Nello Rubattu: Ricordo di Giulio Angioni che aveva rispetto dell’umano
Giulio Angioni è morto a Cagliari il 12 gennaio 2017. E’ stato professore di antropologia culturale nell’Università di Cagliari, ha scritto numerosi saggi e varie opere di narrativa tradotti in varie lingue tra cui: L’oro di Fraus (Editori Riuniti, 1988), Il sale sulla ferita (Marsilio, 1990), Una ignota compagnia(Feltrinelli, 1992). Sellerio ha pubblicato Il sapere della mano (1986), Il mare intorno (2003), Assandira (2004), Le fiamme di Toledo (Premio Mondello 2006, Premio Corrado Alvaro 2006), Afa (2008), Gabbiani sul Carso (2010). Il suo ultimo libro è Doppio cielo (Il Maestrale, 2010).
Giulio Angioni, un grande intellettuale e un grande scrittore della Sardegna, ci ha lasciato. Come al solito a chiudere la partita c’è voluto un “male incurabile”. Alcuni anni addietro sembrava lo avesse evitato. Ma non è stato così, nel 2016 è rispuntato e ha vinto lui.
Io l’ho conosciuto come scrittore. Sapeva narrare storie ed è anche per questo che oggi viene collocato fra i grandi del Novecento: con L’oro di Fraus,(Editori Riuniti 1988, Il Maestrale 2000), Il sale sulla ferita, (Marsilio 1990), Il Maestrale 2010, finalista al Premio Viareggio 1990, Una ignota compagnia, Feltrinelli 1992, Il Maestrale 2007, finalista al Premio Viareggio 1992, Il gioco del mondo, Il Maestrale 1999,Millant’anni, Il Maestrale 2002, 2009, Il mare intorno, Sellerio editore 2003, Alba dei giorni bui, Il Maestrale 2005, 2009, Premio Dessì 2005, Le fiamme di Toledo, Sellerio editore 2006, Premio Fondazione Corrado Alvaro 2006, Premio Mondello 2006, La pelle intera, Il Maestrale 2007, Afa, Sellerio editore 2008, Gabbiani sul Carso, Sellerio editore 2010, Doppio cielo, Il Maestrale 2010, Sulla faccia della terra, Feltrinelli/Il Maestrale 2015, Premio Pozzale Luigi Russo 2015, e altri.
Inutile nasconderlo ma mi da fastidio parlare della sua morte. Alcuni giorni fa lo avevo sentito a casa sue per le feste. Avevo già parlato con lui all’inizio di novembre e si era ironizzato sui suoi due cicli di chemioterapia. Non si può dire fosse rassegnato alla sua situazione di malato. Fare quella sola parte non era da lui. In ospedale ha continuato a corrispondere con il resto del mondo attraverso la sua pagina facebook. Nel 2016 comunicava soprattutto in versi. Proprio alla sarda. Perché i sardi fra i loro tanti vizi hanno quella di dare sfogo ai loro sentimenti e ai loro pensieri in poesia. Lui non era da meno.
Chemio 1
Oggi qui si sta in quattro in sala chemio
adagio distillando dalla flebo
ciascuno un suo dolore.
(ga)
Come tutti quelli che devono lottare contro un cattivo male, anche lui sapeva che la partita non necessariamente sarebbe finita a suo vantaggio. Ma voleva raccontare comunque quello che si prova.
Questa è di alcuni giorni fa. Pubblicata il 10 gennaio sulla sua pagina facebook
Quando
Quando non si saprà
di te che sarai stato,
dell’albero che un giorno avrai piantato
in terra smemorata
e la parola d’aria respirata
sarà altra cosa in chissà quale stato
tu forse lo saprai
che qui e ora sei.
Il suo curriculum vitae accademico è di quelli di peso: nutrito alla scuola di Ernesto De Martino e di Alberto Cirese, ha insegnato a Cagliari, in Germania e in Francia, ha scritto moltissimi saggi, scritti teorici, rivestendo il mestiere di pubblicista, studioso del linguaggio, dei luoghi comuni, su quotidiani e periodici europei, lavorando anche in radio, televisioni.
