Adolfo Pepe: La crisi del sindacato, la sovranità nazionale, la costituzione

| 26 Giugno 2016 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo da “Inchiesta” 192 aprile giugno 2016 l’intervento di Adolfo Pepe, Università degli studi di Teramo e direttore della Fondazione Di Vittorio

 

Per me è sempre motivo di particolare soddisfazione tornare alla Camera del Lavoro di Reggio che considero uno dei punti di riferimento del sindacalismo italiano, nella sua storia, nelle sue vicende e anche per le discussioni attuali.

Nel partecipare alla presentazione libro curato da Franco Farina Le parole di Giuseppe di Vittorio (Edizioni Ediesse, Roma 2015) , che è stato concepito circa un anno fa, mi sono posto una domanda che oggi torna di attualità. Infatti, come è evidente, non è possibile evadere da un interrogativo che ci richiama a un’unicità della situazione italiana. Io, in generale, sono contrario alla diversità italiana intesa come superiorità, anzi al contrario, la diversità italiana per me non è affatto motivo di superiorità.

Però c’è un nodo che appare insormontabile e che non è possibile evadere: in tutto l’Occidente, sia a causa della globalizzazione, che del liberismo, la questione del lavoro da circa venti-trent’anni si scontra con politiche economico-sociali, oltre che giuridiche, dei diversi governi, siano essi conservatori o socialdemocratici, che hanno sempre tentato di ridimensionare il ruolo del lavoro.

In questo contesto tuttavia rimane un punto fermo: si è trattato di uno scontro tra rappresentanze sociali, sindacali e governi, amici o non amici. Infatti, in nessun paese è mai entrato in campo il rapporto tra sindacati, politica economica-sociale del governo e, contestualmente, la trasformazione della Costituzione, così come è accaduto in Italia e nelle transizioni dei paesi europei dello spazio politico-economico controllato dall’Unione Sovietica. Questo è il nodo.

Oggi in Francia, di fronte alla riforma della politica economica, attuata attraverso  il Jobs Act proposto dal governo Hollande, si assiste a una straordinaria tensione sociale. Tuttavia, nessuno ha tratto dal conflitto in atto tra governo e mondo del lavoro sulle riforme connesse ai diritti, ai poteri, alle politiche economiche e sociali ed alla disoccupazione – o anche a temi più alti come quello della guerra – un motivo per rivedere la costituzione francese. Ciò nonostante la Francia sia il paese, tra quelli occidentali, che ha avuto più Costituzioni, si pensi da ultimo al passaggio attuato dal generale De Gaulle dalla IV alla V Repubblica all’indomani della guerra d’Algeria, e quindi a fronte di una questione cruciale quale la decolonizzazione,.

Ugualmente in Inghilterra, nonostante il disastro sociale frutto del governo Thatcher, la Common Law, ovvero la costituzione materiale inglese, non è stata alterata così come i diritti del Parlamento. O ancora in Germania dove la Grundgesetz e la stabilizzazione delle relazioni tra lavoro, governo e forze sociali imprenditoriali non è mai stata posta in discussione neppure di fronte a provvedimenti di riforma come l’Hartz 4 di Schröder.

Questo è il nodo e non serve edulcorarlo.

Quel nodo che in Italia non riusciamo a sciogliere dal 1947 in poi e che Umberto Romagnoli intelligentemente da giurista evoca sotto l’aspetto della inattuazione della Costituzione, segnalandone luci e ombre.

Storicamente, invece, la questione può essere posta in questi termini: la Costituzione in Italia, avendo una matrice laburistica, è una gabbia indigeribile per le classi dirigenti, poiché non esiste altro problema politico che non viene ricondotto al lavoro.

Questo non è un paese a sovranità piena, in cui la politica spazia su tutto. Ma è un paese, non solo a sovranità limitata e a delegittimazione e marginalizzazione economica crescente, in cui la politica con la ‘P’ maiuscola si riduce alla regolazione del lavoro o, in caso opposto, alle sconfitte dei ceti proprietari in seguito alle vittorie del lavoro.

