Federico Martelloni: Superamento o intensificazione del lavoro precario nel Jobs Act
Intervento di Federico Martelloni (professore associato in diritto del lavoro all’Università di Bologna) al convegno Oltre il Jobs Act, tenuto a Bologna il 6 novembre 2015, organizzato da L’altra Emilia Romagna
1. Premessa
Il convegno odierno, la sua filosofia, l’invito a guardare “oltre il Jobs Act, ci consegna, al fondo, il difficile compito di esaminare il rapporto tra lavoro e cittadinanza, senza limitarci a fotografare il grado di usura di questa storica relazione, specialmente al tempo della crisi. Ebbene, non renderemmo un buon servigio alla causa, se ci limitassimo a sostenere che una lunga tradizione giuridica, alcune solenni dichiarazioni internazionali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, più in generale, molta letteratura sui diritti sociali fondamentali ci consegnano un catalogo di beni e valori, per così dire, indisponibili e irrinunciabili (non-mercantili), ancorché drammaticamente vanificati nella trappola della precarietà diffusa.
Tale approccio, tipico dell’umanesimo universalista di matrice europea, peraltro di nobilissima ascendenza, rischierebbe, in una fase come quella presente, di farci arenare sulle secche della crisi economica: entrando in un dibattito ad alta densità dottrinaria, discuteremmo del livello ove fissare l’asticella dei diritti indisponibili, finendo per dividerci tra utopisti e realisti. I primi, in ossequio alle proprie inclinazioni (e, certo, con dotti e ragionevoli rimandi ai principi espressi nelle costituzioni nazionali del dopo-Weimar), la porrebbero ad un livello elevato, oggi, apertamente contraddetto dagli sviluppi dei diritti positivi nazionali (specialmente in Italia e Spagna[1], ma, più in generale, nel cuore stesso dell’Europa sociale), finendo per vedere smentiti, de facto, tutti gli attributi comunemente riconosciuti ai diritti sociali fondamentali; i secondi, nel tentativo di preservare le caratteristiche dei diritti sociali fondamentali, finirebbero per ridurne il contenuto e il novero ad un esiguo “galateo delle buone maniere” (tutela antidiscriminatoria, diritto al preavviso in caso di licenziamento, tutela della salute e sicurezza del lavoro, libertà sindacale)[2].
Per schivare questa doppia trappola, si potrebbero, invece, indagare le matrici delle più recenti tendenze del diritto del lavoro italiano ed europeo che precedono e accompagnano l’emergenza sociale che oggi osserviamo.
1) Si tratta, in primo luogo, di mettere a fuoco la c.d. emergenza occupazionale, per comprendere l’uso che di tale emergenza è stato fatto in passato e viene fatto oggi in Europa. Esaminare, insomma, la grammatica della nozione d’impiego, elaborata con il contributo determinante degli economisti, per fare emergere il suo carattere essenzialmente totalitario (vedremo in quali accezioni). Pure riflettendo sugli effetti che questo totalitarismo ha sortito tanto sulle più recenti evoluzioni del diritto del lavoro (e del mercato del lavoro) in Italia e in Europa, quanto sullo stato della democrazia.
Si potrebbe sintetizzare questa prima questione nel modo che segue: in Italia e in Europa, si sta conducendo una guerra all’impiego, inteso come status, in nome dell’impiego, inteso come tasso.
Detto in termini meno ellittici e più didascalici, in nome dell’emergenza occupazionale, intesa come “tasso d’impiego” (misurabile e traducibile in cifre, numeri e dati), è stata lentamente, ma progressivamente, destrutturata la nozione d’impiego come status, e cioè come corredo di diritti e garanzie che, agli albori del diritto del lavoro, hanno consentito alla nozione di impiego di affermarsi e consolidarsi nel discorso pubblico e nel dibattito scientifico. Per stare all’archeologia della nozione d’impiego, si pensi al fatto che la prima legge italiana sull’impiego privato[3] regolava, appunto, il rapporto di lavoro dei soli impiegati, marcando una netta linea di demarcazione tra lo status di questi ultimi e la condizione operaia (protetta dalla sola, esigua e frammentaria, legislazione sociale di fine ‘800). I giuslavoristi italiani ben conoscono l’importanza di questa parte della “legislazione cingolata” di epoca fascista, da cui – non a caso – il legislatore del Codice civile italiano del 1942 (tutt’ora vigente) attinse a mani basse per disciplinare il rapporto di lavoro subordinato. Essa ospitava, per la prima volta, un’organica disciplina di tutti i principali aspetti del rapporto di lavoro degli impiegati (costituzione, svolgimento, orario, sospensioni, cessazione del rapporto di lavoro) e soprattutto conteneva, al proprio interno, il principio d’inderogabilità delle norme lavoristiche: ai sensi dell’art. 17 del regio decreto n. 1825, le norme ivi contenute si sarebbero dovute osservare “malgrado ogni patto contrario” (salvo il caso di particolari convenzioni o di usi più favorevoli all’impiegato e salvo che il decreto ne consentisse espressamente la “deroga consensuale”).
La nozione di impiego, insomma, nasce con molti dei connotati che accompagneranno gli sviluppi del diritto del lavoro del dopo-guerra: come corredo di tutele e diritti assicurati al prestatore di lavoro (l’impiegato) da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (corporativo).
2) In secondo luogo, deve mettersi a fuoco un’altra emergenza, che trova la propria matrice nella contrapposizione tra insiders e outsiders, salita agli onori della cronaca europea nel corso dell’ultimo ventennio. Nella declinazione (anche normativa) più in voga, l’esigenza di proteggere i lavoratori esclusi dalla “cittadella del diritto del lavoro” giustificherebbe una redistribuzione, a loro favore, delle tutele di cui soltanto gli inclusi hanno per lungo tempo beneficiato; quasi che – per dirla con una felice battuta di Umberto Romagnoli – fosse sufficiente mandare dal barbiere i capelloni per far crescere i capelli ai calvi. L’affermazione di tale discorso nella sfera pubblica ha prodotto un progressivo svuotamento delle tutele assicurate ai lavoratori standard nei confronti del datore di lavoro, mentre la coeva esigenza di estendere tutele ai lavoratori più fragili si è risolta in una promessa sempre rinviata e mai compiutamente mantenuta.
Si potrebbe rubricare questa seconda questione con la formula che segue: la crisi del diritto del lavoro si è convertita nel diritto del lavoro della crisi.
In altri termini, la crisi del diritto del lavoro, intesa come riduzione del suo campo d’applicazione e della sua capacità regolativa – in ragione dell’ampio ricorso al lavoro “atipico”, specialmente “parasubordinato” e, più in generale, la “fuga dal diritto del lavoro” – ha rappresentato una leva molto potente per compromettere le fondamenta sulle quali era stato costruito l’edificio del diritto del lavoro del novecento (eguaglianza, stabilità, inderogabilità, rilevanza della dimensione collettiva).
Nel caso italiano, questo discorso ha avuto, nel nuovo secolo, due declinazioni fondamentali.
In un primo tempo, i provvedimenti legislativi assunti nel campo del lavoro autonomo “parasubordinato” (sia in funzione di contrasto all’utilizzo del falso lavoro autonomo, sia in funzione di tutela dei lavoratori autonomi genuini) hanno giustificato l’introduzione di massicce dosi di “flessibilità in entrata” sul mercato del lavoro, nel campo dei rapporti di lavoro subordinato.
In un secondo tempo, con l’alibi di introdurre forme di protezione universali “nel mercato del lavoro”, sono state ridotte le tutele “nel rapporto di lavoro”, intervenendo specialmente sui rimedi al licenziamento illegittimo (c.d. “flessibilità in uscita”).
