Francesco Garibaldo: Le politiche europee, il patto di stabilità, democrazia e cittadinanza

| 7 Febbraio 2012 | Comments (0)

 

Per capire la situazione europea in cui siamo si può partire dal Piano Delors, purtroppo osannato anche da tanta parte della sinistra come un piano brillante. Il piano Delors prevedeva uno schema molto semplice: bisognava in buona sostanza avere un andamento dei salari che fosse grosso modo di 2 punti percentuali più bassi della crescita della produttività, come programmazione, perché creando questo spazio del 2% si creavano i soldi e le risorse perché l’industria si rinnovasse, investisse. Si aggiungeva un piano infrastrutturale per le stesse ragioni, partendo dall’idea che l’ammodernamento delle infrastrutture aiutava la costruzione di un mercato unico europeo e di un’industria integrata. Quindi un’idea molto precisa di come costruire questa situazione, convinti che il fatto stesso di creare questo spazio per i capitali privati e quindi un margine di possibilità di avere in mano delle leve finanziarie avrebbe di per sé provocato un rinnovamento; l’idea che allora correva per la maggiore era che quando l’industria si rafforza e si rinnova all’inizio ci sono un po’ di licenziamenti e ristrutturazione, poi la situazione di stabilizza e si creano nuovi settori industriali ed economici e quindi si riparte con l’occupazione e si crea ricchezza.

Questa era l’idea corrente nel 1992. Quindi l’Europa nasce con questo programma e con questa struttura istituzionale. Non è un caso che noi in Italia, proprio sulla base di questa impostazione abbiamo avuto tutta l’ondata, che poi ha coinvolto tutta l’Europa a partire dalla fine degli anni Ottanta, della costruzione di patti neo-corporativi: i famosi patti triangolari quelli che in Italia possono esser fatti risalire al 1992-1993 con tutta la vicenda della prima firma di Trentin e poi delle sue dimissioni. Questi patti triangolari erano figli di questa impostazione, pretendevano di regolare l’andamento complessivo e la dinamica salariale in cambio della garanzia di livelli occupazionali medi e dello stato sociale, nell’idea che la dinamica salariale era in crescita, una crescita rallentata rispetto alla produttività ma in crescita.

Perché quei patti si chiamarono neo-corporativi? Corporativi erano i regimi fascisti e, dopo la caduta dei regimi fascisti come quello italiano, rimasero fascisti soprattutto molti regimi sud-americani. Poi anche in queste nazioni ci furono le rivoluzioni democratiche e guarda caso quasi tutti i regimi sud-americani chiamarono i professori italiani come esperti, come il Professor Romagnoli, perché essendo loro italiani ed avendo avuto l’Italia la liberazione, erano in grado di aiutare i paesi sud-americani a liberarsi dai patti corporativi. I patti corporativi sono patti nei quali si presuppone che esista un interesse superiore ed unico, che è l’interesse della Nazione, e, nella versione moderna, questo significava che il capitale e il lavoro, assieme al governo, fanno un patto in cui rinunciano ad iniziative unilaterali in cambio di soddisfazione e soddisfacimento delle loro necessità: il capitale di potersi garantire gli investimenti e i profitti, il lavoro un po’ di stabilità e garanzie. In cambio di questi benefici cosa fanno i soggetti neo-corporativi? Disciplinano i comportamenti dei loro iscritti: i patti triangolari sono tutti basati sull’idea che i sindacati garantiscono al governo che i loro iscritti staranno dentro quanto è convenuto. La stessa cosa devono fare le imprese. Ci sono sicuramente state da parte del sindacato continue rotture nei confronti di questa macchina disciplinatrice, ma di certo le imprese non sono state da meno. La natura del patto corporativo è rappresentata dallo scambio e lo scambio esiste perché si ritiene che alla fine dello scambio ci sia una situazione in cui tutti guadagnano, la cosiddetta situazione win-win.