Il ventennio forsennato del fordismo, che inizia negli anni ’50 con le repressioni in fabbrica e lo snaturamento dei principi costituzionali, ha come contraccolpo, dal ’68 in poi, il blocco formale del fordismo, cioè la “zeppa” immessa nel funzionamento della catena di montaggio alla ricerca della trasformazione delle relazioni industriali in un rapporto diretto di forza.

E alla fine è intorno a questo rapporto di forza, che diviene dimensione politica, che la CGIL a partire dal luglio del ’60 da sola, in barba ai revisionismi, alla modernità della CISL e quant’altro, aveva posto da sola un problema politico- costituzionale, cioè il collegamento tra lavoro, riforme e Costituzione. Un nodo che non è mai stato possibile sciogliere, poiché tutti i tentativi di rompere il potere della Cgil devono passare per lo scioglimento di questo nodo.

A riguardo, sono d’accordo con Umberto Romagnoli quando ne vede le luci e le ombre. Le luci riguardano la forza e la peculiarità del mondo del lavoro italiano e del suo sindacato che l’ha rappresentato, che è sempre stato un soggetto che ha richiamato comunque i diritti del lavoro al fondamento della democrazia e dello Stato, che è un fatto non di poco conto. Dall’altro vi è una debolezza, perché in ogni passaggio noi ci giochiamo tutto. Cioè in ogni passaggio in cui si tratta semplicemente di regolare rapporti economico-sociali in base alle condizioni della produttività, dell’internazionalizzazione, e dunque in cui si deve  giocare sindacalmente, noi siamo sempre e comunque indotti a giocare su un terreno più ampio.

Non c’è un solo passaggio nella nostra storia che si possa definire ordinario, in cui abbiamo potuto agire secondo gli schemi lavoristici, quindi secondo gli schemi dei sistemi contrattati tra attori economico-sindacali, rappresentanze politiche e istituzioni pubbliche. La questione del collocamento, che alla fine degli anni quaranta ci viene tolto per essere assegnato allo Stato, è esemplificativa. Di Vittorio non assume una posizione dura a riguardo perché forse intuisce la delicatezza della questione, poiché avrebbe aperto i problemi di fondo, laddove sottrarlo al sindacato e passarlo alla stato significava ovviamente ridurre il potere del sindacato.

Questo passaggio dimostra come ogni volta ce la giochiamo tutta, e forse questo gioco ci è piaciuto, perché c’è l’azzardo, per cui o vinci o perdi l’intera posta. Negli anni ’50-’60 l’avevamo quasi persa tutta, poi dalla metà degli anni ’60 faticosamente è sembrato di essere in una posizione di vantaggio, ma nell’‘80 vi è stato un brusco risveglio a cui è seguito il disorientamento. All’indomani di questa fase è seguito, da un lato, il timore che riprovare a giocarci l’intera posta significa essere messi definitivamente fuori gioco e, dall’altro, l’ansia di dire: “Ma io non ci sto, ma perché devo aver perso tutto?”

È chiaro che questa volta non è detto che ce la scampiamo. Cioè questa volta non è detto che ne usciamo solo con delle ammaccature, ovvero ne usciamo in una maniera tale che poi c’è la possibilità di rigiocarci la partita. E di questi “rimbalzi” da fondo campo ne abbiamo fatti sei o sette e il rischio questa volta è che la palla vada in rete.

Questo è, a mio giudizio, anche quello che si percepisce. Mi ha colpito, ciò che  Tiziano Rinaldini mi accennava prima, relativamente alla situazione psicologica dei lavoratori, della gente normale ossia questo misto di impotenza ed  incapacità di vedere un modo di uscirne, ma allo stesso tempo la necessità di giocarsi una partita, che si capisce che è una partita grossa, perché non è la partita di un contratto, di un salario in più o in meno, di cinquanta posti di lavoro in più o in meno come Renzi ogni tanto sbandiera, ma lo posta in gioco è grande e di qualità diversa.

