l’automobile, l’industria delle industrie secondo la celebre definizione di Peter Drucker. Il secondo è la storia di Detroit come una dei teatri del radicalismo americano del ‘900 e culla del suo sindacalismo industriale. Lo sguardo che tiene insieme il tutto è quello dello storico.

De te fabula narratur (1)

Il primo tema affiora molte volte nel libro ma è l’ossatura del primo e dell’ultimo capitolo, e del poscritto, che è il frutto di un secondo viaggio a Detroit nel 2019 dopo il primo del 2018. Il tema, pur nella prospettiva storica e rifuggendo da facili e fallaci analogie tra Detroit e Torino, in realtà rappresenta una riflessione politica sul presente e sulle sorti dell’industria automobilistica. Una riflessione che parla degli USA ma parla anche a noi e agli attori politici e sociali italiani ed europei.

Il disastro di Detroit non è paragonabile a nessuna situazione europea ma commenta Berta:

eppure, negare a priori che Detroit abbia qualcosa da dire anche sul nostro presente e futuro prossimo sarebbe unerrore (p.17).

Che cosa ha da dirci, quindi Detroit?

In termini immediati due cose.

La prima: l’auto e la mobilità non saranno più come prima (…) il settore dell’automobile non è più ‘l’industria delle industrie’(p.184). È iniziata una transizione tecnologica e industriale che porta a una visione della società in cui non crescerà più il numero dei veicoli, grazie a un vasto ricorso al car sharing, facilitato dalle piattaforme elettriche e dalla guida autonoma (p.197). La transizione è stata invocata dal capitalismo californiano, il cui rappresentante eponimo è Musk con delle auto – la Tesla – il cui concept progettuale le avvicina più a un iPhone che a una vettura tradizionale (p. 198). I californiani sono in competizione con il capitalismo di Detroit che rivendica la funzione indispensabile del proprio sistema di competenze, a suo giudizio, ineliminabile laddove occorra organizzare un processo di produzione su larga scala (p. 198). Ma, aggiunge Berta a ben vedere Musk è a suo modo un industrialista, in versione Ventunesimo secolo, e quindi la sua traiettoria non comporta l’estinzione dell’America industriale (p.199). Si può quindi immaginare un ibridazione delle due culture a due condizioni. La prima è quella di immaginare una nuova industria della mobilità, dall’intonazione meno manifatturiera e con un più ampio contenuto di servizio. La seconda, molto importante, è che il settore dell’auto: dovrebbe cedere il posto alla generazione di un’offerta sempre più ampia di mobilità, erogata dai produttori d’auto in concorrenza o in cooperazione coi nuovi imprenditori digitali (p.199).

In conclusione, per questa prima parte di insegnamento ricavabile dalla storia di Detroit, siamo non a un semplice processo di trasformazione – ammodernamento dell’industria dell’auto, ma a una cesura, una discontinuità rispetto alla concezione novecentesca dello sviluppo produttivo dell’automobile così come l’aveva esposta Drucker (p.200). La cesura riguarda tutti gli aspetti di quella modellizzazione: l’idea di business, le sue procedure interne, e i confini dell’attività industriale dell’auto, come già si fa con il concetto di ecosistemi industriali. Gli stessi contenitori industriali scandiscono i momenti di trasformazione dell’industria dell’automobile. Berta visita i tre luoghi storici della produzione automobilistica, i luoghi della produzione del modello T, cioè la fabbrica di Piquette Avenue e lo stabilimento di Highland Park, produttivo dal 1910.Infine, a Dearbon, dove,all’inizio degli anni ’20 del ‘900, nello stabilimento di River Rouge , chiamato il Rouge, si produceva il modello A.

Il libro, utilizzando la preziosa ricostruzione storica di J.B. Freeman (2), evidenzia come ad ogni trasformazione del prodotto e del mercato divenisse necessario una trasformazione anche della struttura materiale dell’impresa. Dice Freeman a proposito dell’ultimo grande impianto, River Rouge, voluto da Ford e realizzato dal grande architetto industriale Albert Kahn, che esso rappresentò non una ma due rivoluzioni nell’architettura industriale. Invece che edifici multipiano [ come Higland Park e il Lingotto ], al Rouge Kahn e Ford eressero una fabbrica ad un solo piano e molto estesa per evitare il costo di sollevamento del materiale e per realizzare uno spazio maggiore senza interruzioni, dato che le colonne per sostenere i piani superiori non erano più necessarie. Le ampie aree aperte davano agli ingegneri flessibilità nel posizionamento delle macchine, aiutati dalla decisione dell’impresa di smettere di utilizzare alberi e nastri sospesi per fornire potenza alle macchine, sviluppando invece motori elettrici individuali (p.139). Inoltre questa soluzione non richiedeva più l’uso del calcestruzzo, come negli impianti multipiano a causa delle vibrazioni, ma di strutture in acciaio che potevano essere montate più rapidamente e consentivano un uso più esteso di coperture vetrate per fare passare e meglio distribuire la luce.

Il gigantismo poi di queste strutture era legato alla centralizzazione di una larga parte delle operazioni manifatturiere e di gestione, oggi inconcepibile nel nuovo schema delle reti di impresa.

