Andrea Ranieri: Le rovine e le macerie di una sinistra incapace
Diffondiamo da UNA CITTÀ n. 248 / 2018 aprile questa intervista a Andrea Ranieri realizzata da Gianni Saporetti
Una sinistra incapace di capire il cambiamento della società, finita nell’autoreferenzialità di gruppi dirigenti preoccupati solo di riprodursi; il fallimento dell’esperimento del Brancaccio e l’illusione che bastasse “richiamare” i delusi della sinistra per ricostruirne una; le parole da rimettere in discussione, progresso, governabilità, riformismo; l’idea che i ricchi risolveranno i problemi dei poveri; la rivoluzione di capacità e la microfisica della speranza. Intervista ad Andrea Ranieri. Andrea Ranieri, già segretario regionale della Cgil Liguria, senatore e poi assessore alla cultura del Comune di Genova, membro della direzione nazionale del Partito Democratico fino al 2015, successivamente ha partecipato al processo costituente di Sinistra Italiana.
D. Ovviamente vogliamo parlare dei risultati elettorali e dello stato della sinistra in Italia…
Allora, secondo me, il risultato di queste elezioni ha segnato la fine della sinistra in Italia come l’abbiamo conosciuta. Sono venuti in evidenza i limiti di una elaborazione politico-culturale del tutto inadatta e incapace di leggere le dinamiche nuove che si stavano aprendo e, in maniera drammatica, l’autoreferenzialità della sinistra, la voglia disperata di riprodurre se stessa, senza fare i conti con il cambiamento. Ma una sinistra che ha come compito di produrre se stessa, è destinata a riprodursi ogni volta sempre più in piccolo fino a sparire. Con la conseguenza, poi, che le spinte più radicali vanno da un’altra parte. Basta pensare al risultato della sinistra a queste elezioni, di Liberi e Uguali e Potere al Popolo (io non considero il Pd più facente parte della sinistra, se vuoi poi ne parliamo). Liberi e Uguali a cosa puntava? Al popolo della Cgil, agli operai contrattualizzati e ai pensionati. Aveva quel target. Potere al Popolo puntava sui disperati, quelli che lavorano coi migranti, quelli delle ditte d’appalto, i marginali della logistica, i manovali del computer. Ebbene, a dicembre ci sono state a Roma due manifestazioni, una della Cgil sulle pensioni e Liberi e Uguali erano tutti lì in corteo con la Cgil, e una, promossa dai migranti con le ditte d’appalto, con i riders, con i lavoratori della logistica, e Potere al popolo era tutto lì.
Tutto lì, salvo che quei due mondi poi hanno votato da un’altra parte, gli operai contrattualizzati che più o meno se la cavano, hanno colto come messaggio fondamentale quello dell’abolizione della Fornero e quello di difendersi da chi sta peggio, e hanno votato in gran parte Lega. I disperati e i marginali, quelli che alla pensione non ci arriveranno mai, hanno votato Movimento 5 stelle. Cioè il mondo del lavoro diviso non va a sinistra, trova altri modi per esprimere se stesso e tutelare i propri interessi.
Ecco, questo dovrebbe essere il primo compito della sinistra: la riunificazione del mondo del lavoro.
Vedi, io ero fra quelli che avevano lanciato l’iniziativa del Brancaccio insieme a Tomaso Montanari, Anna Falcone, eccetera, con l’idea di provare a riunificare quel che era diviso non solo dal punto di vista politico, ma dal punto di vista sociale. L’idea era di fare una sola lista di sinistra che fosse fatta in massima parte non dal ceto politico della sinistra ma dai protagonisti dispersi delle tante battaglie.