L’Europa come noi la conosciamo nasce così. Che cosa è accaduto nel corso del tempo? Sono accadute fondamentalmente alcune cose. La prima è che la macchina messa in moto ha prodotto effettivamente un risultato: è nata una struttura industriale europea integrata che ha permesso i movimenti di capitale. L’industria europea nasce come una struttura oligopolistica e questo vuol dire che se si considera un qualunque settore economico, ad esempio il settore della metalmeccanica, a livello europeo ci sono tra le 5 e le 7 imprese che controllano tra il 70 e l’80% del mercato europeo. Quello che è avvenuto è stato un processo di ristrutturazione gigantesco a livello europeo, che ha prodotto una struttura integrata di carattere oligopolistico su scala europea. Questo è avvenuto attraverso acquisizioni e fusioni, alcuni hanno acquistato le imprese altri le hanno cedute.

Come fa questo processo a stare insieme a quella che viene ritenuta l’estrema frammentazione dell’industria europea? Sta insieme benissimo, perché il processo di integrazione è stato largamente deviato dalla presenza del capitale finanziario. Ciò significa che si può avere un gruppo anche di dimensioni enormi che controlla un intero settore industriale, non necessariamente perché ne è proprietario ma perché ha ritrasformato quel settore industriale in una serie di tanti affluenti che arrivano al fiume principale, che è lui, mentre tutti gli altri sono contratti di sub-fornitura. Se si guarda la mappa dell’industria europea, dovete metterci pochi protagonisti che possiedono un pezzo non piccolo dell’industria europea; poi per quello che non possiedono direttamente ci sono le partecipazioni intrecciate, e fuori dalle partecipazioni c’è un pulviscolo di imprese che produce solo per alimentare pochi protagonisti. Oggi nel nord dell’Italia, nella parte nord-occidentale, viviamo secondo il ciclo dell’industria tedesca: andiamo su quando l’industria tedesca va su e andiamo giù quando l’industria tedesca va giù, perché noi siamo un pezzo della struttura industriale tedesca. Se ci si sposta dal centro-nord verso Torino, c’è invece una forte relazione con la Francia. Siamo tornati ad una divisione dell’Italia che è precedente al 1960, con le sfere d’influenza della Francia da una parte e l’influenza tedesca dall’altra.

Questo è il modo in cui è avvenuto il processo di ristrutturazione industriale europeo e sto ancora parlando dell’Europa a 15. Poi c’è stato l’allargamento dell’Europa a 27 e che cosa è avvenuto? La struttura oligopolistica europea ha trasferito una parte del potenziale produttivo europeo direttamente nei paesi dell’Est, con il vantaggio che erano una parte dell’Europa e quindi non c’erano più le barriere doganali, gli ostacoli che potessero rendere più difficile il processo. Questo è avvenuto senza che ci fosse nessun processo di convergenza sui trattamenti sindacali: non c’è stato un allargamento del modello precedente dell’Europa a 15 ai paesi dell’Est, sono state trasferite solo le produzione. Basta andare a vedere i livelli di produzione per scoprire che in un paese c’è un’industria che produce frigoriferi, la cui produzione supera la domanda di quel paese per i prossimi 10 anni: è chiaro che lì non li stanno producendo per il consumo interno di quel paese ma per tutta l’Europa.

Quindi le tappe del processo di ristrutturazione sono avvenute con questi due processi: prima nell’Europa a 15 la creazione di una struttura oligopolistica, poi nell’Europa a 27 con l’allargamento della struttura produttiva che può produrre agli stessi standard di qualità dato che stiamo parlando di paesi dove c’era un’antica tradizione industriale . Questa situazione ha prodotto due diversi modelli di crescita in Europa.