La seconda cosa che ci dice il caso Detroit riguarda l’idea di transizione e i suoi costi sociali. Berta riesce a mostrare con grande chiarezza i due lati della medaglia. Da un lato infatti la crisi, la transizione può essere un’opportunità che a Detroit viene colta. La Ford, che cerca un futuro nella mobilità e la General Motors nel suo Renaissance Center (centro per o della rinascita, abbreviato in RenCen) con le sue sette torri scintillanti, hanno raccolto la sfida della transizione e attirano nuovi talenti anche su scala internazionale; i quartieri storici abbandonati e degradati dalla crisi tornano a essere quartieri residenziali (gentrification). Ma, ci avverte Berta: quando si esce dai laboratori che custodiscono i progetti dell’industria del futuro, allorché le auto saranno dirette dalle mani invisibili dell’intelligenza artificiale, dotate dei mezzi per raccogliere e filtrare la massa smisurata delle informazioni prodotte dall’ambiente circostante è impossibile non chiedersi come questi sofisticatissimi dispositivi tecnologici potranno migliorare la condizione che sconta una percentuale troppo elevata degli abitanti di Detroit. Quali vantaggi potranno trarne tutti quelli che hanno ricevuto un’educazione appena sommaria e spingono il carrello delle scope al RenCen o servono il caffè ai tavolini sotto le palme(…)? (pp. 205-206).

Il rischio è quello di una società con diseguaglianze ancora più stridenti con una nuova e diversa divisione tra chi ha e chi non ha, una divisione nella quale: l’avere, il possesso, non indica tanto una quota di beni tangibili bensì piuttosto l’accesso alle fonti della conoscenza, le chiavi di ingresso ai lavori di qualità, ben remunerati, e agli agi di una vita non soverchiata dal gravame delle incombenze materiali. E allora gli attivisti sociali che fanno politica in posti come la Wayne County come possono conquistare il suffragio popolare s non invocando misure ‘socialiste’ quali la sanità e l’istruzione gratuite per tutti e un salario minimo di 15 dollari l’ora per chi esegue lavori modesti e malpagati (p. 206).

La transizione diretta solo dalle élite capitalistiche e dalle singole aziende è una forma di resilienza, ma con un vestito corto che lascia scoperta una larga parte della società la cui punta estrema è rappresentata dagli homeless. E avverte, Berta, che ciò genera resistenze come quelle del candidato democratico alle presidenziali Sanders, autodefinitosi socialista. Questo ‘socialismo’ americano è una forma di contenimento che non affonda la sua critica nei meccanismi che generano l’ineguaglianza, limitandosi a rivendicare il ruolo di correttore dei guasti sociali all’intervento pubblico e all’azione collettiva (p. 206).

Ecco quindi, in conclusione, quanto ci dice la storia recente di Detroit: la transizione è inevitabile, essa comporterà un ridimensionamento del ruolo dell’industria dell’automobile e una sua radicale trasformazione interna, ci saranno costi sociali molto significativi, sia occupazionali che di cesura nella struttura delle competenze richieste. Questi costi non possono essere risolti da una gestione solo aziendale e capitalistica della transizione, né da un tradizionale pacchetto di misure sociali di stampo socialdemocratico, ci vuole una nuova soggettività ed un progetto alternativo di società oggi non ancora disponibile. Una via di uscita richiede un nuovo attivismo, una nuova radicalizzazione della società.

 

Radicalismo politico e sindacalismo industriale

L’altro filo conduttore del libro è particolarmente affascinante e per i più giovani una fonte di conoscenza di un’ America sconosciuta. Sarebbe utile utilizzare il libro come un complemento di storia nelle scuole superiori.

Detroit, infatti, è stata, almeno nel ‘900, la sede privilegiata di avvenimenti fondamentali nella storia sindacale e in quella dei diritti civili negli USA. I due movimenti, quello sindacale e quello dei diritti civili hanno una storia intrecciata a Detroit per la ovvia ragione del peso della popolazione nera in quella città e nelle aziende industriali e per la natura segregata del suo sviluppo urbano di cui la rivolta del 1967 è allo stesso tempo un punto di svolta ed una testimonianza indelebile. Il libro ricostruisce, nei due capitoli centrali, il quarto e il quinto, lo sviluppo del movimento sindacale e di quello dei diritti civili.

Dedicherò la parte più rilevante di questa recensione a questi capitoli.

 

Ford e il sindacato: Walther P. Reuther e il contratto di Detroit del 1950

Berta ci fornisce sia una storia sociale dei singoli impianti, sia una serie di cammei sui personaggi, e il loro ambiente, che hanno caratterizzato la storia di Detroit e il suo radicalismo: Diego Rivera, Frida Kahlo e gli affreschi dell’ Institute of Arts ; i Ford, Henry, il figlio Edsel e l’attuale presidente Bill; il capo della vigilanza della Ford, il picchiatore Harry Bennet; Rosa Parks ; John Conyers, deputato e rappresentante del movimento dei diritti civili; Martin Luther King e Malcolm X; i reverendi C.L. Franklin e Albert Cleage; i leader sindacali Richard Frankensteen e Walter P. Reuther, il più importante sindacalista americano degli anni ’50 e ‘ 60 del ‘900; Louis-Ferdinand Céline (3); i coniugi James e Grace Lee Boggs. Il contesto è quello di una città dove convivevano, nelle lotte sindacali e dei diritti civili, socialisti, comunisti, troskisti, il libertarismo rappresentato dagli anarcosindacalisti – degli anni ’30 e da quelli degli anni ’40 della rivista New Trends4, il movimento del potere nero, e poi l’ala liberal del partito democratico.

Questa storia politica e sociale si snoda contemporaneamente allo sviluppo del movimento sindacale americano nel ‘900: dai primi contratti del 1936 alla GM, al contratto di Detroit del 1950 che ha retto più di mezzo secolo della storia sindacale americana per arrivare all’attuale declino.

