Maurizio Scarpari: Ricordo personale di Lionello Lanciotti (1925-2015)
Nello scrivere del proprio maestro i sentimenti e le emozioni suscitati dalla consapevolezza che lui non c’è più fanno riaffiorare i ricordi dei tanti giorni trascorsi assieme. L’affetto restituisce i momenti migliori, quando imparavo ad apprezzare le sue grandi qualità, mentre i difetti che gli ho conosciuto non hanno minimamente intaccato l’immagine di lui costruita nel corso degli anni (nel nostro caso decenni), anzi sono stati anch’essi motivo di affezione, facendo sì che l’ammirazione non sconfinasse nell’idealizzazione, quasi che nel venirne a contatto avessi la prova di una confidenza profonda e sincera.
Su Lionello Lanciotti molto è stato scritto, la sua vita professionale e il suo contributo allo sviluppo degli studi sinologici in Italia sono stati ricordati in diverse occasioni: nel 1984, per salutare la sua partenza, avvenuta cinque anni prima, dall’Università di Ca’ Foscari (dove nel 1966 aveva fondato quello che sarebbe diventato il maggior centro sinologico italiano), lasciata per trasferirsi all’Istituto Orientale di Napoli; nel 1997, anno del suo pensionamento; e nel 2005, in occasione del suo ottantesimo compleanno.[1] È morto avendo superato la soglia dei novant’anni, lucido di mente e provato nel fisico; anche negli ultimi tempi è sempre stato pronto a dare il suo contributo qualora ce ne fosse stata la necessità o se ne fosse presentata l’opportunità.
Sono stato suo allievo dal 1971 al 1976, poi suo collega. Mi ero iscritto al neonato Corso di Laurea in Lingue e Letterature Orientali a Ca’ Foscari più attratto dalla cultura indiana che da quella cinese, reduce da un lungo viaggio on the road secondo la moda dell’epoca. Allora la Cina era chiusa al mondo e la sua cultura era ai più completamente ignota; ciò che poteva attrarre un giovane ventenne, da poco reduce dal ’68, era il pensiero maoista. Non è stato il mio caso. Alla fine del primo anno, dopo aver seguito sia le lezioni di lingua hindi sia quelle di cinese classico, un nuovo mondo si era dischiuso ai miei occhi: Lionello era riuscito a trasmettere e infondere in me la sua straordinaria passione per la civiltà cinese antica. Un dono raro e prezioso, che solo un autentico maestro riesce a regalare ai suoi allievi. Fu in quel periodo che decisi di dedicarmi al cinese classico, coltivando l’ambizione di diventare professore, di scrivere una grammatica o un corso di lingua cinese classica (allora in italiano non ne esistevano e quel poco che circolava in altre lingue non trattava il cinese classico strictu sensu ma, più genericamente, la lingua letteraria del periodo successivo, il wenyan, che della lingua classica è un’evoluzione e una semplificazione). Lionello mi ha fatto conoscere i classici della tradizione, le opere dei grandi maestri (Confucio, Laozi, Mozi, Mencio, Zhuangzi, Han Feizi, ecc.). La sua grande cultura e la sua formidabile erudizione sopperivano all’assenza di nozioni grammaticali e dizionari specifici, insegnava un po’ alla cinese, trasferendo il suo sapere agli allievi, secondo una consuetudine tipica dell’orientalismo ottocentesco e d’inizio Novecento al quale lui stesso aveva attinto, che prevedeva uno stretto rapporto tra maestro e discepolo. Ma noi, in classe, eravamo una decina (oggi sono centinaia), quel rapporto idilliaco one to one che aveva portato Lionello a contatto con veri e propri monumenti della sinologia europea del Novecento, come Bernhard Karlgren (1889-1978) o Jan Julius Lodewijk Duyvendak (1889-1954), era destinato a rivelarsi inapplicabile in un’università sempre più di massa.
Io ero l’unico della mia classe a interessarsi alle opere di Confucio e dei suoi discepoli, messe al bando nella Cina maoista in quanto considerate reazionarie, così stabilimmo un piano di lavoro personalizzato: prima di partire per Roma, dove risiedeva, mi avrebbe assegnato, “fuori sacco”, brani estrapolati dai classici da tradurre nel fine settimana; al suo ritorno a Venezia, io gli avrei consegnato i miei elaborati e lui mi avrebbe fatto avere la traduzione della versione precedente corretta e commentata (matita rossa e blu, all’inizio soprattutto blu…). Più testi mi dava e più ne chiedevo: siamo andati avanti così per anni. Una volta diventati colleghi, mi ha confidato che questo impegno era diventato per lui una sorta di abitudine alla quale non avrebbe voluto rinunciare. Infatti non si è mai sottratto alle mie richieste, ha continuato a seguirmi con costanza e pazienza, alimentando in me l’interesse e la passione per quella cultura affascinante e per quella lingua così difficile, il cui approfondimento mi ha richiesto molti anni di dedizione assoluta. Quando nel 1994 ho vinto il concorso di professore ordinario, ho avuto la gioia e l’onore di ricoprire la cattedra di Filologia cinese (rinominata per l’occasione di Lingua cinese classica) che un tempo era stata di Lionello.