In tal modo, la crisi del diritto del lavoro, intesa come riduzione della sua capacità regolativa, da problema del presente è stata elevata a programma per il futuro.
2. La teoria economica irrompe nel dibattito giuslavoristico
L’emergenza occupazionale e la fuga dalla subordinazione hanno scandito le tappe fondamentali del dibattito giuslavoristico italiano degli anni ’80 del XX secolo. Quel decennio fu aperto, non a caso, dalla discussione sul garantismo flessibile, avviata da un giurista del calibro Gino Giugni[4]; e fu chiuso da un importante convegno trentino del 1988 attorno ad un tema – i dintorni del lavoro subordinato[5] – che avrebbe impegnato, per lungo tempo, i migliori studiosi.
Nel medesimo periodo, tuttavia, anche gli economisti dismettevano la propria tradizionale indifferenza per il diritto del lavoro, iniziando a cimentarsi dapprima con le teorie della disoccupazione, in un secondo tempo con le valutazioni econometriche sull’efficacia della regolazione lavoristica, in ultimo con il tema della certezza/incertezza prodotta sugli agenti economici dal diritto del lavoro (e dalla sua applicazione giudiziale). Come vedremo oltre, le idee maturate in seno alle disciplina economiche finiranno per avere, sul diritto del lavoro del nuovo secolo, un impatto assai più significativo delle riflessioni avviate dagli stessi giuslavoristi.
2.1. Il carattere totalitario della nozione di impiego e le sue “armi”
A partire dagli anni ’80, si è affermata, sulla scorta di una teoria della disoccupazione elaborata da economisti di formazione neoclassica[6], l’idea dell’esistenza di una relazione inversa tra tasso di protezione del lavoro e livelli occupazionali.
Così, nella valutazione e nella selezione delle diverse ipotesi di intervento sul mercato del lavoro, la questione dell’impiego ha iniziato a giocare un ruolo molto rilevante[7], presentandosi, per lungo tempo, come ragione giustificatrice dell’introduzione di massicce dosi di flessibilità, tanto “in entrata” nel mercato del lavoro, quanto “in uscita”.
Secondo un’opinione che ancora continua a raccogliere consensi, esisterebbe un rapporto inversamente proporzionale tra livelli di protezione del lavoro e livelli occupazionali, tale per cui al fine di perseguire il prioritario obiettivo dell’aumento del tasso di impiego sarebbe necessario intervenire per via normativa abbassando gli standard di tutela previsti a protezione del prestatore di lavoro[8].
Negli anni più recenti, e specialmente nella stagione 2003-2015, la retorica dell’impiego ha costantemente accresciuto il proprio ruolo di condizionamento sulla disciplina, giungendo a rappresentare il principale parametro di valutazione dell’efficacia o inefficacia della regola giuridica di marca lavoristica[9].
Valutare il diritto del lavoro attraverso la nozione di impiego pone innanzitutto un problema di identificazione e definizione dell’unità di misura[10]. Come abbiamo visto, il diritto del lavoro del secondo dopoguerra, maturato in un contesto di (almeno tendenziale) piena occupazione, si poneva il problema della protezione dell’impiego, principalmente, in un duplice senso:
a) come problema del mantenimento dei rapporti di lavoro in essere, attraverso la laboriosa edificazione della disciplina limitativa dei licenziamenti;
b) come necessità di costruire rapporti d’impiego che avessero uno statuto conforme al disegno costituzionale: stabilità del vincolo contrattuale ex art. 4 Cost e 41, comma 2; proporzionalità e sufficienza della retribuzione ex art. 36, Cost.; tutela in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia ex art. 38 Cost.; garanzia delle libertà sindacali e del diritto di sciopero ex artt. 39 e 40 Cost., anche intesi come strumenti di promozione dell’uguaglianza sostanziale, in ossequio agli impegni solennemente affidati alla Repubblica della Carta costituzionale (art. 3, comma 2, Cost.).
Per contro, la nozione di impiego da cui prende le mosse la valutazione delle performance del diritto del lavoro ha un alto grado di astrattezza, non ha caratteristiche definite e, quando ne assume, le assume in sostanziale opposizione a quelle tradizionali[11]. Si costruiscono politiche per l’impiego introducendo tipologie contrattuali che consentono il sotto-inquadramento dei lavoratori, con forme, più o meno palesi, di salario d’ingresso (ciò che accade, in Italia e altrove, per i così detti contratti a causa mista come ad esempio il contratto di apprendistato); viene stravolta la disciplina di istituti tradizionali come il contratto di lavoro a tempo parziale, introducendo clausole che consentono al datore di lavoro di modificare unilateralmente la collocazione (clausole flessibili) e l’estensione temporale (clausole elastiche) della prestazione lavorativa; si contraddice il carattere eccezionale dei più diffusi contratti non-standard, come il lavoro a tempo determinato o il lavoro tramite agenzia, eliminando la necessità di giustificare il ricorso a tali forme di impiego temporaneo con ragioni oggettive di natura temporanea[12]. Peraltro, nella più recente stagione, si incentiva la conclusione dei contratti standard tramite modifiche altamente peggiorative della disciplina dei licenziamenti[13].
In sostanza, in nome dell’«impiego», considerato, in termini meramente quantitativi, come tasso d’occupazione[14], è stata condotta una vera e propria guerra ai danni dell’impiego, inteso, in senso qualitativo, come corredo di diritti e garanzie da riconoscere alle persone bisognose di lavorare per vivere.
Se possiamo agilmente rilevare l’esistenza di una polisemia della nozione di impiego, va parimenti riconosciuto che molti elementi giocano a favore della prima accezione segnalata (l’impiego come “tasso”), se non altro in ragione dell’elementare rilievo – di ardua confutazione – che senza lavoro è ben difficile che possa continuare ad esistere un diritto del lavoro.
Il portato di ciò finisce con l’essere dirompente, poiché ascrive alla nozione di impiego – come tasso, cifra, numero – un carattere “totalitario”. Ciò, in un duplice senso: da un lato, l’impiego finisce per essere “assorbente” rispetto a tutte le altre priorità del diritto del lavoro (stabilità e durevolezza dei rapporti, eguaglianza/equità della retribuzione, inderogabilità degli standard normativi, legali e contrattual-collettivi ); dall’altro, l’impiego – id est l’emergenza occupazionale – dirime a priori i conflitti tra le parti in causa (politiche, sociali e sindacali) le quali – pur rappresentando interessi diversi e contrapposti – si sentono costrette a cooperare in nome di un comune e prioritario obbiettivo: elevare il tasso di occupazione.
2.2. La rappresentazione del diritto del lavoro come fattore d’incertezza
Anche sulla scorta dell’emergenza occupazionale, nella stagione a cavallo tra i due secoli è maturata l’abitudine di caricare sulle spalle del diritto del lavoro colpe e responsabilità molto onerose.
Con riferimento alle colpe, sono stati imputati al diritto del lavoro i più diversi capi d’accusa. Tra i più classici, l’eccesso di rigidità, tale da rendere il diritto del lavoro poco adattabile alle nuove esigenze delle imprese e del mercato globale; tra i più eccentrici: l’accusa di egualitarismo; tra i più cinici: la colpa di produrre disoccupazione e generare disuguaglianze[15], contraddicendo le ragioni stesse della propria esistenza[16].