Ho sempre sostenuto, nei dieci-quindici anni in cui abbiamo lavorato come  Fondazione Di Vittorio su questi temi, che la CGIL è l’equivalente di un grande macigno nella storia italiana che tutti hanno provato a sgretolare e, in vario modo, ha subito ferite e lacerazioni: Una di queste è la mancata unità, sicuramente una ferita profonda, però il macigno è rimasto sempre lì. Il macigno è rimasto lì perché ovviamente è un macigno che ha un ancoraggio nell’identità e nella sovranità nazionale. Perché la CGIL è, di fatto, contraente del patto costituente, un elemento ineliminabile dal sistema nazionale. È questa la forza delle affermazioni di Giuseppe Di Vittorio riportate nel volume.

Oggi io immagino che, per la prima volta, si possa adombrare un rischio reale. Questo macigno può essere aggirato e rimosso, perché alcune funzioni, alcuni ruoli, alcune forme di rappresentanza e di potere che aveva la Cgil possono essere aggirate ovvero disaggregate.

Tuttavia il motore primo di questa situazione risale alla crisi della sovranità nazionale ed è questo che è in discussione con forza. Da dieci-quindici anni si è erosa la sovranità nazionale, non solo perché c’è Bruxelles e la sua tecnocrazia, ma perché nei fatti tutti i centri decisionali hanno subito un drastico spostamento e dato che noi come mondo del lavoro siamo stati, e ci siamo posti come la maggiore forza di garanzia dello Stato democratico e della sua sovranità è evidente che la sua crisi ricada fortemente su di noi più che su altre componenti della società italiana. Al contrario qual è la ricaduta della crisi della sovranità ad esempio sulle forze economiche, finanziarie, bancarie e imprenditoriali? Pressoché nulla.

La Confindustria ci può stare e non ci può stare, può essere costituita da piccole e medie imprese, così come può scegliere di fare semplicemente lobbismo in un sistema senza grande sovranità nazionale.

Il problema, invece, è che è difficile immaginare una tutela del lavoro senza sovranità nazionale ed ugualmente immaginare che i semplici meccanismi internazionali dell’economia o le semplici politiche monetarie eterodosse di Draghi possano di per sé sostenere, senza sovranità nazionale, una ricaduta  positiva in termini di rilancio dell’occupazione, di salvaguardia dei diritti sociali e contrattuali del mondo del lavoro.

Questa equazione non c’è. Questo è il punto delicato dell’intera questione.

Noi finora abbiamo lavorato dentro un sistema in cui comunque esisteva un quadro di sovranità, di responsabilità e di decisioni che potevano essere assunte da una legittima autorità nazionale.

Gli incontri interconfederali con il governo se non erano aria fritta, come in parte lo sono stati per tanto tempo, tuttavia segnalavano che c’era una certa relazione tra quello che tu definivi come il tuo programma e quello che andavi in qualche modo a discutere con il governo. È evidente che oggi una cosa del genere non c’è, non perché non ci sei tu, ma perché non c’è il governo, ovvero l’autorità politica che è garante della mediazione tra gli interessi sociali del lavoro e gli interessi economici collettivi a scala nazionale e perciò stesso nel complesso equilibrio della competizione e delle relazioni economiche internazionali.

Questo, secondo la mia opinione, è uno dei passaggi più delicati in cui ci troviamo.

Dunque, a mio giudizio, come nel ’45-’47, abbiamo sulle spalle un doppio peso. Da un lato, il sindacato ha comunque la rappresentanza generale del lavoro; dall’altro, si confronta con un governo che può discutere con Bruxelles, con Berlino o con Washington senza passare attraverso l’assunzione della difesa dell’interesse del lavoro ed è legittimato a farlo in virtù dell’ “evaporazione” del principio che lega la democrazia parlamentare e la tutela degli interessi nazionali.