Esula da questa recensione una sia pur sommaria sintesi di tutti questi ritratti. Mi concentrerò su alcuni passaggi interpretativi del percorso del sindacalismo americano e delle sue relazioni con i movimenti dei diritti civili e la politica.

Colgo qui l’occasione per ricordare la giusta forte critica di Berta al libro orami famoso, anche in Italia per la recente traduzione in italiano, di J.D. Vance – Hillbilly Elegy – tradotto con il titolo Elegia Americana. La critica di questo libro è importante non per ragioni letterarie, ma per due ragioni, la prima perché il libro dà una versione del mondo della cosiddetta Rust Belt, la cintura della ruggine, cioè del Midwest industriale americano – Michigan, Indiana, Ohio, Wisconsin – agli antipodi della realtà storica dato che non c’è posto per nessuna analisi del declino industriale patito da Middletown, né del fallimento dei progetti per risollevare il tono economico della città. In quella ricostruzione non c’è posto per la cultura operaia che l’ha caratterizzata e l’accusa agli abitanti di vivere di assistenza porta Berta a dire che se Vance fosse più attento ai contorni economici della condizione sociale che rappresenta, hanno scritto i suoi critici , non cadrebbe nello stereotipo di accusare l’inerzia suscitata dagli istituti del welfare per la cattiva condotta che deplora. I poveri, spesso, non ce la fanno a procacciarsi una carta di credito che permetta loro di sperperare i sussidi in acquisti futili, poiché nemmeno chi campa di lavori troppo malpagati o discontinui riesce talvolta a ottenerla (pp. 39-40). La seconda ragione è che quel tipo di interpretazione è divenuto un modello di lettura per comprendere il perché del voto di aree depresse a Trump ed in generale del fenomeno del populismo.

Lo stabilimento di River Rouge occupava all’inizio della crisi del 1929, più di 100.000 addetti ed era, come già detto, una struttura fortemente integrata e centralizzata; oggi ci lavorano 3.300 operai su tre turni per produrre l’F150, il pickup che è il maggior successo di mercato del marchio Ford (p.114).

Berta ci illustra, sinteticamente, la nascita del sindacato dell’auto negli USA partendo da una foto simbolica dei due sindacalisti dell’UAW, Richard Frankensteen e Walter P. Reuther, che avevano tentato nel 1937di volantinare gli operai Ford alla porta (4). I due sono malconci e sanguinanti dopo il pestaggio organizzato, da Harry Bennet per conto di Henry Ford. Bisogna ricordare che il Wagner Act che consentiva la sindacalizzazione era stato approvato nella primavera del 1935.

Il processo di sindacalizzazione dell’auto era iniziato poco prima con l’accordo firmato alla GM i cui stabilimento era nello stato del Michigan, ma a Flint, poco più di 100 km a nord-ovest di Detroit. Lo strumento fondamentale di lotta era costituito da scioperi nei quali i lavoratori si sedevano e occupavano il posto di lavoro impedendo anche fisicamente l’uscita dei prodotti: i sit-down strikes. Questa tecnica, consentiva a un piccolo gruppo di lavoratori in aree chiave di uno stabilimento di provocarne la fermata di fatto. La lotta alla GM era durata 44 giorni.Come ci ricorda Berta: dopo venne il turno della Chrysler di scendere a patti con il sindacato, che intanto cresceva come organizzazione di massa (..) gli iscritti alla UAW (..) alla fine del 1937 erano oltre 230.000 (p. 119).

Sindacalizzare la Ford era un’impresa estremamente difficile sia perché River Rouge era, come racconta Berta, una fortezza presidiata dal ‘più grande esercito privato del mondo’, come il ‘New York Times’ aveva definito le squadre di vigilantes reclutate e capitanate da Bennet in nome e per conto di Ford e (..) perché Ford era Ford e la sua pervicacia era leggendaria, come temibile erano i mezzi che dispiegava contro chi si opponeva al suo volere (p.119). Ma anche perché c’era da metter in conto anche la composizione della forza-lavoro di River Rouge, dove i dipendenti di colore erano più numerosi che nelle altre grandi fabbriche (p.119). Ford, infatti, a differenza da altri capitalisti, assumeva da vent’anni afroamericani. E se le pessime condizioni di lavoro potevano rappresentare un incentivo alla sindacalizzazione restava da superare la barriera razziale, un intralcio cospicuo per un’organizzazione sociale di massa di quei tempi (p. 120).

È utile aggiungere che Reuther veniva da una famiglia di socialisti, che il padre era un sindacalista nell’Ohio e lui iniziò la sua esperienza come un iscritto al partito socialista. Reuther era un operaio specializzato, aveva lavorato per Ford dal 1927 al 1932 prima di essere licenziato. Era un attrezzista che si era fatto le ossa lavorando, per tutto il 1932, nella fabbrica automobilistica dell’URSS di Gorki che Ford aveva accettato di allestire; visitò l’Europa tra il 1932 e il 1935 quando ritornò a Detroit. Berta ci ricorda utilmente che anche se i fratelli Reuther dovevano aver provato cos’era lo stalinismo, Walter al rientro a Detroit, difese l’esperienza sovietica (p. 121). Reuther ruppe con i comunisti solo dopo il 1938. Si allontanò dal partito socialista senza rompere i legami con quel mondo; ci ricorda Lichtenstein che: mantenne la lealtà della maggioranza degli attivisti UAW della debole organizzazione socialista anche quando decise di sostenere il candidato Democratico come governatore del Michigan nel 1938, candidato che i socialisti a maggioranza contrastavano5. Tornò per diventare un organizzatore a tempo pieno del nascente sindacato dell’auto. Lichtenstein sottolinea l’importanza via via acquisita dal giovane radicale: Reuther, i suoi fratelli e i loro alleati radicali erano gli organizzatori della local 174 dell’UAW che emerse come una grande ‘amalgameted local’ che giunse a rappresentare più di trentamila operai nel corso di un anno (6)

 

La nuova leva dell’élite del potere (Charles Wright Mills)

Bisognerà attendere il 1° aprile 1941 perché lo sciopero riuscisse; quella volta, racconta Berta, la fabbrica venne interamente circondata da un cordone di auto; c’erano tende per curare eventuali feriti negli scontri con gli uomini di Bennet; si cucinava cibo caldo per gli operai chiamati a scioperare (p. 124).