Con riguardo alle responsabilità, è stata riposta nel diritto del lavoro – o meglio, nella sua modernizzazione[17] – una fiducia probabilmente eccessiva: le continue riforme del nuovo secolo hanno esplicitato, tra i loro obiettivi, quello di generare nuovi posti di lavoro, definiti, volta per volta, «piena e buona occupazione», «occupazione di qualità» o, di recente, occupazione «a tempo indeterminato» (anche se i contratti a tempo indeterminato – come vedremo – sono stati privati della stabilità, ossia della condizione indispensabile a garantire l’effettivo esercizio di ogni diritto, sia individuale sia collettivo).
Per espiare le sue colpe, il diritto del lavoro si è molto trasformato nel corso del tempo: a partire dagli anni ’90, la flessibilità è stata, senza dubbio, il vettore di una trasformazione che ha riguardato non soltanto il mercato del lavoro – il quale ha accolto una serie di contratti non-standard – ma anche l’impresa, contrassegnata da fenomeni di scomposizione e outsourcing, ampiamente favoriti dalla legislazione[18].
In tempi più recenti, poi, è stato attribuito al diritto del lavoro un nuovo, inedito, capo d’accusa, dotato di appeal particolare nel tempo veloce della competizione globale[19]: quello di produrre incertezza. Un reato aggravato dal fatto di scoraggiare l’impiego, producendo disoccupazione e nuove disuguaglianze tra garantiti (gli insiders) e non-garantiti (gli outsiders).
Quando, con la crisi economica, la disoccupazione è diventata emergenza drammatica, nessuno è più riuscito a difendere il diritto del lavoro. Sono, così, state approvate in Italia, nell’arco di soli 5 anni, una serie di riforme – legge n. 183 del 4 novembre 2010 (Collegato lavoro); legge n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero); dalla legge n. 78/2014; legge-delega n. 183 del 10 dicembre 2014 e relativi decreti attuativi (Jobs Act) – che lo hanno completamente trasformato, proprio in nome dell’esigenza di dare certezza alle imprese, per spingerle ad assumere.
Lo spirito comune di quest’ultima stagione di riforme è costituito dall’intenzione, espressamente manifestata dal legislatore, di tenere il giudice del lavoro lontano dagli affari dell’impresa, limitando o escludendo il controllo giudiziale sui provvedimenti e le scelte di carattere economico e organizzativo ritenuti di esclusiva competenza del datore di lavoro, addirittura quando egli abusa dei propri poteri. Ciò, sia al momento delle assunzioni con forme contrattuali non standard (c.d. flessibilità in entrata), sia al momento del licenziamento (c.d. flessibilità in uscita).
Negli anni della crisi economica, il legislatore ha, dunque, raccolto l’invito, contenuto nel Libro verde della Commissione Europea del 2006, a rivedere la regolamentazione dei contratti standard, a partire dalla disciplina del licenziamento, pensando di compensare questa nuova flessibilità nel rapporto di lavoro standard con misure di tutela nel mercato del lavoro (nuove forme di assicurazione contro la disoccupazione involontaria), e con presunti interventi di contenimento delle forme contrattuali non-standard. Ma, allo stesso tempo, il legislatore ha ritenuto di dover conciliare le indicazioni del Libro verde anche con i suggerimenti di alcuni economisti[20], i quali hanno presentato il diritto del lavoro come fattore d’incertezza, e conseguentemente, d’indebito turbamento del calcolo d’anticipazione razionale degli agenti economici. Bersaglio della critica degli economisti non era più lo standard di tutela assicurato dal diritto del lavoro (il così detto tasso di rigidità del mercato del lavoro)[21]. Bersaglio della critica era, invece, l’imprevedibilità del diritto del lavoro, incarnata dal giudice, le cui aleatorie decisioni, soprattutto in materia di licenziamenti per motivi economici, sarebbero state alla base della ritrosia dei datori di lavoro ad assumere nuovo personale. Al fine di favorire l’occupazione, gli economisti suggerivano, pertanto, di circoscrivere o addirittura escludere, per un certo tempo, l’intervento del giudice, immaginando tecniche di regolazione alternative che consentissero alle imprese di conoscere in anticipo il costo economico di provvedimenti che incidono sul rapporto di lavoro, con particolare riguardo alla sua rottura.
Tale duplice ispirazione, la cui prima diretta traduzione normativa è stata rappresentata dal Contrat Nouvelle Embauche (CNE) francese, si è mostrata evidente, anche in Italia, nelle leggi n. 183/2010 (Collegato lavoro 2010)[22] e n. 92/2012 (riforma Monti-Fornero)[23], ed ha avuto il suo massimo riscontro con le riforme in materia di lavoro messe in opera dal Governo Renzi.
3. Il diritto del lavoro del nuovo secolo.
Per lungo tempo si è tentato di continuare a descrivere la stagione di riforme che hanno investito il diritto del lavoro italiano ed europeo a cavallo tra i due secoli ricorrendo alla nozione di flessibilità, in contrapposizione ad una supposta rigidità, imputata al diritto del lavoro “classico” (1945-75). La nozione di flessibilità è stata poi affiancata, negli anni più recenti – specie dopo la pubblicazione del Libro verde della CE “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo” (2006) – da una diversa ed ossimorica nozione: quella di flessicurezza.
Osservando i tornanti fondamentali del diritto del lavoro italiano del nuovo secolo si ha, tuttavia, l’impressione che alcune antinomie, a lungo frequentate dalla dottrina giuslavoristica, non siano ormai così fertili: la dicotomia rigidità/flessibilità ha perso molto della propria capacità descrittiva.
Ci sono, invece, altre dominanti in grado di spiegare meglio la matrice e la natura di alcune trasformazioni avvenute sul piano della regolazione lavoristica: in primo luogo si riscontra, sia nella legge Biagi (d.lgs. n. 276/03) sia nella riforma Monti-Fornero (l. n. 92/2012) sia nel così detto Jobs Act del Governo Renzi (l. n. 183/2014 e relativi decreti attuativi) un ridimensionamento delle possibilità di ricorso al lavoro autonomo coordinato (la c.d. parasubordinazione) come sostituto commerciale del lavoro dipendente. Tali interventi di contenimento del lavoro autonomo parasubordinato sono stati presentati come il principale strumento di riduzione del dualismo del mercato del lavoro.
In secondo luogo – come si è visto – si è fatta sempre più pressante l’esigenza di dare certezza alle relazioni giuridiche, riducendo il contenzioso cui può dar luogo un rapporto di lavoro (artt. 30-32, l. n. 183/2010), oggi, specialmente, con riguardo alla sua qualificazione o alla sua rottura (§ 3.2). In ultimo, sul piano delle relazioni collettive, si riscontra una forte tendenza al decentramento contrattuale, contrassegnata dall’inedita rilevanza che assume, oggi, il contratto collettivo aziendale (o territoriale), ritenuto maggiormente idoneo ad “adattare” il diritto del lavoro al contesto nel quale agisce la singola impresa.
Ciascuna di queste dominanti è tuttavia contrassegnata da un’ambivalenza: nel discorso pubblico sul diritto del lavoro, la lotta ingaggiata dal legislatore nei confronti del falso lavoro autonomo è stata ampiamente “bilanciata” sul versante del lavoro subordinato. Ciò, in una prima fase, dall’introduzione di numerosi contratti “flessibili” nell’ambito della subordinazione, il che ha dato luogo ad una estrema frammentazione tipologica del lavoro subordinato (2003); in una seconda fase, l’inasprimento di quella lotta è stata accompagnata da uno svuotamento delle tutele riservate al lavoro subordinato a tempo indeterminato (c.d. rapporto standard), attestato dalla revisione della disciplina dei regimi di tutela contro il licenziamento illegittimo (2012-2015). Quanto all’esigenza di assegnare maggiore “certezza giuridica” ai rapporti di lavoro (id est: al datore di lavoro), il legislatore ha messo nel mirino il giudice del lavoro, con rilevanti ripercussioni sulla concreta giustiziabilità dei diritti soggettivi dei lavoratori (2010-2015). Sul terreno delle relazioni collettive, il progressivo favore accordato al contratto collettivo decentrato ha finito per produrre una vera e propria rivoluzione nella gerarchia delle fonti: oggi, in Italia, i “contratti di prossimità”, aziendali o territoriali (art. 8, l. n. 148/2011), possono, infatti, derogare (in senso sfavorevole ai lavoratori) non soltanto la disciplina contenuta nei contratti collettivi nazionali di lavoro ma anche nella stessa legge. Al contempo, attraverso la proposta dell’introduzione di un salario minimo legale[24] attualmente in discussione, ci si accinge a depotenziare ulteriormente il ruolo e la funzione del contratto collettivo nazionale.