Da un parte abbiamo il modello tedesco con i paesi dell’area del marco. I tedeschi hanno fatto un’operazione molto semplice, hanno utilizzato i super profitti realizzati estendendo le loro industrie all’estero per finanziare una crescita costante, attraverso investimenti, della loro capacità di innovazione tecnologica e miglioramento della struttura produttiva del paese. Quindi hanno creato un circuito virtuoso che si è accompagnato ad un’operazione sociale molto chiara. La Germania ha realizzato un blocco dei salari per cui i salari tedeschi sono costantemente calati come potere d’acquisto negli ultimi 15 anni: una costante deflazione salariale. Quindi sovraprofitti a Est e deflazione salariale all’interno e ciò non per intascare lauti dividendi, ma per investire nel sistema industriale tedesco e lanciare una politica neo-mercantile, tutta basata sulle esportazioni. I tedeschi hanno creato un sistema a loro vantaggio, basato tutto sulle esportazioni, non solo verso la Cina e India , tenendo presente che il loro peso nel commercio mondiale è ancora basso e non è possibile pensare che Cina e India possano assorbire da sole tutto il potenziale produttivo mondiale.

Cosa hanno fatto allora le industrie tedesche? Hanno venduto soprattutto al resto d’Europa, usando un altro meccanismo perché sono in grado di garantire attraverso il loro controllo del credito degli interessi molto bassi finanziando direttamente le loro esportazioni. La Grecia è stata la vittima predestinata. I tedeschi alla Grecia hanno finanziato la loro costruzione delle infrastrutture e l’ammodernamento dell’esercito greco e hanno creato una situazione non dissimile da quello che negli Stati Uniti è stato il subprime. Hanno finanziato un paese decisamente non in grado di reggere quell’indebitamento per finanziare le loro esportazioni. C’è poi un altro aspetto da considerare. Se un paese forza le esportazioni, siccome al mondo nulla si crea e nulla si distrugge, qualcun altro deve importare. Non può essere che tutti esportano, c’è una somma tra tutto l’export e l’import che deve fare 0. Quelli che dicono che noi in Italia dobbiamo fare come la Germania, dicono una stupidaggine. Se tutti in Europa facessimo come la Germania, dovremmo tutti esportare e ci sarebbe qualcuno che dovrebbe comprare. La politica di un paese di forzatura delle esportazioni è in genere una politica aggressiva che esporta disoccupazione negli altri paesi. Una grande economista inglese, Joan Robinson, definì questa politica con il nome di un popolare gioco di carte che si giocava in Inghilterra all’inizio del Novecento, il gioco consisteva nel fare fallire l’avversario: un gioco costruito sul fatto che tu esporti, gli altri importano, tu vinci e gli altri perdono in termini di occupazione. I tedeschi hanno costruito un circuito virtuoso a spese della loro classe operaia interna, che ha subito la deflazione e a spese dell’Europa intera perché non tutti sono stati nella situazione di importare.

Anche noi italiani siamo stati grandi esportatori d’Europa per cui anche per noi si può dire che abbiamo avuto una politica di tipo neo-mercantile. Qual è la differenza tra noi e i tedeschi? Noi invece di aver avuto una politica industriale abbiamo costruito un circuito di tipo parassitario, il rilancio delle esportazioni è avvenuto sempre con la svalutazione della moneta per garantire i profitti della struttura industriale esistente, senza nessuna capacità di innovazione. Inoltre mentre nella bilancia commerciale tedesca ci sono delle voci passive, le importazioni che in Germania servono a sostenere le loro industrie di esportazione, in Italia abbiamo messo insieme due componenti negative.