Con Giulio Angioni ci conoscevamo da molto tempo: io lo chiamavo “professor bronzetto”, lui non faceva altro che prendermi in giro (ma non diceva proprio così, usava espressioni più popolari) e ghignava per i miei modi di dire non proprio in linea con il manuale del bon ton. Per lui la mia città aveva un linguaggio “liberatorio”, per molti versi fantasioso. Una volta mi disse che noi per lui eravamo i napoletani della Sardegna: barrosetti e generosi allo stesso tempo. Lui era invece proprio il contrario: era uno che si incazzava a freddo, uno tagliente e abituato a parlare solo se aveva qualcosa da dire. Riflessivo, viene da dire. Che sapeva tenere le distanze con chi gli stava sulle scatole.
Ma non pensatelo triste. Non lo era.
Quando leggeva i personaggi dei miei racconti mi ascoltava interessato. Gli piacevano le descrizioni carnali, i toni sguaiati. Ma dei miei racconti sapeva distinguere la commedia dalla tragedia e sapeva che le due cose spesso viaggiano insieme.
Odiava quelli che io per lui chiamavo “i falsi professori”, riferendomi ad un verso di una canzone di Fabrizio De André. Gli dava fastidio sentire certi personaggi parlare di industria, quando sapeva che sui riti della laurera non ne capivano una mazza. Come gli davano fastidio quelli che parlavano di lingua sarda e ne parlavano in italiano. Questi salotti alla madama Doré, fatti di campanilismi e cattive letture etnografiche non lo attraevano. La lingua è il prodotto di un mondo di esseri viventi non certo un relitto per musei polverosi e senza anima. “Le lingue muoiono come tutti noi, piuttosto non bisogna dimenticare che dove ne muore una ne nasce un’altra”. Non so quante volte me l’avrà detto.
Se fosse ancora fra di noi, me l’aveva promesso, oggi sarebbe il direttore scientifico del museo che stiamo mettendo in piedi ad Asuni: il “Museo e il centro di documentazione sulle culture migranti”. A lui piaceva lo scopo, la pensavamo esattamente allo stesso modo: Le culture sono un viaggio infinito di differenze fra popoli organizzati, un lungo incontro fra “altri”, buono o cattivo che sia, ma un incontro. Le migrazioni non dividono mai. Uniscono.
Detto così sa di retorico. Ma solo se detto da altri. Perché di Giulio Angioni tutto si può dire ma non che fosse un vecchio trombone.
Era venuto la prima volta ad Asuni nel 2004, ha dormito come tutti noi a casa di una famiglia del paese e con me in quell’occasione, era estate, ha messo in piedi un recital a due voci: io facevo quello che raccontava la carne, lui quello che ricordava al pubblico che ci ascoltava che sarebbe stata ora di dire cose serie e le diceva lui. La gente ci seguì per oltre due ore di battutacce. Oltre quelli venuti da fuori, tutti gli asunesi ci ascoltarono ridendo e riflettendo su quello che diceva il “professore”. Un termine che gli asunesi nei suoi confronti usavano con molto rispetto. Io lo prendevo in giro e dicevo che l’arcano di quella corrispondenza umana risiedeva in un fatto di comune problema d’altezza. Con il sottoscritto e il mio metro e ottanta non poteva di certo coincidere: “C’è nebbia in Campidano? Tu da così in alto lo dovresti sapere”, mi sottolineava interrogandomi. Solo che quel rispetto con gli abitanti di Asuni in quei due giorni se l’era guadagnato guardando la gente negli occhi e facendo capire molto bene che il fatto di essere come loro a lui non risultava di certo una vergogna.
Lo so anche questa è una descrizione un po’ retorica, però io questo ho visto.
Certo, quando si parla di uno che ci lascia se ne parla sempre bene. Forse lo sto facendo anche io. Il mio problema è che non riesco a parlarne male neanche se mi sforzo.
Di lui non mi piacevano solo i suoi racconti o i suoi studi, ma il modo di viverli. Lui aveva rispetto dell’umano. La sua bravura letteraria stava proprio in questa sua capacità di trasferire in parole le mille sfaccettature dell’esistenza. Chi non capisce questo di Giulio Angioni vuol dire che non ha capito niente o, forse, si è fatto colpire da una insana botta di invidia. Capita.
Non so se con lui mi vedrò in un altra vita, ho forti dubbi. Se dovesse capitare devo però dire che mi farebbe piacere.
A si biri, Giu’
Category: Editoriali, Libri e librerie, Osservatorio Sardegna, Storia della scienza e filosofia