L’intreccio di queste tre dominanti segnala una tendenza di fondo: quella alla “privatizzazione” della regolazione lavoristica. Ciò in un triplice senso: a) si riduce la effettività della regolazione di matrice statuale, come effetto della diffusione di rapporti di lavoro “precari” e delle modifiche al regime di stabilità nei così detti rapporti standard; b) si amplia il potere unilaterale del datore di lavoro, come effetto della limitazione opposta al controllo del giudice, specie (ma non solo) in materia di licenziamenti per motivi oggettivi; c) si comprime la latitudine degli ambiti di regolazione improntati alla salvaguardia di interessi generali (legge e contratto collettivo nazionale), come effetto dell’ammissibilità dei contratti collettivi di prossimità “in deroga”.
In questo senso è possibile qualificare il dritto del lavoro dell’ultimo decennio come un diritto del lavoro “minore”: la sua crisi d’identità, intesa come riduzione della sua capacità regolativa, dal rango di problema da risolvere è transitata al rango di programma da inverare, per garantire maggiore competitività ad imprese sempre più esposte alle turbolenze del un mercato globale (§. 4).
31. Il carattere «dominante» del lavoro subordinato: a che prezzo?
Uno dei principali argomenti, di derivazione economica, posti a sostegno delle riforme del lavoro dell’ultimo decennio è stato costituito – come si è anticipato – dall’esigenza di ridurre il dualismo del mercato del lavoro, caratterizzato dalla contrapposizione tra insiders e outsiders. Nel campo dei soggetti esclusi dalla “cittadella protetta” ha occupato un ruolo di primo piano il c.d. lavoro parasubordinato, la cui diffusione è stata molto rilevante, in Italia, anche in ragione di orientamenti giurisprudenziali e dottrinali particolarmente restrittivi in materia di subordinazione[25].
Con l’obiettivo di ridurre l’utilizzo del lavoro parasubordinato come mero sostituto commerciale del lavoro dipendente il legislatore ha introdotto, nel 2003, l’istituto del lavoro a progetto (artt. 61-69, d.lgs. n. 276/03): nella specie si è ritenuto di contrastare il fenomeno del ricorso al falso lavoro autonomo prevedendo che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (art. 409, n. 3 c.p.c.) fossero ricondotti ad uno o più progetti specifici (art. 61,), dettagliatamente descritti in un contratto a durata determinata (art. 62). Per le ipotesi di violazione di tali requisiti il legislatore ha disposto conseguenze vigorose: il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di stipulazione del contratto (art. 69).
Se, d’un cotè, ciò ha prodotto una effettiva riduzione del lavoro (autonomo) parasubordinato[26], dall’altro lato questa “anima laburista” della legge Biagi ha rappresentato, nel discorso pubblico, il principale argomento per giustificare l’introdurre di massicce dosi di flessibilità sul versante del lavoro subordinato: sono infatti venuti a luogo, accanto al lavoro a tempo determinato, già reso largamente utilizzabile nel 2001 (d.lgs. n. 368/01), anche il lavoro somministrato tramite agenzia, a tempo sia determinato sia indeterminato (artt. 20-27, d.lgs. n. 276/03), il lavoro a chiamata (artt. 33-40, d.lgs. n. 276/03), tre diversi tipi di contratti di apprendistato (artt. 47-53), il contratto d’inserimento (artt. 54-59) e altre fattispecie contrattuali minori.
Dopo la discussione europea in tema di flessicurezza, inaugurata dal Libro Verde della Commissione (cfr. CE, 2006, spec. pp. 3-4 e 9-11), anche il legislatore italiano ha avvertito il bisogno di contenere la «flessibilità marginale», sin troppo diffusa, intervenendo, contemporaneamente, sulla disciplina dei rapporti di lavoro standard.
Il governo Renzi, come il precedente governo di Mario Monti, ha ribadito di voler restituire centralità al contratto di lavoro standard. In questa prospettiva va inquadrata la presentazione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, prima come figura «dominante» (art. 1, co. 1, lett. a, l. n. 92/2012) e poi come «forma comune di contratto di lavoro» (art. 1, co. 7, lett. b, l. n. 183/2014). Il tentativo di inscrivere le riforme nel quadro del diritto dell’Unione europea, mutuando la nota formula impiegata nell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 99/70//CE si rivela, tuttavia, puramente retorica non appena si esamina la concreta regolamentazione dei contratti di lavoro. Secondo il diritto europeo, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è preferito perché «il beneficio della stabilità dell’impiego è da intendersi come un elemento portante della tutela dei lavoratori»[27], mentre con il Jobs Act – come vedremo (§ 3.2) – il contratto standard smarrisce proprio questa sua tradizionale qualità. Al contempo, con l’alibi di un ennesimo intervento nel campo del lavoro autonomo parasubordinato, ora sottoposto alla disciplina del lavoro subordinato ogniqualvolta sia etero-organizzato dal committente[28], non sono state affatto limitate le possibilità di ricorso ai più diffusi contratti di lavoro precario (§ 3.3). Se il Libro verde invitava a ridimensionare la «flessibilità marginale» (id est: l’uso di contratti non-standard), per ridurre il denunciato dualismo del mercato del lavoro, il legislatore italiano ha pensato bene di sganciare il lavoro temporaneo da ogni esigenza oggettiva di carattere temporaneo. Attraverso il primo provvedimento di cui si compone il Jobs Act[29] si è, infatti, eliminata la necessità di giustificare il ricorso al lavoro tramite agenzia e al lavoro a tempo determinato con «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», mantenendo come unico limite all’utilizzo del contratto a termine quello della durata massima di 36 mesi (peraltro superabile in caso di previsioni contrattual-collettive in tal senso)[30]. Il decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali approvato nel giugno 2015 conferma questa scelta, ed anzi la rafforza, facilitando persino il ricorso al lavoro somministrato a tempo indeterminato (così detto staff leasing). Queste scelte, in contraddizione con gli annunciati obiettivi di contenimento del lavoro precario, sono stati giustificati, ancora una volta, con l’esigenza di limitare il controllo del giudice sul ricorso a tali figure contrattuali, poiché, secondo il Governo, erano troppe le incertezze cui era esposto un datore di lavoro che “subiva” l’impugnazione di tali contratti dinanzi a un giudice, per mancanza delle ragioni oggettive che ne giustificavano l’uso.
Nella sostanza, insomma, il lavoro subordinato si è effettivamente imposto come «dominante» rispetto alle altre forme di lavoro autonomo, ma non è stato ridotto il novero dei contratti precari: sul piano della c.d. flessibilità “in entrata”, sono state eliminate forme contrattuali marginali come il lavoro intermittente (nel 2012) e il lavoro a coppia (nel 2015), mentre sono stati mantenuti tutti gli altri tipi contrattuali flessibili. Anzi: è stata addirittura allargata la possibilità di fare ricorso alle due più importanti fattispecie flessibili, essendo venuta meno la necessità di ogni giustificazione causale.