Ecco quindi che di colpo nel 1941, la Uaw che aveva ormai 300.000 iscritti era diventato un centro di potere, dopo che era riuscita nell’intento di organizzare tutt’e tre le Big Three, trasformando la potenza sociale dell’industria automobilistica in influenza politica (p.126).

È bene qui tornare alla figura di Reuther per comprendere poi il suo capolavoro di politica contrattuale, passato alla storia come il ‘contratto di Detroit’ ( la definizione è di un altro sociologo notissimo, Daniel Bell, che la formulò sul mensile ‘Fortune’)(p.129).

Reuther mantenne sino al 1948 una impronta radicale. Questa fu evidente durante la guerra.

È utile qui la ricostruzione di Lichtenstein.

Da un lato egli acquisì una preminenza politica nazionale perché articolò una strategia sindacale che riconosceva che in un epoca di mobilitazione di guerra lo stato sarebbe divenuto l’arena centrale della lotta tra la classe operaia e i suoi avversari (..) la trasformazione dell’economia su base bellica nel 1940 e 1941 significò che i tradizionali temi della contrattazione collettiva – salari, riconoscimento del sindacato e condizioni di lavoro – erano divenute completamente politicizzate. Il Labor avrebbe dovuto diventare analogamente politico, non come attività elettorale, ma come pianificatore e manager (7). È a partire da questa presa di coscienza che nasce un’iniziativa che abortirà, il piano del dicembre 1940 per la produzione di 500 apparecchi da guerra al giorno – trasformare Detroit e il Michigan nell’arsenale della democrazia – gestito da un comitato rappresentativo del governo del management e dal sindacato. Sin qui nulla che esca dai confini del patto patriottico per sostenere la guerra.

Dall’altro lato, però, il suo piano conteneva le caratteristiche di un approccio strategico che Reuther userà molte volte: un assalto al potere tradizionale del management in nome dell’efficienza sociale ed economica, un appello al sostegno pubblico in una più ampia concezione di un interesse liberal, uno sforzo per spostare le relazioni di potere nella più vasta arena dell’economia politica, attraverso entità governative tripartite con il potere di pianificare intere sezioni dell’economia.(..) Uno schema corporativo progettato per riorganizzare il capitalismo americano all’interno di un quadro più stabile ed umano8.

In questa impostazione, che Lichtenstein definisce un liberalismo moderno, c’è già l’idea che reggerà sia lo sciopero di 113 giorni alla GM tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, l’anno in cui divenne presidente della Uaw, di cui ci parla Berta, sia il contratto di Detroit che dette origine all’ordine post bellico USA basato sulla trilogiaBig Government, Big Business, Big Labor.

La Uaw, ci ricorda Berta a proposito dello sciopero alla GM, non rivendica soltanto salari migliori come una ricompensa per lo sforzo bellico, che aveva finalmente ripristinato la piena occupazione dopo gli interminabili anni magri della crisi. Voleva che la GM non recuperasse, scaricandola sui prezzi attraverso la dinamica dell’inflazione, la quota maggiore di reddito che doveva essere riconosciuta ai lavoratori. Fu una lotta aspra per la materia del contendere, non perché ripristinasse gli scontri violenti del decennio precedente. Era la sostanza del conflitto a essere dura, non la sua forma. Se la Uaw avesse vinto introducendo una forma di controllo nelle scelte economiche d’impresa la storia sindacale degli USA avrebbe preso un altro corso; non andò a questo modo, tuttavia, e la Uaw dovette ripiegare entro le linee – guida classiche dell’azione collettiva, che non avrebbe più abbandonato (pp. 126-127).

Reuther pur votando per Roosevelt nel 19450 e nel 1944, mantenne una linea di relativa indipendenza dal partito Democratico sino alle elezioni del 1948 con la vittoria di Truman; con essa vennero meno le speranze suscitate dalla vittoria elettorale del Labour Party in Inghilterra nel 1945 e le tentazioni all’interno della Uaw di diventare il nucleo centrale di un nuovo partito. Ecco allora che, dice Lichtenstein, dal 1948 in avanti la Uaw giocò un ruolo organico e attivo nelle vicende interne del partito Democratico, e Reuther sviluppò legami stretti con ‘labor-liberals’ come Hubert Humphrey e il governatore del Michigan G. Mennon Williams. In Michigan e in pochi altri distretti industriali la Uaw prese virtualmente possesso dell’apparato del partito, e Walter Reuther si dimostrò un’efficace sostenitore della maggior parte del programma Democratico: la negoziazione con I Soviet per ridurre la corsa agli armamenti, la protezione delle libertà civili e l’avanzamento della legislazione sui diritti civili, e l’espansione del welfare state in combinazione con vigorose politiche fiscali keynesiane (9). Come, d’altronde ci ricorda Berta nel tratteggiare il ruolo di Reuther nel periodo 1950-1970.