Complessivamente si può affermare che in Europa il processo di costituzione della struttura oligopolitica ha determinato un crescente squilibrio tra paesi che hanno costituito un circuito virtuoso, paesi che bene o male si sono barcamenati e altri che sono entrati in circuiti più o meno perversi. Si è così di fronte a situazioni profondamente differenti, la Grecia non è l’Italia, l’Italia non è la Spagna, l’Irlanda è un caso a se, perché è più dipendente dagli investimenti delle multinazionali non europee. Questo per dare l’idea di ciò che è avvenuto tenendo presente che questo sistema europeo ha un punto debole: il numero di prodotti in grado di produrre e riuscire a vendere. Il ciclo economico che si è determinato a livello mondiale, la cosiddetta globalizzazione, non ha visto, come si erano immaginati alcuni i teorici, delle persone passive a cui si poteva vendere sempre senza problemi con l’idea di avere “di fronte a noi un periodo infinito di crescita”. Quando il compratore è diventato il partito comunista cinese è stata da lui decisa un’altra linea. Primo che se volevi vendere in Cina dovevi fare le fabbriche lì. Secondo se facevi le fabbriche lì al massimo la proprietà poteva arrivare al 50% e all’inizio era minoritaria perché la maggior parte della quota capitale era loro. Terzo se facevi una fabbrica in Cina dovevi portare la tecnologia ultima di cui disponevi, non solo in termini di macchinari, ma anche di formazione dei lavoratori cinesi. Se no tu in Cina non entravi. Le aziende occidentali hanno accettato e questo ha provocato un gigantesco trasferimento di competenze che non si è mai visto prima nella storia umana. Loro hanno ricevuto in 15 anni un input tecnologico e di conoscenza enorme e a quel punto la Cina ha iniziato a costruire una sua capacità produttiva, che oggi ovviamente è in una situazione difficile tra una linea di pura esportazione e una linea rivolta al mercato interno: mi rivolgo al mercato internazionale oppure guardo al mio paese e cambio la natura della produzione per venire in contro alla domanda interna.

Queste sono le alternative in cui si trovano di fronte quasi tutte le aree del mondo. Se io produco in volumi sempre superiori devo trovare qualcuno che compri ciò che vendo perché la somma deve fare 0. Se la somma è positiva come è successo in Europa, anche se alcuni paesi sono stati più virtuosi e altri meno, vuol dire che siamo entrati in una linea di sovrapproduzione. La crisi di sovrapproduzione non vuole dire che vengono prodotte troppe merci in assoluto, ma che vengono prodotte troppe merci rispetto a quelle che possono essere vendute. È così che in Europa interi settori sono entrati in una crisi di sovrapproduzione, che ovviamente è stata fatta pagare ai lavoratori attraverso la cassa integrazione e l’insieme degli strumenti, compresi i licenziamenti che noi conosciamo bene. Quindi questa crisi di sovrapproduzione deriva da due cose: dall’idea che si possa mantenere la stessa struttura di produzione e di consumi che è stata conosciuta per un certo periodo storico e dall’idea che non ci sia un problema di innovazione in ciò che si produce perché al mondo c’è sempre tanta gente che avrebbe voglia di avere quella cosa lì e tu devi semplicemente trovare il modo di venderla, abbassando i costi e tutte le operazioni sul lavoro che sono state fatte. In Europa se si considera la Germania si può osservare che i tedeschi che hanno costruito da tempo un sistema di scambi con la Cina, compreso un grande afflusso di studenti e ingegneri cinesi che i tedeschi hanno finanziato per farli studiare in Germania. Hanno fatto un investimento strategico iniziato 20 anni fa con la Cina e ora ovviamente incassano il dividendo.

Visto questo quadro europeo ci si può chiedere che cosa sia avvenuto dei patti neo-corporativi. È successo che a un certo punto questi patti hanno perso ogni consistenza, perché questi patti nazionali dal punto di vista delle imprese dovevano servire ad alzare la competitività del singolo paese. Ma, nel momento in cui si è costituita questa nuova struttura oligopolistica in Europa, i protagonisti fondamentali dell’industria Europea, a loro cosa succede nel loro singolo paese interessa in modo relativo. Loro vogliono avere il livello più alto di competitività della loro impresa e non si raffrontano più al sistema di regolazione europeo, a come sono i contratti nelle singole nazioni. Loro si raffrontano ad uno scenario nel quale, siccome hanno forzato le esportazioni e devono vendere in tutto il mondo, il punto di riferimento è cosa succede nel mondo.

