Antonello Caporale: Articolo 18. L’arbitrio è diventato legge
Diffondiamo da Il fatto Quotidiano del 13 gennaio 2017 . La Consulta ha negato il diritto di tre milioni di italiani di sottoporre al voto popolare la norma che ha abolito l’articolo 18
È una Repubblica fondata sul lavoro o sull’arbitrio? Grazie alla sentenza della Consulta un datore di lavoro non avrà da temere l’esito del referendum per l’abrogazione della norma che annulla l’obbligo di dare una spiegazione del licenziamento a chi lo firma. Licenzia perché l’azienda è in crisi? Perché il dipendente è uno sfaticato? Perché ha un colore della pelle diverso dal suo? Perché gli è antipatico? Perché? Al datore di lavoro basteranno pochi spiccioli da mettere in mano al suo ex lavoratore e un ciao.
LA CONSULTA ha infatti negato, ritenendo il quesito manipolativo e troppo “creativo”, il diritto di oltre tre milioni di italiani di sottoporre al voto popolare la norma della legge che ha abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Otto voti contrari e cinque favorevoli. Hanno votato contro la quasi totalità dei giudici nominati per decisione politica (Parlamento e presidente della Repubblica). È stato ritenuto manipolativo il quesito nonostante la stessa Corte nel 2003 per lo stesso tema, solo capovolto (ampliamento dei diritti anche ai lavoratori con aziende al di sopra dei cinque dipendenti) avesse dato il via libera. Gli effetti politici della decisione sono poi limpidi e netti come le stelle in cielo nella notte di San Lorenzo: il referendum sul Jobs act così depotenziato è a rischio. Il punto di crisi più forte per questa maggioranza e questo governo è scongiurato. E infine le elezioni anticipate si allontanano.
Resta sepolto nell’indifferenza e nella trascuratezza il dato più grave: si allontana per sempre l’idea che il diritto al lavoro e il suo esercizio debbano essere uguali per tutti. Che non possa esistere il doppio binario di chi vede garantita la sua dignità e chi no. Chi è licenziato senza una spiegazione e chi non ha l’obbligo neanche di giustificare la propria assenza.
Siamo nel mondo della ruota della fortuna. E più di tutto conterà l’arbitrio. L’arbitrio padronale è oramai un assunto di legge: assumo chi mi pare e licenzio chi mi pare e quando mi pare. Nel settore pubblico l’arbitrio è del potere politico che sceglie, utilizzando la medesima disinvoltura del padroncino, a chi far recapitare lo stipendio senza obbligo di frequenza, diciamo così, scorticando fino a renderli parametri di perenne ingiustizia le norme di garanzia che presidiano l’esercizio del lavoro. Altrimenti sarebbe possibile che nella Sanità il 12 per cento dei lavoratori è esentato dalle mansioni per le quali è stato assunto? Sarebbe possibile, diamo solo poche cifre, che a Palermo 270 netturbini sono pagati per non spazzare? E in Calabria il 50 per cento tra infermieri e portantini sono stati reclutati non per assistere e curare ma solo per scrivere? Oppure, per dire: a Firenze il 40 per cento dei vigili che non vigila.
L’arbitrio è la stella polare. Chi ha la responsabilità di governo e di gestione degli enti pubblici è artefice di uno svuotamento di senso e di logica delle norme poste a presidio di diritti fondamentali: la malattia quando si è malati, il congedo parentale se si ha un figlio, orari ridotti o giorni di ferie aggiuntivi se si hanno parenti disabili da assistere. E quindi al binario parallelo che colpevolmente separa le carriere e la dignità di chi è assunto nel regime privatistico e chi invece nel settore pubblico si aggiunge un terzo binario, che in Italia coinvolge un numero impressionante di persone oramai titolari del diritto ad essere lavativi.
BUCARE sistematicamente i propri doveri è divenuto il corrispettivo usuale della sottomissione, oppure della compromissione con le scelte del governante di turno e anche il dazio che si paga per ottenere sostegno elettorale. E così chi si spella le mani dalla fatica e chi avanza di mese in mese il diritto al congedo, magari taroccato. O chi –affermando il falso – ottiene l’esenzione da mansioni che rendevano la sua assunzione necessaria. Il caso dell’ospedale di Nola, con i malati fotografati per terra, è l’esatto punto di caduta della gestione clientelare della salute. C’è da chiedersi perché le uniche sezioni di partito in perenne attività si trovino solo tra le corsie di ospedale. E perché, a ogni elezione, le liste siano zeppe di medici e infermieri, portantini e spiccia faccende delle Asl? È la catena elettorale che produce i voti e la clientela è lì dove ci sono i soldi.
Snaturare in maniera così clamorosa le norme di garanzia serve solo a far aumentare il livello di disistima e di rabbia degli esclusi, far lievitare gli atti di ostilità e naturalmente agevolare la tesi di quanti trovano nell’esercizio di un diritto la causa del problema. Quindi ecco la soluzione che purtroppo la sentenza della Consulta aiuta a prefigurare: meno diritti per tutti.
Da: Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2017
Category: Lavoro e Sindacato, Politica