Reuther ebbe rapporti intensi e continui dal 1948 sino alla sua scomparsa con la socialdemocrazia europea, da Olof Palme a Willy Brandt e con riformatori come Adriano Olivetti. Questa trama di rapporti portano Berta a definirlo un socialdemocratico nel senso che questa parola poteva avere nella realtà del Midwest, negli stati dove esisteva una legislazione ‘pro-labor’.

Dal 1960 in avanti, con l’eccezione della sfera della lotta per i diritti civili, divenne sempre più conservatore sino a perdere l’appoggio della sinistra liberal quando appoggio la guerra del Vietnam.

Il suo periodo di massima notorietà pubblica e di influenza politica fu durante le presidenze di Kennedy e Johnson quando, dice Berta, nessuno fu ricevuto alla Casa Bianca con maggiore frequenza di Reuther, che parlava di espansione economica e di diritti civili, che si faceva ritrarre coi presidenti e con Martin Luther King.

 

Il trattato di Detroit

Il suo capolavoro, come si è già detto, è l’accordo noto come accordo di Detroit e qualche volta come trattato di Detroit.

In realtà esso nasce da una gestazione di due anni dal 1948 al 1950. Berta ne riassume i tratti salienti. Fu un accordo tra La Uaw e la GM diretta dal famoso manager Alfred. P. Sloan che portò l’azienda a una preminenza assoluta; l’intesa doveva far progredire assieme produttività e salari. Ecco la sintesi di Berta:

L’impresa assicurava un avanzamento retributivo del 2 per cento all’anno a tutti i dipendenti, dagli attrezzisti agli operai comuni agli addetti alle pulizie. In cambio, otteneva dalla controparte il controllo della conflittualità. La produttività, in fondo non era altro che la risultante dello scambio fra il denaro e la disciplina lavorativa, come avrebbe detto con un po’ di vis polemica il massimo esperto di questioni manageriali, Peter F. Drucker. Ma i soldi che andavano ai lavoratori erano tanti, quanti non ne avevano mai ricevuto prima: accanto ai livelli crescenti dei salari, c’erano pensioni e sanità, una massa tale di garanzie sociali che soltanto gli operai americani avevano ottenuto. Certo, il lavoro non si discuteva più: era quello della catena, su cui decidevano altri, che fissavano i criteri cui bisognava obbedire. E lo spazio dell’azione collettiva era anch’esso ben delimitato, con le sue procedure e le sue scadenze che le locals dovevano rispettare, pena l’incorrere in sanzioni (pp. 129-130).

Come dice Lichtenstein combinato con i benefici pensionistici e sanitari che il sindacato negoziò alla metà del secolo, e i benefici aggiuntivi per la disoccupazione che ottenne nel 1955, il programma della Uaw rappresentò una specie di welfare state privatizzato che quasi raddoppiò lo standard reale di vita dei lavoratori dell’auto americana nel quarto di secolo dopo il 1945. (10)

Non furono tutte rose e fiori, ci furono scioperi a gatto selvaggio per tutti gli anni ’50 e ’60; Il sindacato ebbe l’intelligenza di non pretendere di imporre dalla mattina alla sera la disciplina lavorativa concordata, ma come ci dice Lichtenstein sebbene i singoli local fossero spesso estremamente militanti, la Uaw come istituzione non cercò più una trasformazione fondamentale delle relazioni a livello delle postazioni di lavoro nell’industria dell’automobile (11).

Berta ci ricorda che per almeno tre decenni successivi nulla avrebbe scalfito quest’ordine. Le prime scosse in grado d’intaccarlo si sarebbero avvertite con la crisi del 1979; ma prima che l’edifico grandioso del trattato del 1950 smottasse definitivamente, sarebbe dovuta giungere una crisi terminale per il vecchio sistema dell’auto come quella del 2008-09, quando il presidente Obama fu costretto a muovere in soccorso di Detroit, con GM e Chrysler già oltre l’orlo del fallimento (p. 130).

Berta riconduce a questo accordo l’ascesa dell’affluent worker ( l’ operaio benestante). Il sindacato aveva fatto la sua scelta restringendosi alla sfera redistributiva e : la rappresentanza sindacale non mirava a trasferire nelle mani dei lavoratori un potere diretto; al tavolo della contrattazione esercitava l’autorità che aveva per conto dei suoi iscritti ma senza mai concedere deleghe che li abilitassero a intervenire direttamente sulle condizioni di lavoro. Le istanze egualitarie erano state piegate a una gerarchia sociale implicita, dice Berta, il cui centro era occupato saldamente dalla figura dell’operaio bianco maschio stabile, tutelata attraverso la regola aurea della seniority, cioè dell’anzianità, non altrettanto vantaggiosa per le fasce della forza lavoro più influenzate dal genere, dal colore della pelle, da una posizione sociale e lavorativa più eterogenea. La promozione nei ranghi dei ceti medi si dischiuse per la classe operaia sindacalizzata che corrispondeva a una precisa tipologia sociale che possedeva tutti i caratteri per rientrare nella strategia della Uaw di Reuther. Non fu soltanto un processo di mutamento sociale dalle proporzioni inedite, ma quanto di più simile a un’ondata socialdemocratica che abbia attraversato l’America (p. 131).