Infatti, un governo come quello rappresentato da Renzi, non apertamente conservatore o populista, più si libera del problema del lavoro e più è in grado di operare uno scambio virtuoso con i tecnocrati che decidono, ovvero con i decisori politici degli stati che operano in condizioni di più solida sovranità economica e istituzionale. Sovranità per alcuni versi rafforzata dalla divaricazione prodotta dalla lunga e profonda crisi iniziata nel 2008 tra sistemi paese che sono riusciti a fronteggiarla e sistemi paesi marginalizzati o addirittura travolti dai suoi effetti. Ma questo noi ce lo possiamo permettere? Noi non possiamo permetterci di avere un governo che non è in grado di assumere gli interessi del lavoro nelle sedi in cui di questo si discute e, contemporaneamente, non assumerci noi la rappresentanza degli interessi del lavoro? E se non noi, chi? E se non viene da una Confederazione, cioè da un sistema sindacale a rappresentanza generale degli interessi del lavoro, la definizione di quelli che sono gli interessi nazionali del lavoro italiano, da chi deve venire?

Chiaramente la risposta c’è: dalle forze populiste o dalle forze nazionaliste. Perché c’è l’alternativa, io vorrei che questa volta fosse chiaro, c’è un’alternativa a questo vuoto e l’alternativa è, in Italia, che non ha uno stato sovrano, il populismo regionalistico di stampo leghista ovvero il demagogismo grillino.

Nei paesi dove esistono le sovranità nazionali la risposta è il nazionalismo alla Farange o  alla Le Pen. In quest’ottica ciò che conta è la tutela del lavoro nazionale francese o inglese, contro l’Europa, contro Bruxelles e se necessario, contro gli immigrati e contro gli altri lavoratori europei. Se non ci chiariamo su questi aspetti della nuova Realpolitik europea e dei nuovi rapporti tra gli stati nazionali e non siamo al tavolo delle decisioni ritengo che ciò ci pone in una condizione di reale debolezza e delegittima la nostra funzione. In realtà il lavoratore percepisce perfettamente che Renzi gli può dare la mancia e può non rifiutarla, perché il lavoratore in carne ed ossa può prendere pure la mancia, ma capisce contestualmente che il sindacato conta poco ed è questa la cosa più grave.

Nel momento che percepisce questa irrilevanza si crea la frattura, il disinteresse, il disimpegno, l’astensionismo, ed è su questo passaggio che dobbiamo riflettere seriamente.

Questa situazione rinvia infine al fatto che il sindacato non ha la possibilità di riferirsi a un soggetto politico. Il governo è l’espressione di un soggetto politico che nasce in parlamento, ma il sindacato non dispone di tale riferimento politico pur essendo ovviamente rispettoso delle prerogative e della sovranità parlamentare.  A me sembra che è la prima volta, nella sua storia, che la CGIL opera in questo scenario politico assolutamente inedito, senza cioè poter contare su un sistema politico-parlamentare e su un esecutivo inclusivo degli interessi e dei valori del lavoro.

Quando nasce la CGIL nel 1906 c’è un partito socialista che è brutto, sporco e cattivo. Sebbene definito dai riformisti “il ramo secco” e considerato dai sindacalisti dell’epoca un male minore, esso c’è e con quello si va avanti fino al ’22. Ugualmente dopo il ’45 – sebbene non vorrei arrivare a parlare di cinghia di trasmissione come fa Umberto Romagnoli – sono ben presenti sia il partito comunista sia il partito socialista e la CGIL sapeva di poter contare su un referente politico – oltre che sulla presenza di suoi rappresentanti in Parlamento – e su questa duplice rappresentanza ha potuto elaborare il concetto del sindacato come soggetto politico autonomo.