L’esperimento è fallito per due motivi: il primo, perché nessun vero progetto può nascere sotto elezioni, il limite del Brancaccio era quello di pensare che le elezioni fossero il terreno per fare questa operazione. Per l’ennesima volta è successo quello con cui ho dovuto fare i conti tante volte: quello elettorale è il momento peggiore, perché scatta inesorabile l’autoreferenzialità e la voglia di riprodurre se stessi. E il secondo motivo era che puntava a mettere insieme, sì, il sociale, la sinistra sociale, ma con la sinistra politica che c’era, quindi facendo leva sui gruppi dirigenti di Sinistra italiana, di Mdp, di Rifondazione. Bisogna prendere atto che la possibilità di ricostruire qualcosa non passa più dalla politica di professione, dalla politica di mestiere. Poi, come dire, la spinta elettorale porta a delle operazioni contro natura, da tutte e due le parti, cioè Sinistra italiana si allea con D’Alema, Mdp, Bersani, e viene fuori una cosa in cui il profilo politico è irriconoscibile. In primo luogo per una ragione storica: la gente che lavora, i pensionati, hanno cominciato a pagare dei prezzi durante il centrosinistra, prima, cioè, di Renzi. Se ci pensiamo, il programma di Bersani alle elezioni del 2013 era più succube dell’austerità e della tecnocrazia europea di quello di Renzi di oggi. Bersani andò in visita dal mitico ministro delle finanze tedesco per spiegargli che la Germania non aveva niente da temere dal nuovo governo, e la Fornero l’hanno votata loro, D’Alema, Bersani, appoggiando il governo Monti. Quindi che la gente potesse rivedere, in una riedizione del centro sinistra, una risposta ai problemi drammatici del presente era improbabile. Ma la seconda ragione, che riguarda proprio il modo di concepire la politica, è ancora più grave. Chi ha un’idea di politica che vuole far diventare protagonisti quelli che provano a cambiarla a partire dai luoghi dove vivono e lavorano, dai luoghi dove fanno azione nel sociale, come può pensare di farla con D’Alema per il quale c’è un’autonomia del politico, la politica è una technè con le sue regole indipendenti dalle stesse dinamiche sociali. È un’idea di politica che ha portato la sinistra a scegliere la modernità a prescindere, a costruire un potere in grado di interagire in tempo reale con la modernità e i suoi cambiamenti, assunti comunque come fatti positivi, qualunque essi siano. Ma è un caso che tutti i seguaci principali di D’Alema siano diventati renziani? Potrei farne un lungo elenco, ma ci arrivi da solo, sono tutti i pupilli di D’Alema, compreso l’incredibile presidente del partito Orfini, un dalemiano di ferro. Sono diventati allo stesso modo renziani di ferro. Ma perché ragionano sostanzialmente nella stessa logica: quel che è decisivo è vincere e avere porzioni di potere. Allora, al congresso di Sinistra Italiana, nel documento conclusivo c’era scritto: “Staremo nelle istituzioni ma non saremo gli uomini delle istituzioni, ci presenteremo alle elezioni ma non saranno le elezioni il nostro ragion d’essere, useremo tutti gli spazi della politica per aprire gli spazi alla politica vera, quella che conta, che si fa nelle fabbriche, nei quartieri, nei posti dove lavori”. Invece, poi, hai fatto un’operazione di lista elettorale in cui l’unico problema era provare a garantire un posto in parlamento a quelli che c’erano, l’esatto contrario di quell’idea di rifondazione della politica. Per cui per me quell’esperienza si è chiusa e se nasce qualcosa di nuovo non nasce da lì.
Dicevi che anche Potere al popolo in qualche modo ha fallito…
Allora, questi ragazzi di “Je so’ pazzo”, del centro sociale di Napoli, sono stupendi. Han fatto cose molto belle, hanno preso questo ex manicomio giudiziario, han fatto l’ambulatorio gratuito, cose che ai nostri tempi erano il “prendiamoci la città”. E però poi anche loro, nel costruire la lista, si sono messi con Rifondazione, con Cremaschi ed EuroStop, col Partito comunista italiano e hanno creato una cosa in cui c’era un’esperienza sociale nuova e interessante, e poi dall’altra c’era gente alla ricerca del proprio futuro perduto, una ricerca un po’ spettrale. Questa cosa li ha danneggiati, a riconferma del fatto che il passaggio dall’attività sociale di territorio alla costruzione di una proposta elettorale non è semplice. Tant’è vero che per farlo han dovuto appoggiarsi a strutture preesistenti ma piene dei vecchi mali che loro stessi volevano superare. Cremaschi è ceto politico così come i Comunisti italiani, così come il gruppo dirigente di Rifondazione. Poi c’è un’altra questione che riguarda le divisioni: oltre a quella tra i lavoratori contrattualizzati e sindacalizzati e i disperati della logistica e del computer, rischia di crearsene un’altra, quella tra associazionismo perbene e associazionismo permale, fra associazionismo rispettoso della legalità e associazionismo che mette, come dire, un’idea di giustizia al di sopra della stessa legge. Anche giustamente a volte, no? Se quelli di “Je so’ pazzo” non occupavano l’opg, questo era nella merda e hanno fatto bene, ma Libera, la Caritas, l’associazionismo francescano, beh, rispetto ai migranti e a chi fa fatica a vivere, fanno cose altrettanto apprezzabili. Allora devi costruire un ragionamento che tenga insieme le cose. Far diventare subito politica quell’impegno lì, a prescindere, costruendoci un’identità, oltretutto con un’alleanza con Rifondazione, rischia di creare una frattura anche in un mondo che dovrebbe trovare un’unità di fondo.