Le due crisi del 1978 e del 2008 misero prima in crisi e poi spezzarono per sempre quel modello che non era solo un modello di relazioni industriali, ma quello che Lichtenstein ha definito un social compact, un patto sociale. Non è difficile, ma esula sia dal libro di Berta sia da questa recensione ricostruire la crisi di quel patto sociale e legarla al mutato ruolo degli USA e del suo capitalismo nello scenario internazionale a partire dagli anni ’80.

Il libro ci dà anche una breve immagine dell’oggi della Local 600 dell’Uaw. La sconsolata conclusione di Berta è che tutte le strade del sindacalismo industriale del ‘900 – la sfera del potere sociale sia diretto basato sulla militanza, sia istituzionalizzato e quello della socialdemocrazia nordica – sembrano interrotte. È venuto a mancare il retroterra comune di riferimento, quella speranza di attivare una mobilità sociale che potesse essere colta attraverso il momento del conflitto e della negoziazione o attraverso quello della partecipazione politica e istituzionale. Oggi il lavoro in quanto tale non dà adito a una promessa di miglioramento e di benessere collettivo: Oggi il sindacato è di nuovo sinonimo di resistenza, non di cambiamento attivo ( p. 142).

Che oggi sia così non v’ha dubbio e qui nasce una discussione già iniziata su scala internazionale, ma esula da questa recensione (12).

 

la marcia della libertà del 1963 (King e Malcolm X) e la rivolta urbana del 1967 e:

Parliamo ora della rivolta; fu una rivolta che fece, in cinque giorni, 43 morti, 1.189 feriti; ci furono 7.200 arresti e vennero distrutti circa 2000 edifici. Il governatore del Michigan inviò la guardia nazionale e Il presidente Johnson, due divisioni dell’esercito.

Essa fece sì che da quel momento il declino di Detroit divenne visibile a tutti (p.147). Detroit, in quasi settant’anni, ha subito un tracollo di abitanti: nel 1950 erano quasi 1,9 milioni di abitanti, poco meno di 1,7 nel 1960 e 1,2 nel 1980, per ridursi a 673.104 nel 2017.

La popolazione afro-americana passò dal 16,2% del 1950 a quasi la metà della popolazione nel 1970 sino a raggiungere l’82,7% nel 2010. Ciò avvenne a causa della fuga dei bianchi dalla città a seguito di quella rivolta.

Diversa è la situazione dell’area metropolitana che consta di quattro milioni e mezzo di abitanti – quasi la metà della popolazione dello stato del Michigan – e che ha solo il 15% di afro-americani.

Il problema della forte presenza di una popolazione afroamericana a Detroit sin dalla prima guerra mondiale fa comprendere, come il libro ben evidenzia,perché Detroit fu la città della marcia per la libertà del 23 giugno 1963 guidata da Martin Luther King, due mesi prima di quella più famosa di Washington; e che a Detroit sia nato, negli anni ’30 il movimento della Nation of Islam, di cui Malcolm X fu il numero due negli anni ’60, prima di rompere con loro.

Il libro ricostruisce lo scontro tra gli integrazionisti, come King e Franklin, il pastore della chiesa dove fu pronunciato il discorso di King, e gli anti-integrazionisti con posizioni tra loro diverse; tra questi emerse, già l’anno successivo alla marcia, la figura di Malcolm X.

L’organizzazione della marcia vide impegnato il sindacato (13), in particolare il suo leader riconosciuto, Walter Reuther (14), che prese la parola nella manifestazione finale e varie personalità come i coniugi Boggs, di orientamento marxista, e l’amministrazione comunale, a guida democratica.

Il sogno integrazionista di King e del movimento progressista, sindacale e politico è ben noto e esplicitato nel discorso di King a Washington I have a dream.

Malcolm X pochi mesi dopo la marcia della libertà, e dopo avere rotto con la Nation of Islam, tenne, nella King Solomon Baptist Church, il primo dei suoi tre grandi discorsi, A message to the grass roots con la famosa frase:

Abbiamo un nemico comune. Abbiamo questo in comune: abbiamo un oppressore comune, uno sfruttatore comune e un discriminatore comune. Ma una volta che tutti ci rendiamo conto di avere questo nemico comune, allora ci uniamo sulla base di ciò che abbiamo in comune. E ciò che abbiamo in comune soprattutto è quel nemico, l’uomo bianco. È un nemico per tutti noi. So che alcuni di voi pensano che alcuni di loro non siano nemici. Il tempo lo dirà.

Dei tre discorsi, tutti pronunciati in quella chiesa, il più famoso è il secondo The Ballot or the Bullet– il voto o la pallottola –dell’anno seguente (15), seguito poi da After the Firebombing, poco dopo l’attentato che aveva subito e prima della sua uccisione (16).

Che cosa sostiene Malcolm X oltre alla identificazione di un nemico comune? Non si tratta in astratto della pallottola contro il voto, ma di diventare protagonisti del proprio destino, di maturare politicamente, di organizzarsi anche economicamente:

L’America oggi si trova in una situazione unica. Storicamente, le rivoluzioni sono sanguinose. Oh sì, lo sono. Non hanno mai avuto una rivoluzione senza sangue o una rivoluzione non violenta.(…)

Le rivoluzioni distruggono i sistemi. Una rivoluzione è sanguinosa, ma l’America si trova in una posizione unica. È l’unica nazione nella storia in grado di essere coinvolta in una rivoluzione senza sangue.(…). Ma oggi questo paese può essere coinvolto in una rivoluzione che non prenderà spargimenti di sangue. Tutto quello che deve fare è dare all’uomo di colore in questo paese tutto ciò che gli è dovuto. Tutto.