Parallelamente, sul piano della “flessibilità in uscita”, il legislatore ha modificato, per ben due volte nell’arco di tre anni, la disciplina dei rimedi previsti per il licenziamento illegittimo nelle imprese con più di 15 dipendenti (art. 18, Statuto dei lavoratori), ed ha confinato l’applicazione della tradizionale “tutela forte” (reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione) alle sole ipotesi di licenziamento nullo, perché determinato da motivo illecito o discriminatorio.
In definitiva, richiedendo maggior rigore nell’utilizzo del lavoro autonomo, il legislatore ha effettivamente affermato il carattere «dominante» o «comune» del lavoro subordinato, ma ad un prezzo estremamente elevato: l’ampia facoltà di fare ricorso alle più diverse forme di lavoro subordinato temporanee e l’indebolimento della stabilità dei rapporti standard, con conseguente diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori e riduzione dell’effettività della tutela lavoristica.
3.2 La securizzazione del datore di lavoro con riguardo alla rottura del contratto di lavoro
Con il decreto legislativo n. 23/2015 sul contratto a tutele crescenti, attuativo della legge delega n. 183/2014, si è completata, in Italia, la stagione del diritto del lavoro “prevedibile”, pure facendo tesoro delle vicissitudini di istituti similari sperimentati in altri ordinamenti.
Il Jobs Act non ha modificato le nozioni di “giusta causa” e “giustificato motivo soggettivo e oggettivo” le quali, in base alla legge n. 604/1966, permettono il licenziamento e ha “concesso” ai lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 di contestare in giudizio la legittimità dei licenziamenti non sorretti da una valida giustificazione. Si è pensato, così, di evitare le trappole in cui erano caduti altri contratti a tempo indeterminato con “prova lunga”, come accaduto allo sfortunato CNE francese nel 2008 e, da ultimo, al Contrato de Trabajo de Apoyo a los Emprendedores spagnolo. Se il primo era stato giudicato incompatibile con le disposizioni contenute nell’art. 4 della Convenzione OIL n. 158[31], il secondo, introdotto dalla Ley n. 3/2012, è stato dichiarato contrario all’art. 4.4. della Carta Sociale Europea da una recente sentenza[32], «non potendosi considerare in nessun caso ragionevole un periodo di prova di un anno».
È stato però trascurato dal legislatore italiano che in tali esperienze straniere, dopo un primo periodo di consolidamento, il rapporto di lavoro guadagnava il regime di stabilità comune ai normali contratti di lavoro, mentre il contratto a tutela crescenti è stato utilizzato al solo fine di modificare, per sempre, la disciplina dei rimedi contro il licenziamento illegittimo, marginalizzando definitivamente la restituito in integrum e prevedendo forme di monetizzazione non solo esattamente predeterminate, ma pure estremamente esigue. Infatti, salvo i casi eccezionali in cui ancora opera la reintegrazione – licenziamenti nulli per espressa previsione di legge, discriminatori e dettati da “motivo illecito” (art. 2) – i lavoratori illegittimamente licenziati avranno diritto ad una indennità di importo pari a 2 mensilità della retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità (art. 3, comma 1). Tale indennità addirittura si dimezza in caso di “vizi formali e procedurali”, derivanti da violazione di norme in materia di motivazione del licenziamento e procedimento disciplinare (art. 4). Al contempo, “al fine di evitare il giudizio”, è stato introdotto l’istituto della conciliazione-standard, con rinuncia all’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore che accetta un assegno bancario d’importo pari ad una mensilità per ogni anno di servizio (art. 6). È facile attendersi un ampio ricorso a tale forma di conciliazione, fortemente incentivata per via fiscale e processuale: l’importo[33] dell’assegno è, infatti, costituito da somme nette ed è (assurdamente) precluso ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti di utilizzare la più rapida corsia processuale istituita dalla riforma Fornero del 2012[34] () per le cause in materia di licenziamento (art. 11).
In buona sostanza, l’odierna via italiana alla securizzazione dell’impresa trascende di molto l’obiettivo – di per sé discutibile – di favorire la prevedibilità delle conseguenze di una scelta economico-organizzativa del datore di lavoro – come suggerito dagli economisti francesi – concentrandosi sulla predeterminazione del costo di un suo licenziamento illegittimo, anche quando la ragione invocata non sia economica ma personale o disciplinare.
3.3 Il riordino delle tipologie contrattuali: accentuazione della flessibilità in entrata nel campo della subordinazione e palliativi nel campo dell’autonomia
In un tempo non troppo lontano, il contratto a tutele crescenti era presentato come contratto unico[35] sicché era lecito attendersi che la sua introduzione preludesse all’eliminazione o, quantomeno, al vigoroso ridimensionamento della pletora di contratti flessibili cui le imprese fanno ricorso, in modo più o meno disinvolto, anche in presenza di esigenze produttive ordinarie. Tuttavia, il primo atto del Jobs Act (d.l. n. 20 marzo 2014 n. 34, convertito in l. 16 maggio 2014 n. 78)[36], ha sostanzialmente liberalizzato l’impiego del contratto a termine e della somministrazione di lavoro a tempo determinato, eliminando, in entrambe i casi, l’obbligo di giustificare il ricorso a tali istituti con un’esigenza oggettiva e verificabile. Tramite l’eclissi delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” quale presupposto giustificativo degli impieghi temporanei, è stato certo perseguito l’esplicito obiettivo – più volte ribadito dal Ministro in carica – di liberare il datore di lavoro da ogni incertezza derivante dal controllo giudiziale sulla sussistenza delle causali. Ma tale orientamento non appare coerente con l’esigenza, segnalata nel Libro verde del 2006 e astrattamente condivisa dal Governo in carica, di contenere la cd. flessibilità marginale, sostituendo alle molte forme di lavoro precarie un (più flessibile) contratto di lavoro a tempo indeterminato.
La tendenza non si è, affatto, invertita con l’elaborazione dello schema di decreto legislativo recante “il testo organico delle tipologie contrattuali”[37], il cui testo definitivo è stato approvato, con qualche modifica, il 15 giugno 2015, e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 24 di giugno[38]. Al contrario – com’è stato osservato[39] – la disciplina ivi contenuta “indebolisce ulteriormente i (pochi) vincoli residui, intervenendo con identica logica pure a proposito del “lavoro a tempo parziale” nonché del “lavoro accessorio” (che permette oggi esplicitamente di sottrarre alla disciplina tipica “attività lavorative di natura subordinata”, dalle quali derivino compensi fino ad importi stabiliti)”[40].
Con riguardo al lavoro a tempo determinato – che ancora costituisce la forma di lavoro flessibile largamente più diffusa – neppure i residui limiti del contingentamento[41] e della “durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi”[42] paiono invalicabili: se da un lato sono fatte salve, in ambo i casi, le “diverse disposizioni di contratti collettivi” di ogni livello, dall’altro il limite dei 36 mesi riguarda esclusivamente una successione di contratti “conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale” (art. 19, comma 2), sicché, a fronte dell’attuale formulazione dell’art. 2013 c.c., non è peregrino paventare un impiego disinvolto del nuovo ius variandi, proprio al fine di sfuggire al limite temporale massimo[43].
Se poi si guarda alla disciplina immaginata per istituti quali la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato e l’apprendistato, la manutenzione immaginata dal legislatore assume portata ancor più significativa.