Ma tornando alla crisi della sinistra, non viene da molto lontano?
Certamente e sarebbe sbagliato attribuirne tutta la colpa ai protagonisti attuali. Ci sono delle rovine nella storia della sinistra, e però, bada bene, le rovine sono una cosa seria, quel che si è prodotto invece negli ultimi tempi sono macerie, che sono una cosa diversa: le macerie, come dire, ti impediscono i passi, ti impediscono lo sguardo. Io sono molto affezionato a come Walter Benjamin parla dell’Angelus Novus, del disegno di Paul Klee, dove c’è l’angelo che guarda le rovine e però il vento lo spinge inesorabilmente verso il futuro. Questo angelo cerca di resistere perché sa che le rovine sono importanti, che non puoi andare nel futuro senza portarti dietro il passato, senza averci fatto i conti.
Ecco, le rovine sono quelli che la storia ha messo da parte, sono i vinti, sono i perdenti, sono il senso della nostra storia e della nostra memoria, e per guardare a un futuro serio, per costruire qualcosa di nuovo, questa memoria la si deve recuperare. Anche se si è spinti verso il futuro in maniera impetuosa si deve continuare a guardare lì sotto.
Qua non c’è più niente di tutto questo. Da una parte ci sono quelli che chiamo i rivangatori di futuro, che parlano di futuro come se fosse sempre una cosa gloriosa, e dall’altra i produttori di macerie, quelli che trasformano le rovine in macerie. Io credo che bisognerebbe invece fare uno sforzo grande per fare i conti con le vere rovine della sinistra che, ripeto, sono rovine importanti.
Bisogna mettere in discussione una serie di categorie di fondo.
Per esempio?
Noi siamo progressisti, ma ha ancora senso oggi usare la parola progresso come una cosa in sé positiva? Per tanti oggi il progresso è un incubo, è una cosa di cui avere paura, e hanno le loro ragioni. Credo bisognerebbe rileggersi la Ginestra del Leopardi, e le “magnifiche sorti e progressive” che oggi stanno forse distruggendo il mondo e la possibilità stessa dell’esistenza degli uomini sul pianeta. Da questo punto di vista, una rovina che mi piace recuperare è la famosa austerità di Enrico Berlinguer, che non era l’austerity di oggi. A un certo punto, rispetto a chi si proclamava riformista e progressista, disse, con quella che forse era una battuta, di essere “conservatore e rivoluzionario”. Conservatore perché c’erano e ci sono tante cose da difendere, e rivoluzionario perché senza un mutamento profondo, del nostro modo di fare politica, di vivere, di consumare, perderemo non solo la nostra cultura e la natura, ma persino i diritti che ci siamo conquistati. Per conservarli, infatti, abbiamo bisogno di un cambiamento profondo; non vivono di per sé. Ecco, questa per esempio è una cosa su cui mi piacerebbe ragionare.
Ma prendiamo anche la parola riformismo e ragioniamoci sopra. Le uniche vere grandi riforme in Italia si son fatte quando non eravamo tutti riformisti, al massimo riformatori. Che so, la scuola media unica, il servizio sanitario nazionale, il diritto di famiglia, lo statuto dei diritti dei lavoratori, sono stati conquistati in periodi in cui la parola “riformista” era quasi un’offesa per tanti. Bruno Trentin si proclamava riformatore, non riformista. L’aggiunta dell’ismo ha contrassegnato l’inizio di un’epoca in cui riformismo ha voluto dire sostanzialmente superare i vincoli che impediscono il pieno sviluppo delle forze di mercato e di competizione fra le imprese, le nazioni e le persone. Tant’è che oggi se tu vai in un posto e dici di voler fare una riforma, ti dicono: “Per piacere, valla a fare da un’altra parte…”.
Una terza parola è governabilità, che è diventata anch’essa un “ismo”, potremmo chiamarla “governismo”. Io sono anche stanco di un mantra, che la sinistra o è di governo o è di testimonianza. Io penso che siamo stati forti quando siamo stati in grado anche di testimoniare concretamente che un’altra vita era possibile. Credo che il fatto di non avere più testimoni sia un serio problema. Penso agli uomini della Resistenza, ma anche agli uomini che comunque hanno vissuto in maniera coerente ai propri principi. Penso a mio padre, per esempio, che quando andava nelle scuole a parlare ai ragazzini della Resistenza, faceva ancora pensare loro che la politica è una cosa seria, perché vedevano in lui uno che aveva fatto davvero, che aveva messo davvero l’interesse generale al di sopra della sua stessa persona. E adesso? La generazione dei 40-50enni, è gente che ha investito su se stessa, non su un progetto, ha investito sulla propria carriera, sul proprio reddito. E i giovani lo vedono, non crediamo che non lo vedano. L’Anpi ha più iscritti giovani dei partiti, e fa impressione. L’Anpi è la più grande organizzazione giovanile in Italia!