Ora nel mondo cos’è successo? Sono successi due fatti fondamentali. Primo la classe operaia è raddoppiata, questo con buona pace di quelli che ci hanno spiegato la fine dell’industria e della classe operaia. La classe operaia è declinata nel mondo fino al punto che ora è il doppio di quella che era prima. Come è avvenuto il raddoppio? È avvenuto in modo molto semplice per la presenza degli operai dell’Unione sovietica, della Cina e dell’India. La Cina è entrata nel World Trade Organization, l’India pure e la Russia pare sia in procinto di entrarci e i loro operai non sono più operai che producevano fuori dal mercato capitalistico, ma sono operai che producono dentro e in concorrenza sullo stesso mercato. Questo vuol dire avere una pressione negativa sui salari perché è raddoppiato il numero degli operai e non è raddoppiata la produzione. Le imprese, a seconda dei settori in cui operavano, sono andate a scegliersi il luogo dove localizzare le loro produzioni. Non è vero che c’è una gara al più basso salario, per cui avremo in Europa che tutti andranno a guadagnare 800 euro al mese, non è questo il panorama. Il panorama è completamente differente: avremo aziende con alti salari, con la piscina, gli asili nido e anche lo psicanalista se l’operaio e l’impiegato ha qualche problema e avremo aziende con lavoratori schiavi perché le loro condizioni dipendono dal tipo di competizione industriale scelta dalle imprese. Ci sono le aziende che competono solo sull’altissima tecnologia e sull’innovazione permanente e quelle devono fare una selezione differente e offrire condizioni differenti e aziende che vendono solo ore di lavoro con lavoratori che sono i nuovi schiavi.

La situazione che si è determinata a questo punto è una frammentazione assoluta dello scenario industriale perché non c’è più l’interesse al patto neo-corporativo classico nazionale. Non a caso in tutta Europa sta succedendo una cosa nuova: per la prima volta esiste forse un sistema di relazioni industriali europeo che purtroppo che va nella direzione di una distruzione del sistema di relazioni industriali esistenti nel senso che tutti giocano a depotenziare i contratti nazionali e a sviluppare accordi aziendali. Anche in Germania, dove sarebbe proibito che i consigli di fabbrica negozino, oggi la maggior parte degli accordi avviene a livello aziendale e vi sono anche gli accordi in deroga. Poi certamente si possono fare accordi in modo più intelligente oppure cialtronesco e questo dipende dai gruppi dirigenti e dal sistema di valori culturali condivisi. Noi in Italia non siamo di certo nel girone di serie A e la tendenza è quella di passare dalla costruzione di un disciplinamento complessivo dei lavoratori attraverso accordi nazionali ad un disciplinamento che avviene per settori industriali, per azienda, per branchie di impresa. Una situazione profondamente differente che ha provocato un terremoto. I patti tripartiti che erano sopravvissuti e di cui noi abbiamo testimonianza hanno acquisito sempre più una caratteristica aperta. Invece di essere patti in cui bene o male c’era uno scambio, adesso lo scambio non c’è più e quindi i sindacati si sono trovati ad un certo punto di fronte a una scelta molto importante.