Lo staff leasing – sino a oggi segnato da alterne vicende, per il particolare impatto sistematico determinato dalla sua introduzione – non conosce più alcuna limitazione di attività o di settore, essendo sempre permesso con il solo limite del contingentamento legale o negoziale: in base al primo comma dell’art. 31, d.lgs. n. 81/2015, il numero dei lavoratori somministrati non può, infatti, eccedere il 20% del personale a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore, salvo diversa previsione del Ccnl. Per quel che riguarda la somministrazione a tempo determinato, invece, essa non conosce alcuna limitazione legale, essendo utilizzata “nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore”. In questo caso, peraltro, non è affatto certo che per contratti collettivi debbano intendersi – come prevedono, in linea generale, le Disposizioni finali del decreto – quelli “stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 51), posto che il testo normativo fa qui espresso riferimento ai contratti applicati dall’utilizzatore, i quali potrebbero essere sottoscritti anche da organizzazioni sindacali diverse.
L’apprendistato di altra formazione e ricerca – tradizionalmente poco utilizzato ed assai meno appetibile del contratto a tutele crescenti, fino a quando saranno in vigore gli sgravi economici e contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato – scommette, per il proprio rilancio, sulla semi-gratuità del tempo di formazione, atteso che per la formazione esterna il datore di lavoro è completamente “esonerato da ogni obbligo retributivo”, mentre per quella interna “è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta” (art. 45, comma 3). Quello professionalizzante, invece, per i soggetti in età compresa tra i 18 e i 29 anni (art. 43), continua a trovale la propria prevalente regolamentazione nei contratti collettivi, fatto salvo il limite legale del rapporto massimo di 3 apprendisti a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio il datore di lavoro (art. 42, comma 7), e l’onere – peri soli datori che occupino più di 50 dipendenti – di confermare il servizio almeno il 20% degli apprendisti occupati nel triennio precedente per poterne assumerne di nuovi (comma 8).
In buona sostanza, nessuna fattispecie contrattuale afferente all’ambito del lavoro subordinato è stata cancellata, sicché l’intervento di contenimento sulla flessibilità in entrata si scopre limitato, ancora una volta, al solo versante del lavoro parasubordinato, cui sono destinate le disposizioni contenute all’art. 2 (Collaborazioni organizzate dal committente) ed agli artt. 52-54. In analogia con quanto avvenuto ai tempi del d.lgs. n. 276/03, anche oggi l’estrema flessibilità introdotta nel campo del lavoro subordinato è compensata da (modesti) interventi nel campo del lavoro autonomo, con la rilevante differenza che nell’alveo della subordinazione, oltre a consolidare ed estendere le forme flessibili in ingresso, altrettanta flessibilità ha investito la disciplina del contratto standard, mentre sul fronte del lavoro autonomo l’opposta direzione di marcia sembra tutt’altro che univoca.
Se si eccettua l’opportuno Superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro (art. 53), il trattamento riservato al lavoro autonomo coordinato è, davvero, estremamente ambiguo. Il legislatore, rinunciando all’idea di un corredo di diritti e tutele riservate ai collaboratori genuini – artt. 63, 66 e 67 del d.gs. n. 276/2003, come modificati dalla riforma Fornero del 2012 – supera la disciplina del lavoro a progetto, preferendo estendere in blocco il trattamento previsto per i subordinati alle collaborazioni coordinate e continuative organizzate dal committente. Ma i requisiti richiesti per tale estensione – in apparenza tre[44], nella sostanza uno: l’etero-organizzazione delle prestazioni di lavoro – lasciano campo libero alla resurrezione delle collaborazioni ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ., anche a tempo indeterminato e, come tali, disdettabili in ogni momento, almeno per tutte le attività con margini di autonomia in ordine all’organizzazione del tempo e luogo di lavoro.
Certo la stabilizzazione delle collaborazioni in corso è fortemente incentivata; ma al prezzo di un condono tombale (fiscale, contributivo e assicurativo) sull’intero pregresso (art. 54, comma 2) e, ovviamente, nell’odierna forma comune di rapporto di lavoro: ossia quello “a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Resta insomma l’impressione che il solenne richiamo, contenuto nel primo articolo del Capo I, alla cui guisa “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” (art. 1) suoni beffardo e di maniera: non soltanto le forme di lavoro temporaneo o intermittente, alternative a quella “comune”, sono ampiamente liberalizzate, non essendo il loro impiego presidiato da alcuna giustificazione causale, oggettiva e verificabile; ma la stessa forma comune, nella versione di nuovo conio, ha perso gli elementi che in seno al diritto dell’Unione europea giustificano la predilezione in tal ambito accordata: come ha rammentato di recente la Corte di Giustizia, il contratto a tempo indeterminato non è preferito in ragione della sua denominazione, bensì della funzione che assolve garantendo – se e quando la garantisca – “la stabilità dell’impiego, concepita come un elemento portante della tutela dei lavoratori”[45].
4. Diritto del lavoro “in tono minore” e crisi economica: un plausibile rovesciamento di prospettiva.
In conclusione, il modello di giuridificazione cui alludono le linee evolutive appena riassunte fa dell’impresa e della sua razionalità tecnico-produttiva (ma oggi persino del suo arbitrio) la fonte preminente della disciplina giuridica[46]. Oggi è l’impresa a costituire il vero baricentro della regolazione lavoristica, a prescindere dalla mediazione d’interessi di cui è espressione la norma più generale (di legge o di CCNL) e di cui è garante il giudice del lavoro.
La più recente disciplina italiana dei (rimedi ai) licenziamenti (illegittimi), unitamente al carattere a-causale dei contratti temporanei, mostra in modo plastico questa linea evolutiva, pure evidenziandone i limiti sul versante economico, sociale e giuridico. Sotto il profilo economico, essa non sembra molto lungimirante: prevedendo un regime di estremo favore per i (soli) datori di lavoro che abusano della flessibilità in entrata ed in uscita, specie quando estromettano dall’impresa i lavoratori più giovani o, comunque, neo-assunti, il legislatore limita la mobilità inter-aziendale e favorisce immancabilmente la “via bassa” allo sviluppo del sistema produttivo. Sul piano sociale essa è certamente ingiusta, perché non è possibile definire altrimenti una disciplina che prevede il pagamento di due mensilità di retribuzione per anno di servizio – o, più credibilmente, una mensilità, in caso di conciliazione – in favore del lavoratore che sia vittima di un licenziamento disciplinare anche del tutto sproporzionato (art. 3) o, peggio ancora, che sia estromesso dall’impresa nell’ambito di un licenziamento economico pretestuoso.
Insomma, se per un verso non è dato sapere quanto l’attuale riforma riuscirà a perseguire gli obiettivi occupazionali che si propone, per altro verso è assolutamente certo che essa farà riguadagnare all’unilateralismo datoriale le fattezze che aveva nel tempo in cui la norma più idonea a descrivere il lavoro nell’impresa era l’art. 2086 del Codice civile del 1942, secondi il quale l’imprenditore ne è «il capo» e «da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori». Ciò, con inevitabile moltiplicazione – invece che “rimozione” – di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e uguaglianza dei cittadini” (art. 3, comma 2, Cost.), potrebbero tornare a costringere il lavoro nella condizione di subalternità da cui molti fattori, non ultimo il “suo” diritto, lo avevano faticosamente, anche se mai compiutamente, emancipato.
L’ambizione regolativa del diritto del lavoro “classico” è, insomma, fortemente compromessa, mentre la sua crisi è elevata a programma in nome della concorrenza globale.