Papa Francesco, nel suo ultimo libro rivolto ai giovani, invita i nonni ad andare a parlare ai ragazzi perché gli adulti non ne sono più capaci. Io penso che la rinascita della sinistra forse ha bisogno di una nuova alleanza fra nonni e nipoti, saltando la generazione di mezzo, perché la generazione di mezzo, diciamolo, è un disastro. Cioè son quelli lì, quelli che mettono il proprio posto in parlamento, o in comune, in una giunta, al di sopra di qualunque cosa.
Ecco, l’aver assunto come priorità il governo a prescindere, ha provocato i disastri che stiamo vivendo: una sinistra senza valori e senza principi.
Bada bene, quando dico senza valori non è che sopravvaluto i valori della sinistra. Anzi. Quando questi qua, usciti dal Pd, pensavano di prendere tanti voti, puntando agli ex comunisti delusi da Renzi, pensavano una sciocchezza. Non esiste una riserva a cui attingere, si ragiona come se la sinistra fosse qualcosa che c’è, che è lì, che i valori e le idee di sinistra siano un patrimonio stabile, cui puoi tornare ad attingere solo se fai risuonare le parole. Non va così.
Hai citato l’austerità di Berlinguer. Ma se parli di sobrietà e di disprezzo per il lusso passi per un pauperista, come fosse una cosa del tutto disdicevole.
Io non credo che il problema sia il superamento della povertà. Credo che il problema vero sia vedere se i poveri riescono a governare il mondo. Il mondo sta andando in malora per i ricchi, non per i poveri. Io le persone migliori che ho conosciuto nella vita erano povere, erano poveri gli operai che ho conosciuto a Genova, che non volevano fare lo straordinario perché non volevano dare più tempo al padrone per un po’ di consumo in più. Sono poveri gli indigeni dell’Amazzonia che difendono le loro terre e potrebbero essere più ricchi se lasciassero estrarre il petrolio dalle loro terre. Le persone migliori del 900 è gente che si è fatta povera, Simone Weil, Danilo Dolci, è gente che l’ha scelta, la povertà. Noi identifichiamo la povertà con la miseria, ma è un errore grave. In un libro di Paolo Nori -non so se lo conosci, è un affabulatore di Parma che scrive libri di storia- lui racconta che sua nonna gli diceva che a casa loro c’era tanta miseria e quando erano diventati poveri avevano fatto una festa. E che cos’era per questa donna la povertà? Era la dignità, era non aver bisogno, era non inseguire il superfluo ma avere il necessario, non farsi travolgere dal consumismo. E forse aveva ragione Pasolini, nel vedere nel consumismo il male che ci avrebbe travolto. Pasolini aveva una rubrica educativa, mi sembra su “Vie Nuove”, dove si rivolgeva a un giovane napoletano, Gennariello (sosteneva che solo i giovani napoletani non erano ancora totalmente corrotti) spiegandogli che la colpa dei padri era di aver assunto come obiettivo primario quello di far entrare i poveri nell’orizzonte di consumo dei ricchi. Con questo abbiamo fatto sì che l’unica storia possibile è diventata quella della borghesia. Di lì tutte le sciocchezze di Blair, di Veltroni, eccetera, secondo cui il nostro problema è che i ricchi diventino più ricchi in modo che un po’ del loro benessere ricada anche sui poveri. No, su questo papa Francesco è più avanti. Saranno i ricchi a distruggere il mondo, e solo se i poveri prendono in mano il loro destino forse il mondo si riuscirà a salvare, a uscire da quella che Papa Francesco chiama la bancarotta dell’umanità. È bella questa espressione, perché non c’è solo il crack delle banche, c’è che ci stiamo abituando -in nome della difesa dei nostri stili di vita- a un mondo in cui è normale sterminare gli animali e far annegare in mare i migranti. Ecco, penso che siano queste alcune delle categorie di fondo su cui confrontarci.