Ma su cosa si basa il potere e la legittimità del sindacato? Nella storia europea il potere e la legittimità del sindacato nascono dalla sua capacità di mobilitare coloro che loro rappresentano e quindi è un circuito a due vie: il sindacato è forte perché i lavoratori seguono quello che il sindacato dice e i lavoratori seguono quello che il sindacato dice perché il sindacato rappresenta gli interessi dei lavoratori. C’è un circuito a due vie che alimenta la forza del sindacato e ne legittima il potere. Nel momento in cui si sono introdotti in Europa i patti neo-corporativi, la situazione è cambiata perché lo scambio di tipo corporativo dice al sindacato: la tua forza, la tua legittimità non derivano in primo luogo dalla tua capacità di mobilitazione che tu devi dismettere per rinunciare all’azione diretta ma dipendono in primo luogo dall’essere parte integrante del sistema istituzionale perché io ti riconosco come partner istituzionale. A tal punto fanno parte del patto che Delors fece l’accordo a livello europeo sulla possibilità di avere il cosiddetto dialogo sociale esplicitamente come scambio, per avere il consenso a livello europeo dei sindacati sul suo piano. Allora nel momento in cui il sistema entra in crisi perché non da più i frutti che doveva dare i sindacati sono di fronte ad una alternativa: o ritornare alla fonte principale del loro potere e della loro legittimità, e quindi rompere la gabbia, oppure stare dentro quegli accordi che non facevano sparire del tutto un contenuto di scambio, ma lo scambio era innanzitutto la sopravvivenza del sindacato come istituzione burocratica, come struttura, come organizzazione e in secondo luogo la tutela di un numero sempre più ridotto di lavoratori che rappresentano quelle quote di lavoro che rimangono dentro le aree forti del lavoro. Di fronte a questo noi abbiamo avuto paesi nei quali la scelta è stata forzata. La Thatcher ha semplicemente buttato fuori il sindacato e, anni fa, un sindacalista inglese mi ha confessato come la Thatcher sia stata una benedizione per i sindacati inglesi, perché aveva eliminato ogni possibilità di avere una fonte differente di legittimità del sindacato. In Europa abbiamo così avuto delle politiche come quelle della Thatcher in cui al sindacato è stato detto, quella è la porta, fuori, non esisti più e a quel punto si sono aperte altre dinamiche fino a Blair. In altre parti d’Europa, il declino del sindacato è avvenuto con meno traumi, con meno rotture e la scelta che ha prevalso è stata una scelta di tipo corporativo con il sindacato che sempre di più si barrica dentro una logica aziendalista, corporativa e questo processo è sempre più alimentato dalla crisi perché la crisi mette a nudo il fatto che i processi di ristrutturazione determinano se tenere questo stabilimento oppure quello. L’aspetto aziendalista corporativo non è solo per vincere nel mondo ma anche per sopravvivere.

Ultima questione, la questione democratica. Ormai è documentato da un certo numero di processi, articoli, libri che vengono da uno spettro politico molto ampio, che siamo di fronte a una crisi grave della democrazia negli Stati Uniti, in Inghilterra e in tutta l’Europa continentale, che deriva dal fatto che questi potentati industrial-finanziari hanno progressivamente acquisito un potere diretto nella gestione degli Stati. Non è vero che non esistono più gli Stati nazionali, gli Stati nazionali continuano ad esistere ma cambia la funzionalità delle loro strutture: le leggi, i regolamenti vengono progressivamente funzionalizzati fino ad essere funzionali al processo produttivo. Siamo di fronte al fatto che si è determinata una sorta di integrazione fra le élite industrial-finanziarie europee e quelle politiche, al punto che siamo ormai agli scambi: il primo ministro tedesco gestisce una parte del monopolio russo Gazprom, una parte del governo è nel consiglio di amministrazione di grandi imprese, il banchiere della Banca centrale europea può diventare il primo ministro di Atene. Siamo di fronte alla circolarità dei gruppi dirigenti e questo determina una grave crisi democratica. C’è una progressiva sottrazione della scelta delle decisione democratiche nei confronti dei cittadini: la situazione di emergenza è perfetta perché nell’emergenza bisogna sospendere tutte le discussioni inutili di tipo democratico. Nell’emergenza i cittadini sono visti come bambini che potrebbero anche dar fuoco alla casa, mentre i veri incendiari che ci hanno portato a questa situazione sono persone sagge viste come in grado di gestire l’uscita della crisi. Siamo al paradosso che l’aggredito diventa l’aggressore e l’aggressore quello che dovrebbe spegnere l’incendio.