Di consueto, quanto al presunto nesso tra crisi economica, fiscale, occupazionale e diritto del lavoro si contrappongono due visioni: l’una vede nel diritto del lavoro un fattore rilevante nella determinazione e/o accelerazione della crisi (tanto da indurre elementi di “riforma” c.d. strutturale, che consentirebbero di invertire la tendenza)[47]; l’altra nega questa relazione, ritenendola indimostrata (e/o indimostrabile), mentre ascrive le origini della crisi ad altri fattori, del tutto estranei alla regolazione lavoristica di marca legale e contrattual-collettiva: la competizione originata dalla globalizzazione dell’economia (con particolare riferimento alla pressione esercitata dalle economie dei paesi emergenti); gli eccessi della finanziarizzazione; la mancanza d’innovazione di processo e/o di prodotto da parte delle imprese (soprattutto in alcuni paesi di prima industrializzazione); il deficit infrastrutturale o quello istituzionale (inteso come burocrazia, inefficienza o corruzione dell’amministrazione pubblica) ecc[48].
Ebbene, pur ritenendo non secondari i fattori da ultimo richiamati, potrebbe forse effettivamente stabilirsi una relazione tra la crisi (economica, fiscale e occupazionale) che stiamo attraversando e il diritto del lavoro. Ma è ben possibile ritenere che tale relazione si presenti in modo esattamente rovesciato rispetto a come viene, di regola, rappresentata. In estrema sintesi, vi sarebbero ottime ragioni per ritenere che l’arretramento dell’efficacia regolativa del diritto del lavoro, l’indebolimento della contrattazione collettiva e dei suoi frutti, la spirale di labilità in cui sono avvitati i diritti e le tutele di chi presta un’attività di lavoro per conto altrui, abbia inciso in ampia misura su svariati fattori macroeconomici che sono, più di altri, alla base della crisi economica[49]. La crisi odierna, secondo osservatori autorevoli[50], non affonda le proprie radici – come spesso si legge sulla stampa generalista europea – nella crisi del debito degli stati sovrani (che ne è una componente vera e, tuttavia, secondaria) bensì nella crisi del debito privato (in particolare, ma non solo, dei cittadini statunitensi). Prima di propagarsi su scala planetaria, anche a seguito della circolazione incontrollata dei prodotti finanziari derivati, l’attuale crisi economica si presenta, insomma, come crisi della domanda di beni e servizi su scala globale e, più precisamente – almeno nel biennio 2007-08 – come crisi di solvibilità di chi avanza questa domanda, in mancanza di risorse disponibili, ricorrendo all’indebitamento privato[51].
Se ciò è vero, può e deve stabilirsi nei termini appena accennati un nesso tra crisi economica e diritto del lavoro, giacché un deficit di regolazione giuslavoristica ha, se non determinato, quantomeno favorito la precarizzazione e il conseguente impoverimento (assoluto e relativo) di ampi settori della popolazione americana ed europea. In questa chiave, per uscire dalla crisi sarebbe certo necessaria – questa è oramai opinione corrente – una maggiore regolazione dei mercati finanziari; ma sarebbe altrettanto necessario più (e non meno) diritto del lavoro.
[1] AA.VV., L’impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea, Università Lumsa di Roma, 13 novembre 2014.
[2] Fontana G., Crisi economica ed effettività dei diritti sociali in Europa, in www.forumcostituzionale.it, 27 novembre 2013.
[3] Reggio decreto legislativo 13 novembre 1924, n. 1825, convertito in legge 18 marzo 1926, n. 562.
[4] V. Giugni G., Il diritto del lavoro degli anni ’80, in DLRI, 1982, p. 373 ss. il quale, con il suo saggio, inaugurava un fitto dibattito dottrinario sulla stagione del “garantismo nella flessibilità”.
[5] Pedrazzoli M. (a cura di), Lavoro subordinato e dintorni, Il Mulino, Bologna, 1989.
[6] Centamore G., Labour law and the global market economy: national vs. supranational, regulation vs. deregulation, paper presentato al Convegno Internazionale “Marco Biagi” La dimensione transnazionale delle relazioni di lavoro: un nuovo ordinamento in costruzione?, Modena, Auditorium Fondazione Marco Biagi – 18-19 Marzo 2013. L’A. evidenzia come la teoria della disoccupazione, di matrice neoclassica, si fonda, in sintesi sui seguenti assunti. L’aumento del tasso di disoccupazione (soprattutto nei paesi europei) a partire dalla fine degli anni ’70 si spiega in relazione a due fattori che hanno operato congiuntamente: i) gli “shock esogeni” energetici e monetari, provocando peggioramenti delle finanze pubbliche e della capacità produttiva, hanno posto sotto pressione le economie nazionali, alterandone le condizioni della domanda e dell’offerta del mercato (questo è il cuore delle analisi “strutturali”); ii) le “rigidità” del mercato del lavoro, che hanno impedito un riassestamento automatico delle condizioni della domanda e dell’offerta di mercato.
Le fluttuazioni del ciclo economico, cominciate alla fine degli anni ’70 e diventate una caratteristica strutturale dell’economia dei “paesi avanzati” (o ad elevata industrializzazione) non sarebbero gestibili, secondo questo modello, senza un mercato del lavoro altamente flessibile, in ordine alla possibilità per le imprese di utilizzare (assumere e dismettere) manodopera a costi contenuti, di far variare il livello dei salari, di potere operare in un sistema di contrattazione collettiva “agile” ed in generale di far variare i costi legati al lavoro in funzione del ciclo economico.
La deregolamentazione del mercato del lavoro diviene quindi un elemento di importanza centrale nella politica economica (la strategia europea dell’occupazione vi si ispira largamente, nell’obbiettivo di creare una “forza lavoro qualificata, addestrata, formata e adattabile che trovi protezione non dal o contro il mercato ma all’interno dello stesso”). In particolare, le “rigidità” o istituzioni del mercato del lavoro poste sotto attacco da questo approccio (uno dei modelli principali è quello cd. “insider-outsider”) sono:
a) le istituzioni del welfare state che assicurano sostegno al reddito in assenza di un’occupazione (specie se slegate dalla dimostrazione di essere attivamente alla ricerca di un lavoro e disponibili ad accettarne uno anche a condizioni peggiori), in quanto non invogliano alla ricerca di un nuovo impiego e favoriscono anzi un certo lassismo, quasi una disoccupazione volontaria o parassitaria;
b) i meccanismi di tutela del livello dei salari, ed in particolare la scarsa flessibilità della contrattazione collettiva e l’alto livello di sindacalizzazione (il sindacato è considerato artefice della creazione di monopoli e barriere all’entrata nel mercato del lavoro) che ha caratterizzato per lungo tempo gli stati europei nella seconda metà del novecento, che impediscono l’adattamento verso il basso del costo del lavoro alle fluttuazioni del ciclo economico;
c) i sistemi di protezione dell’impiego (EPL), che non consentono alle imprese di dismettere la forza lavoro prontamente ed in assenza di costi quando ne viene meno la necessità, che scoraggiano le imprese ad assumere nuovo personale.
La “ricetta” dell’OCSE, che ha trovato ampio riscontro nell’elaborazione della strategia europea per l’occupazione da parte delle istituzioni comunitarie (in particolare Commissione e Banca Centrale) consiste nell’adozione di un’agenda di deregolamentazione del mercato del lavoro che vada nella direzione di: introduzione di misure di flessibilità verso il basso dei salari, sviluppo della contrattazione collettiva a livello aziendale, allentamento della normativa su assunzione, cessazione del rapporto, orario di lavoro.
[7] European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, The Social Situation in Member States of the European Union: The Relevance of Quantitative Indicators in Social Policy Analysis, Dublin, 1998.
[8] Sapir A., Globalization and the Reform of European Social Models, Informal Meeting di ECOFIN, Manchester, 9 settembre 2005.
[9] Lyon-Caen A., Perulli A., (a cura di), Efficacia e diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2008.