L’alternativa, quindi per Malcolm X è in capo ai bianchi e al sistema politico che continua a negare il voto ai neri e che fa rappresentare il sud dai Dixiecrats i Democratici che si opponevano ai diritti civili; bisogna ricordare che il 1964 fu un anno di elezioni. Ecco

Quindi è il voto o la pallottola. Oggi la nostra gente può vedere che siamo di fronte a una cospirazione governativa.

Aggiunge, quindi:

La filosofia politica del nazionalismo nero significa solo che l’uomo nero dovrebbe controllare la politica e i politici nella propria comunità. Il tempo in cui i bianchi possono entrare nella nostra comunità e farci votare per loro in modo che possano essere i nostri leader politici e dirci cosa fare e cosa non fare è ormai passato.(…)

Dobbiamo capire la politica della nostra comunità e dobbiamo sapere che cosa la politica dovrebbe produrre. Dobbiamo sapere che ruolo ha la politica nelle nostre vite. E finché non diventeremo politicamente maturi saremo sempre fuorvianti, sviati o ingannati o manovrati nel sostenere politicamente qualcuno che non ha a cuore il bene della nostra comunità.

Seguono poi i richiami a costruire anche un’economia locale autonoma e infine due passaggi chiave per comprendere il suo pensiero:

Che tu sia cristiano, musulmano o nazionalista, abbiamo tutti lo stesso problema. Non ti impiccano perché sei un battista, ti impiccano perché sei nero. Non mi attaccano perché sono musulmano, mi attaccano perché sono nero. Ci attaccano tutti per lo stesso motivo; tutti noi patiamo l’inferno dallo stesso nemico.(…)Quindi quelli di noi la cui filosofia politica, economica e sociale è il nazionalismo nero sono stati coinvolti nella lotta per i diritti civili. Ci siamo inseriti nella lotta per i diritti civili e intendiamo estenderla dal livello dei diritti civili al livello dei diritti umani.

Berta giustamente sottolinea che persone che sono diventate icone mondiali della lotta per i diritti civili, come Rosa Parks, e figure del mondo jazz, come John Coltrane, furono ammiratori di Malcolm X, e assistettero ai suoi discorsi. Dice Berta:

A Detroit quell’espressione, Black Power, che era in sé stessa una rivendicazione e un programma politico, raccolse subito una massa di consensi impressionante e l’adesione di persone con storie dissimili come Rosa Parks, il reverendo Cleage, i Boggs, e, insieme con loro schiere di militanti attivi nei quartieri, nelle confessioni religiose, nelle locals della UAW, tutti convinti che ciò che mancava ai neri per prendersi carico della loro sorte e mutarla era il potere, cui non avevano mai avuto accesso. (p. 173)

Non meno rilevante fu la conclusione del terzo discorso nel quale delineò un obiettivo esterno ed uno interno. Il discorso, come ricorda Berta, fu fatto con indosso i vestiti bruciacchiati a causa dell’attentato:

E uno dei nostri primi programmi è quello spostare il nostro problema dal contesto dei diritti civili e metterlo a livello internazionale, dei diritti umani, in modo che il mondo intero possa avere voce nella nostra lotta. Se rimaniamo all’interno dei diritti civili, l’unico luogodove possiamo cercare alleati è all’interno dei confini nazionali dell’America. Ma quando la trasformi in una lotta per i diritti umani, diventa internazionale, e quindi puoi aprire la porta a tutti i tipi di consigli e supporto dei nostri fratelli in Africa, America Latina, Asia e altrove. Quindi è molto, molto importante: questo è il nostro obiettivo internazionale, questo è il nostro obiettivo esterno.

Il nostro obiettivo interno è di essere immediatamente coinvolti in una campagna di registrazione di massa degli elettori. Ma non crediamo nella registrazione di elettori non istruiti. Riteniamo che il nostro popolo dovrebbe essere educato alla scienza della politica, in modo che sappiano a cosa serve un voto e che cosa dovrebbe produrre un voto, e anche come utilizzare questo potere di voto unito in modo da poter controllare la politica della propria comunità e dei politici che rappresentano quella comunità. Siamo per questo.

E lungo questa linea lavoreremo con tutti gli altri, anche con i gruppi per i diritti civili, che sono dedicati ad aumentare il numero di elettori neri registrati nel sud. L’unica area in cui ci differenziamo con loro è questa: non crediamo che i giovani studenti debbano essere inviati in Mississippi, Alabama e in questi altri luoghi senza alcun tipo di protezione. Quindi ci uniremo a loro nella loro registrazione degli elettori e aiuteremo ad addestrare i fratelli nelle arti che sono necessarie in questi giorni ed epoca per consentire a uno di continuare la sua esistenza su questa terra.

Ripeto che non sono un razzista, non credo in alcuna forma di segregazione o cose del genere. Sono per la fratellanza di tutti, ma non credo nel forzare la fratellanza su persone che non la vogliono. Finché pratichiamo la fratellanza tra di noi, e poi gli altri che vogliono praticare la fratellanza con noi, la pratichiamo anche con loro, siamo per questo. Ma non penso che dovremmo correre in giro cercando di amare qualcuno che non ci ama. Grazie.

Berta annota che a partire da questa base i Boggs, che erano due marxisti di lungo corso diventarono sostenitori del comunitarismo, la riappropriazione della comunità da parte della gente di colore e più in generale una reinvenzione della vita collettiva dal basso (p.173).

In questa mia un po’ atipica recensione ho voluto cogliere due opportunità. La prima di riproporre la necessità di una lettura dell’attuale crisi dell’auto vista sui tempi lunghi e quindi come una transizione epocale. La seconda di riattivare una riflessione sull’esperienza sindacale americana e sulla perdita delle sue radici radicali che credo possa essere un’utile parte di una riflessione più vasta dell’oggi.