Ma il quadro è desolante. Dove sono le risorse…
Forse dobbiamo rivedere la stessa idea di popolo. Ormai il popolo lo pensiamo come lo pensano gli altri, dei numeri da mettere in fila. Certo, vediamo il mondo, vediamo la miseria, vediamo l’alienazione, vediamo tutto, poi, però, chissà perché, siamo convinti che bastino tre-quattro parole ben dette, un programma ben fatto a far sì che quel popolo lì, che abbiamo descritto come alienato, povero, ignorante, rozzo, recuperi la sua dignità, o, più modestamente, vada a votare, la qual cosa, forse, è ciò che ci interessa di più. Ma non vanno nemmeno a votare. In realtà non sappiamo vedere e non abbiamo mai lavorato seriamente, sul modo in cui la gente riesce a vivere l’invivibile, in cui cerca di mantenere autonomia e dignità anche in un mondo che la esclude.
Nella Gerusalemme Rimandata, Vittorio Foa racconta come gli operai inglesi trovassero il modo, mettendosi d’accordo per rallentare i ritmi, falsificando le cose, usando il loro sapere, per mantenere una qualche autonomia rispetto al padrone e ai ritmi della fabbrica. Ecco, io penso che una sinistra seria dovrebbe andare a vedere come il popolo riesca a usare degli spazi e dei margini, gli stessi rituali, gli stessi consumi, della borghesia per trovare una propria strada. Prima parlavamo del consumismo, ma non è vero che il consumismo necessariamente livella. La gente poi percependo queste cose, le rielabora trovando il modo per vivere e costruire una propria identità. Ecco, io credo che queste capacità ci siano. Dopo Foucault, siamo diventati bravi a leggere la microfisica del potere, mi piacerebbe cominciassimo a leggere la microfisica della speranza. Questa non è nella testa della sinistra, ma in quella della gente sì. Quando siamo andati in periferia, con la campagna elettorale romana, dopo esserci detti che il problema è nelle periferie, non abbiamo preso il voto. Ma perché ci siamo andati con la stessa logica del “ve lo spieghiamo noi come si fa”. E non è così, non si può così. Quella è gente che riesce a viverlo, ciò che noi consideriamo invivibile, e il modo in cui riesce a vivere l’invivibile è spesso frutto di un sapere, di una cultura, di un modo di pensare e di vivere le cose da cui dovremmo imparare. Si va lì a dire quattro cose, a portare il programma e pensiamo che questi vengano con noi? No, non sono venuti!
Al fondo c’è un disprezzo, non malvagio, anzi, però un disprezzo per la gente?
Secondo me sì. Quando parlavo prima dell’arroganza dei produttori intendevo questo. Questa cosa s’è vista nella storia del movimento operaio, e c’è chi ha vinto e c’è chi ha perso. Secondo me avevano ragione quelli che hanno perso. C’erano due modi di considerare per esempio l’organizzazione del lavoro, il fordismo era esaltato da parte dello stesso Gramsci perché la gente si omologava e si socializzava, e però c’erano anche quelli che invece cercavano di vedere come invece si riusciva a difendere la propria autonomia, la propria intelligenza. Ma tutto è stato distrutto dall’idea che il punto fondamentale era la conquista dello stato, era il potere, e questo sia nella variante socialdemocratica sia nella variante leninista, su questo uguali!
Noi che abbiamo amato tutti e due Pino Ferraris, beh, Pino ci parlava di Gnocchi Viani, che aveva un’idea della Camera del lavoro come modo in cui la gente pigliava nelle proprie mani il proprio destino e si ritrovava senza distinzioni. Insieme agli operai c’erano i disoccupati, le donne… Ma Gnocchi Viani fu rimosso sia dai turatiani che dai leninisti, perché era un’idea di socialismo libertario e antistatalista. Pino citava sempre un pezzo di Dole, che nella “Storia dei socialisti”, parlando di Proudhon, sostiene che nel mondo le idee di rivoluzione sono state due: la rivoluzione di potenza e la rivoluzione di capacità. La rivoluzione di potenza è quella della conquista dello stato e dell’educazione delle masse attraverso il governo e il potere. Cioè le masse che vanno guidate. La rivoluzione delle capacità puntava invece sull’aumento della capacità della gente di governarsi da sé. Questa idea fu liquidata come un “socialismo da piccoli proprietari, da bottegai”, in nome della grande industria che nasceva. Ora mi chiedo se di questi tempi l’idea della rivoluzione delle capacità non abbia la sua rivincita. Quella di potenza è fallita.
La rivoluzione di capacità è quella che apre dei vuoti, non che costruisce dei pieni. In un mondo pieno di tecnocrazia, di consumismo, costruisce dei vuoti, e delle possibilità, per mettere in moto l’intelligenza e il pensiero della gente, in cui quell’intelligenza diffusa di cui parlavamo prima, quella microfisica della speranza, può trovare un modo di esprimersi. E ridiventare politica.
(a cura di Gianni Saporetti)
Category: Lavoro e Sindacato, Politica