Infatti, il soggetto politico autonomo fornisce il limite, l’orizzonte e dunque dà il senso così come lo definì Di Vittorio in un famoso articolo del 1957 sul rapporto tra sindacato e partiti, cioè il sindacato è soggetto politico autonomo ma nel sistema democratico parlamentare, così come statuito in Costituzione, arriva ad un punto in cui deve affidare la sua proposta di politica economica al Bersani di riferimento. Ed è per questo che la corretta fisiologia democratica che la prima fase della Repubblica che vedeva in campo le due forme di rappresentanza del lavoro trovava il suo punto di sintesi nel passaggio della elaborazione sindacale agli organismi costituzionalmente previsti.

Oggi questo non c’è. È saggezza della CGIL aver individuato la proposta di iniziativa popolare come un modo per sottolineare che c’è questo problema. Non ci fidiamo delle forze politiche, ma non perché non ci fidiamo in astratto, ma perché sappiamo che non possiamo mettere in mano la nostra Carta rivendicativa e dei diritti a nessuno, poiché ci prenderebbero sottogamba a dir poco.

Sono sempre ammirato dalla grande capacità che la CGIL ha di elaborare situazioni che sono ai limiti. Mi permetto soltanto di dire che la sostanza del problema rimane, ossia noi ci troviamo al bivio tra una trasformazione in una grande lobby di sostegno degli interessi del mondo del lavoro, e quello della assunzione in proprio della dimensione politica.

Infatti, tu non hai, di fronte ai lavoratori, nessuna certezza che un procedimento di questo genere, complesso, difficile, possa andare in porto così come tu lo chiedi e che possa essere da te difeso in tutte le sue forme, ma peggio ancora possa essere ripetuto. Può essere fatto una tantum, e sarebbe già una gran cosa, ma non si può vivere di leggi di iniziativa popolare.

Come prefiguri lo scenario di una grande confederazione sindacale di rappresentanza e di tutela degli interessi generali economici dei lavoratori senza avere una prevedibile e credibile gestione politico-parlamentare di quello che metti in campo non solo a livello nazionale?

Infatti le proposte elaborate a livello nazionale sono la premessa per andare a trattare e  discutere  a livello sovranazionale, dove non è pensabile la reiterazione di questo schema che pure, ripeto, è in questo momento fondamentale.

La nostra storia è stata presidiata da due forme di rappresentanza, l’una un po’ sghemba, quella dell’età liberale col partito socialista, e l’altra molto strutturata e, diremo maxweberianamente ben consolidata anche burocraticamente, nel periodo dell’Italia repubblicana, della presenza reale, profonda, nei luoghi di lavoro del partito comunista. Oggi, in assenza di tutto questo, sono dell’opinione che bisogna fare un passo nell’ignoto. In qualche modo lo stiamo già facendo, ma non utilizzerei delle scorciatoie retoriche contenute in quelle parole vuote come l’Europa, il sindacato europeo, la CES, i collegamenti internazionali. Non è più il tempo di superare le difficoltà collegando cose che non saranno mai collegate. Non ci sarà mai una coincidenza naturale politico-sindacale con i lavoratori tedeschi, inglesi, francesi perché improvvisamente troviamo la formula della mediazione. Ma c’è ,invece, un passaggio difficile e inedito che si può affrontare. La CGIL ha l’obbligo di dare alla rappresentanza generale del lavoro una soluzione nel breve-medio termine che contenga in sé la dimensione politica. Quale ne sia la formula, quali ne siano gli elementi, questo è tutto materia di discussione, ma non è possibile non dare e non assumere questo come uno dei problemi e forse il problema principale del mondo del lavoro italiano, sia a livello nazionale, sia direi, soprattutto, a livello europeo e internazionale.

 

 

Category: Lavoro e Sindacato

About Adolfo Pepe: Adolfo Pepe è Direttore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Autore di numerosi saggi e libri. Ha pubblicato per la casa editrice EDIESSE di Roma : Il valore del lavoro nella società italiana (2003); (con altri autori) La Cgil e il novecento italiano (2003); (con altri autori) Il sindacato nella società industriale (2008); (a cura di ) Operai e sindacato a Bologna (2011)

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