C’è un’emergenza democratica di gravi proporzioni. In questa situazione l’esistenza della Banca centrale europea e dell’euro determina una situazione ulteriore di aggravamento della crisi, poiché non avendo avuto la possibilità di avere una politica fiscale comune in Europa, nessuno può svalutare ma non c’è neanche la responsabilità complessiva dell’Europa sulla situazione fiscale ed economica dei singoli paesi. C’è una via diretta alla catastrofe, se si è dentro all’unione monetaria dove non c’è la responsabilità complessiva degli atti di natura politica e fiscale, chi è in una posizione forte schiaccia gli altri, non c’è una possibilità di uscita ed è la ragione per la quale le vicende direttive della BCE sono tutte direttive votate al disastro, cosa sulla quale ormai c’è un coro di voci, non solo a sinistra (penso ad un giornale com il Financial Times che tutti i giorni spiega perché gli interventi europei fatti sono quasi sempre una sciocchezza). Tutte le misure prese in Europa sono misure che restringono l’attività produttiva di tutti i paesi che sono sottoposti a queste misure draconiane, il che che determina una spirale negativa che è ovviamente pagata dai cittadini, tant’è vero che l’Inghilterra che ha preso questa decisione con il governo Cameron è già in recessione.

Di fronte a una situazione come questa, in cui c’è questo scambio di ruoli tra aggressore ed aggredito, ci si può chiedere: ma allora perché non conviene uscire dall’euro? Perché allora non facciamo una bella svalutazione della moneta e recuperiamo la nostra? Questo è possibile ma dobbiamo fare i conti: se noi uscissimo oggi dall’euro la nostra moneta varrebbe il 60/70% in meno. Stiamo parlando di una situazione dove non credo si possa parlare di una via d’uscita facile, non ne sono assolutamente convinto. La strada è quella di rimettere in discussione questo modello a livello europeo ma questo significa fare un’operazione che non si fa. Non credo ci sia un governo salvifico che ci porti fuori, anche perché le classi dirigenti fanno parte di quel contesto industrial-finanziario politico di cui si parlava prima. Mantengo un punto interrogativo su cosa può fare la Francia, sul resto francamente non credo esista oggi nessuna alternativa politica disponibile e in grado di fare questa operazione.

Sono convinto che questa operazione vada fatta ricostruendo un mestiere antico, che è quello di lavorare tra la gente per fare due operazioni: 1) Ricostruire i circuiti di solidarietà a tutti i livelli. I cattolici, che non sono stupidi, si stanno muovendo in questa direzione con il seminario che hanno fatto a Todi, mettendo insieme tutte le strutture cattoliche che operano nella società civile per costruire una gigantesca offerta di servizi alla società italiana nel pieno della crisi; offerta benedetta dalla sinistra (penso al sindaco di Bologna). Quindi la prima operazione è un’operazione per difendere tutte le strutture di solidarietà esistenti e quindi ricreare tra la gente un legame forte che nasce dal fatto che c’è una situazione di crisi: ci vogliono affondare e noi ci mettiamo insieme per resistere; 2) Combattere le tendenze nazionaliste e corporative. Per un sindacato significa che non è più possibile rinviare una messa in discussione di tutto il modello sindacale europeo e questo bisogna dirlo con chiarezza, non come stanno facendo le delegazioni sindacali europee che stanno discutendo di niente. Sono stato invitato come esperto per la FEM (Federazione europea metalmeccanici) e mi hanno detto che c’era un comitato importantissimo sull’auto che voleva sapere dal sindacato la quota ammissibile di CO2 dal tubo di scappamento degli ultimi tipi di motore. Questa è una presa in giro che non ha più alcun senso, trattandosi di inutili pareri consultivi. Dobbiamo essere consapevoli che di tutta la costruzione che è stata fatta del dialogo sociale, rimangono oramai solo delle ombre. Non si tratta di strappare niente, ma di cambiare tono e registro. Ad esempio il sindacato europeo dovrebbe dire che non è d’accordo su come è costruita la Banca europea, sul ruolo, su come è organizzata e sulla sua missione. Si tratta di mettere in discussione lo schema stesso delle misure di austerità, si tratta passare ad un altro modo di fare politica. Oggi tutto questo, con l’offerta politica che c’è, non è nella nostra disponibilità. Bisogna trovare un’offerta politica positiva, operare per costruire una struttura che permetta di resistere, di risalire la china e di smontare quelle tendenze. Se la situazione attuale è stata creata da esseri umani, significa che è possibile invertire la rotta e affidarsi all’unica strada possibile: ricostruire tra la gente quella fiducia, quei legami sociali che permettono di affrontare la tempesta.