Da lui ho imparato molto, professionalmente e umanamente. Con lui ho trascorso molto tempo, soprattutto negli anni del suo periodo veneziano, con lui ho fatto il mio primo viaggio in Cina, nel 1977. Lionello insegnava a Venezia tre giorni alla settimana, questo significava per me avere l’occasione di condividere due ottimi pranzi e due cene, sempre in compagnia di Mario Sabattini, l’allievo romano che lo aveva seguito a Venezia e che avrebbe guidato il Seminario di cinese dopo la sua partenza per Napoli. Erano momenti preziosi per me, l’ultimo arrivato, per imparare, capire e soprattutto per immaginare, insieme a loro, come sviluppare gli studi sinologici nella nostra università e nel nostro paese. Mi è rimasto di quegli anni un ricordo bellissimo, la nostalgia di un mondo che è andato un po’ alla volta scomparendo e che ora si è perso del tutto, nel quale si trovava sempre il tempo per ascoltare e per discutere con calma, magari davanti a un bicchiere di vino o di grappa, tessendo rapporti di sincera amicizia destinati a durare negli anni. All’epoca a Lionello davamo del “Lei”, come forma naturale e dovuta di rispetto non solo per il ruolo che ricopriva ma per quell’autorevolezza che emanava dalla sua figura, il “tu” sarebbe arrivato solo dopo il suo trasferimento a Napoli, dove il “tu” era la consuetudine. Il rispetto e la ricerca dell’armonia erano i tratti distintivi dell’operare di Lionello, e verso questi valori ci ha sempre indirizzati.
Ricordo però anche i momenti difficili, le dure battaglie accademiche che abbiamo dovuto affrontare per crescere; battaglie che Lionello, persona troppo retta per cedere a compromessi e ricatti, non era sempre in grado di sostenere con la determinazione e la scaltrezza dei nostri avversari. Ricordo l’ansia che provavo quando a cena lui annotava un pensiero sulla parte interna della copertina delle confezioni di cerini che usava per accendere la pipa, temendo che la riservatezza del gesto implicasse un giudizio negativo nei confronti di quanto andavo dicendo. Dopo diversi anni, ormai diventato professore, ebbi il coraggio di chiedergli se i miei timori fossero fondati: mi rispose, incredulo che un suo gesto così banale mi avesse tenuto sulle spine tanto a lungo, che era solito annotare in quel modo le spese della giornata, nulla quindi che avesse a che fare con la logica dei miei discorsi, anche se il timore del suo velato dissenso aveva negli anni affinato la mia capacità di autocritica.
Al mattino presto, appena giunto al lavoro, visionava la posta della settimana con la rapidità di un fulmine: più che aprire, le distruggeva le buste, con un gesto rapido e deciso, dava quindi una fugace occhiata ai documenti e li smistava prontamente o nel cestino accanto alla scrivania, o nel cassetto da cui quei fogli non sarebbero mai più usciti. Dedicava a ogni lettera dieci, venti secondi al massimo, avrebbe potuto competere in rapidità con il commissario Montalbano alle prese con la burocrazia. Questo atteggiamento sbrigativo comportava, ovviamente, che venissero limitate attività importanti che lui considerava fastidiose, come chiedere soldi per nuove ricerche. Riteneva poco elegante trattare di denaro, al punto che i modesti fondi che arrivano dall’amministrazione centrale per sostenere le nostre ricerche venivano automaticamente devoluti, per sua decisone, alla biblioteca del Seminario, che acquistava libri e riviste, lasciando a noi l’onere delle trasferte per convegni o viaggi di studio e delle cene offerte ai colleghi che venivano a tenere conferenze da noi. Va da sé che, per quanto riguarda i rimborsi, nessuno scandalo ci ha mai nemmeno sfiorati…
Ricordo Lionello sprofondato nella sua amata poltrona, divenuta leggendaria a Ca’ Cappello, quando, accesa la pipa, raccontava dei suoi viaggi o delle sue esperienze con i grandi della sinologia e discuteva con noi con pazienza e attenzione, commentando le nostre ricerche e dandoci consigli e indicazioni su come procedere. In un’epoca in cui i computer non esistevano, era una preziosa banca dati vivente, un repertorio bibliografico ambulante, grazie alla sua memoria e alla sua passione per i libri che collezionava a migliaia nella sua casa romana. Una volta ebbi l’occasione di donargli un volume piuttosto raro, trovato su una bancarella, ed egli ne fu così felice che mi scrisse una lettera (non un’email come sarebbe d’uso al giorno d’oggi, ma una lettera autografa e inviata per posta) per ricordarmi che non c’è dono più gradito tra amici di un buon libro, se raro meglio ancora.
Così era Lionello, un grande studioso, un impareggiabile maestro, una persona retta e onesta, amato da tutti per la sua umanità, il suo rigore morale e la sua correttezza professionale.
[1] M. Sabattini (a cura di), Orientalia Venetiana, I, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1984; S.M. Carletti, M. Sacchetti, P. Santangelo (a cura di), Studi in onore di Lionello Lanciotti, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1996, 3 voll.; M. Scarpari, T. Lippiello (a cura di), Caro Maestro… Scritti in onore di Lionello Lanciotti per l’ottantesimo compleanno, Venezia, Cafoscarina, 2005.
Category: Editoriali, Osservatorio Cina, Scuola e Università, Storia della scienza e filosofia
Michele Fatica ha avuto il piacere e l’onore di essere amico di Lionello, di cui ha ammirato la padronanza dei saperi orientali ed occidentali, nonché la profonda umanità