[10] Del Conte M., Liebman S., I regimi di protezione dell’impiego nelle sintesi econometriche: tre domande per avviare un dibattito, in Politica economica, n. 3, 2004, p. 389.
[11] Lyon-Caen A., Perulli A., (a cura di), Valutare il diritto del lavoro. Evaluer le droit du travail. Evaluate labour law, Cedam, Padova, 2010.
[12] Legge n. 92/2012 e legge n. 78/2014
[13] Legge. n. 92/2012; Legge n. 183/2014 e d.lgs. n. 23/2015.
[14] Lyon-Caen A., Affichard J., Des normes juridiques aux normes statistiques: les politiques de l’emploi a l’eprevue de la coordination, in Studi in onore di Giorgio Ghezzi, vol. II, Cedam, Padova, 2005, p. 1071.
[15] Cfr., per tutti, P. Ichino, La stabilità del lavoro e il valore dell’uguaglianza, in Riv. it. dir. lav., 2005, p. 7 ss.
[16] Ichino A, Ichino P., A chi serve il diritto del lavoro. Riflessioni interdisciplinari sulla funzione economica e la giustificazione costituzionale della inderogabilità delle norme giuridiche, in RIDL, I, 1994, p. 460.
[17] Cfr. specialmente il Libro Verde della Commissione europea del 2006 Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo.
[18] Vedi, in particolare, le novità introdotte dal d.lgs. n. 276/2003. Tale legislazione, nota come “legge Biagi”, ha introdotto moltissimi tipi contrattuali alternativi al lavoro subordinato a tempo indeterminato, ed ha favorito l’outsourcing attraverso una nuova disciplina del contratto di “appalto di servizi” (art. 29) e del “trasferimento di ramo d’azienda” (art. 32).
[19] Lyon-Caen A., Perulli A. (a cura di), Liberalizzazione degli scambi, integrazione dei mercati e diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2004.
[20] Blanchard O., Tirole J., Protection de l’emploi et procédures de licenciement, Rapport du Conseil d’Analyse Economique, n° 44, La documentation française, Paris, 2003; Cahuc P., Kramarz F., De la Précarité à la Mobilité : Vers une Sécurité Sociale Professionnelle, Rapport du Conseil d’Analyse Economique, La documentation française, Paris, 2004.
[21] Del Conte M, Devillanova C., Morelli S., L’indice OECD di rigidità del mercato del lavoro: una nota, in Politica economica, n. 3, 2004, p. 335.
[22] Questa legge ha promosso forme di composizione delle controversie alternative al ricorso giudiziale (art. 31), ha introdotto termini di decadenza particolarmente stringenti per il ricorso alla giustizia del lavoro (art. 32, co. 1 ss.), ha predeterminato l’importo del risarcimento dovuto al lavoratore in caso di ricorso abusivo a forme contrattuali flessibili (artt. 32, co. 5 e 50) e, più in generale, ha compresso la latitudine del controllo giudiziale, specie in presenza di norme aperte o elastiche, particolarmente rilevanti in fase di costituzione ed estinzione dei rapporti di lavoro (art. 30, co. 1).
[23] Che ha modificato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori limitando la reintegrazione alle sole ipotesi in cui sia altamente prevedibile, da parte del datore di lavoro, una dichiarazione giudiziale di illegittimità dei licenziamenti sia economici che disciplinari.
[24] Art. 1, comma 7, lett. g), legge delega n. 183/2014.
[25] È pressoché sconosciuto alla giurisprudenza italiana un orientamento paragonabile a quello delle corti francesi in materia di «service organisé», mentre, di massima, è consueto esigere, per il riconoscimento della natura subordinata del rapporto, la presenza di direttive puntuali e specifiche sulle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
[26] Peraltro, almeno in certa misura, rimpiazzato dal lavoro autonomo tout court (art. 2222 c.c.), con richiesta, da parte dei committenti, di apertura della relativa posizione fiscale (c.d. “partita IVA”) agli ex collaboratori.
[27] V. sentenza Cgue 26 febbraio 2015 nella causa C-238/14, CE c. Granducato di Lussemburgo, punti 36 e 51.
[28] Ai sensi dell’art. 2, comma 1, del Decreto legislativo recante la disciplina organica dei contratti di lavoro “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
[29] Decreto n. 34/2014, convertito in legge n. 78/2014.
[30] Per vero, nello schema di decreto legislativo recante il nuovo testo organico delle tipologie contrattuali, approvato nella seduta del Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015, è stato previsto anche un contingentamento legale dei contratti a tempo determinato, alla cui guisa questi non possono eccedere il 20% del numero complessivo dei rapporti standard che l’impresa intrattiene. Tuttavia, nell’ipotesi d’indebito superamento della soglia, è prevista una sanzione amministrativa (predeterminata nel quantum), mentre i lavoratori non traggono alcun beneficio dalla violazione, né in termini risarcitori né in termini di trasformazione dei relativi rapporti in lavoro a tempo indeterminato.
[31] Arrêt du 1° julie 2008
[32] Juzgado de lo Social nº 1, de Toledo, Sent. 667, 11 diciembre 2014.
[33] Il quale “non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale”.
[34] Art. 1, commi 48-68, l. n. 92/2012.
[35] Boeri, Garibaldi, Un nuovo contratto per tutti, Milano, 2008.
[36] Cfr. F. Carinci, Jobs Act, atto primo: la legge n. 78/2014, tra passato e futuro, in Dir. rel. ind., 2015, 5 ss.
[37] Zoppoli, Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilità funzionale, in Dir. rel. ind., 2015, 76 ss.
[38] D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
[39] Lassandari, L’ordinamento perduto cit.
[40] Tale rilievo era già stato formulato con riferimento al testo della legge delega da Mariucci, Contratto a tutelo crescenti cit., il quale aveva osservato che «per quanto il testo [facesse] riferimento a “interventi di semplificazione, modifica o superamento delle…tipologie contrattuali…” [cfr. lett. a) comma 7] altrove lo stesso disegno prevede[va] addirittura una estensione del c.d. “lavoro accessorio” o con voucher (cfr. lett.g)».
[41] La cui violazione non comporta,peraltro, la conversione del rapporto, dando luogo esclusivamente a sanzioni amministrative (art. 23).
[42] Richiesto della clausola 5, punto 1, lett. b) dell’Accordo quadro allegato alla Dir. 1999/70CE.
[43] L’attuale formulazione è tuttavia assai più adeguata di quella inizialmente presente nello schema di decreto, ove si parlava di contratti conclusi per lo svolgimento di mansioni equivalenti: era infatti paradossale che il il più restrittivo concetto di equivalenza professionale, espunto dal testo dell’art. 2103 cod. civ., sopravvivesse nella sola disciplina del lavoro a termine, laddove risultava indirettamente funzionale ad ampliare la facoltà di ricorso a detto contratto oltre il limite legale dei tre anni.
[44] In base all’art. 2, «a far data dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro»: a) esclusivamente personali; b) continuative; c) le cui modalità di esecuzione siano «organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».
[45] Cgue 26 febbraio 2015, C-238/14, Commissione c. Lussemburgo, punti 36 e 51.
[46] Bavaro V., Azienda, contratto e sindacato, Cacucci, Bari, 2012.
[47] Layard R., Nickell S., , Jackman R. (1991), Unemployment: Macroeconomic Performance and the Labour Market, 2° ed., Oxford University Press, Oxford, 2005.
[48] Morrone A., Crisi economica e integrazione politica in Europa, in www.rivistaaic.it, n. 3/2014.
[49] Gallino L., Il colpo di Stato delle banche e dei governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino, 2013.
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