Mi hanno riferito quello che Gallino ha detto a Torino. Ho un’idea precisa di cosa vuole dire la guerra e non posso dimenticare che in Europa abbiamo avuto due guerre mondiali con milioni di morti. Sarebbe il caso di non rimettere l’Europa in una situazione nella quale si determinano di nuovo delle possibilità di gravi rotture. Visto che siamo in una situazione che a livello internazionale fa paura e si riaccendono tutti i conflitti immaginabili credo che tenere la rotta contro una chiusura corporativa-aziendalistica sia una sicurezza non solo per noi, ma anche per i nostri figli e nipoti.

 

La relazione di Francesco Garibaldo è stata presentata a Roma l’8 novembre 2011  nell’ambito del  seminario promosso dalla Fiom Cgil dal titolo «Le politiche europee, il patto di stabilità, democrazia e cittadinanza». L’intervento è disponibile integralmente su You Tube da cui è stato tratto solo con piccole modifiche formali.

 

Category: Lavoro e Sindacato, Osservatorio Europa

About Francesco Garibaldo: Francesco Garibaldo (1944) si è 
laureato in Scienze Politiche, Indirizzo Sociologico, all'Università degli Studi di Bologna, con una tesi dal titolo «Dall'automazione di Detroit all'automazione flessibile. Verso quale organizzazione del lavoro?». Dal 1972 al 1991 ha ricoperto incarichi di direzione nel sindacato dei lavoratori metalmeccanici aderente alla Cgil (Fiom), tra cui quello di segretario generale della Fiom della Regione Emilia-Romagna. Nello stesso periodo ha affiancato all'attività di dirigente sindacale quella di ricerca sui temi di sociologia quale l'analisi della struttura produttiva, dell'organizzazione del lavoro e dell'innovazione tecnologica. Dal 1992 al maggio 1998 è stato direttore dell’Ires nazionale, istituto di ricerca della Cgil. È stato membro del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (Cnel) per la consigliatura 1995-2000, sino al maggio 1998, e lo é stato nella precedente consigliatura. Dal maggio 1998 a marzo 2008 è stato direttore dell’IPL Fondazione Istituto per il Lavoro, creata dalla Regione Emilia-Romagna, a Bologna. Da aprile 2008 è uno dei tre liquidatori dell’IPL. Dal 1999 al giugno 2008 è stato direttore della rete Regional and Local Development for Work and Labour (RLDWL) di cui è, dopo il 7° congresso, svoltosi a Pechino, presidente. Con il 6° Congresso il compito di garantire la continuità della rete è passato al Crises di Montreal (Canada) e il Prof. Dr. Denis Harrisson è il nuovo direttore. È stato membro della commissione nazionale d’indagine sul lavoro costituita presso il Cnel tra il 2007 e il 2009. Nel semestre invernale 2009-2010 ha svolto i seguenti seminari alla Università Cattolica di Eichstätt- Ingolstadt: Industrial relations and work organization e Group work in the automotive industry.

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