 

 

NOTE

(1) Marx nella prefazione alla prima edizione del Capitale rispondeva anticipatamente a una possibile obiezione al suo continuo riferirsi all’Inghilterra, annotando: Ma qualora il lettore tedesco dovesse farisaicamente alzar le spalle in merito alle condizioni degli operai inglesi, dell’industria e dell’industria o mettesse a tacere la sua conoscenza ottimisticamente pensando che in Germania le cose sono ben lontane da star così male, io debba gridargli: De te fabula narratur!

(2) Behemoth. A History of the Factory and the Making of the Modern World – Norton, New York, 2018

(3) Citato per la sua descrizione, nel romanzo Viaggio al termine della Notte, di cosa voleva dire lavorare nello stabilimento di Highland Park alla Ford. 

(4 )Nata a New York alla fine del 1945, Il cui esponente di primo piano era Rudolph Rocker che si rifaceva culturalmente a Thomas Jefferson e Tom Paine e poi al trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson e David Thoreau, Rocker illustrò le radici dell’anarcosindacalismo senza mai citare gli Industrial Workers of the World e l’anarco-comunismo di Emma Goldman. Lui stesso recupererà più tardi queste come radici dell’anarco-sindacalismo americano. Gli anarcosindacalisti erano ferocemente ostili al socialismo di stato e quindi ai comunisti che durante la guerra sostenevano la posizione del governo americano di proibizione degli scioperi poiché in tal modo si sosteneva anche lo sforzo bellico dell’URSS. ( vedi A. Donno – dal New Deal alla guerra fredda. Aspetti del radicalismo statunitense negli anni’40. Sansoni, Firenze,1983 ; vedi anche N. Lichtenstein, Walter Reuther and the Rise of Labor-Liberalism in M. Dubofsky, W. Van Tine, eds. – Labor Leaders in America – University of Illinois Press, 1987).

(5) Op.cit., p. 285

(6) Op.cit., p. 285

(7) Op.cit., p. 286

(8) Op.cit., p. 287

(9) Op.cit., pp. 296-297

(10) Op.cit., pp. 293-294

(11) Op.cit., p. 294

(12)Le mie sono nel capitolo “Il capitalismo delle piattaforme” del libro “Lavoro alla spina, welfare à la carte” a cura di Alessandro Somma; nel saggio scritto assieme a Riccardo Bellofiore “Le Dernier Metro. Europe on the Edge of the Abyss” sul volume 7/issue 1, 2020 dal titolo “The Future Of Europe” della rivista Crisis&Critique, e l’intervento disponibile all’indirizzo https://fondazioneclaudiosabattini.voxmail.it/nl/pvyoec/xr5pc7/jpurbq/uf/14/aHR0cHM6Ly93d3cueW91dHViZS5jb20vd2F0Y2g_dj10dEZWZVdycXQ2dw?_d=50S&_c=08e7dc35

(13) Che finanziò anche la marcia

(14) Che aveva desegregato la local 600 della Uaw.

(15) Il discorso fu pronunciato nove giorni prima a Cleveland ma seguo l’opinione di chi ritiene quella di Detroit la versione definitiva.

(16) Credo di fare cosa utile segnalando questo sito: http://malcolmxfiles.blogspot.com/p/malcolm-x-speeches_9918.html, dove si trovano i testi di tutti i suoi discorsi.

Category: Guardare indietro per guardare avanti, Lavoro e Sindacato, Osservatorio Stati Uniti, Politica

About Francesco Garibaldo: Francesco Garibaldo (1944) si è 
laureato in Scienze Politiche, Indirizzo Sociologico, all'Università degli Studi di Bologna, con una tesi dal titolo «Dall'automazione di Detroit all'automazione flessibile. Verso quale organizzazione del lavoro?». Dal 1972 al 1991 ha ricoperto incarichi di direzione nel sindacato dei lavoratori metalmeccanici aderente alla Cgil (Fiom), tra cui quello di segretario generale della Fiom della Regione Emilia-Romagna. Nello stesso periodo ha affiancato all'attività di dirigente sindacale quella di ricerca sui temi di sociologia quale l'analisi della struttura produttiva, dell'organizzazione del lavoro e dell'innovazione tecnologica. Dal 1992 al maggio 1998 è stato direttore dell’Ires nazionale, istituto di ricerca della Cgil. È stato membro del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (Cnel) per la consigliatura 1995-2000, sino al maggio 1998, e lo é stato nella precedente consigliatura. Dal maggio 1998 a marzo 2008 è stato direttore dell’IPL Fondazione Istituto per il Lavoro, creata dalla Regione Emilia-Romagna, a Bologna. Da aprile 2008 è uno dei tre liquidatori dell’IPL. Dal 1999 al giugno 2008 è stato direttore della rete Regional and Local Development for Work and Labour (RLDWL) di cui è, dopo il 7° congresso, svoltosi a Pechino, presidente. Con il 6° Congresso il compito di garantire la continuità della rete è passato al Crises di Montreal (Canada) e il Prof. Dr. Denis Harrisson è il nuovo direttore. È stato membro della commissione nazionale d’indagine sul lavoro costituita presso il Cnel tra il 2007 e il 2009. Nel semestre invernale 2009-2010 ha svolto i seguenti seminari alla Università Cattolica di Eichstätt- Ingolstadt: Industrial relations and work organization e Group work in the automotive industry.

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