Lucio Magri : un suicidio ethico?
Ci sono morti che illuminano la vita. Quella di Lucio Magri mi pare una di queste. La chiamerei : un suicidio ethico. Nel senso etimologico del termine, ethico da ethos che in greco classico significa abitare, abitabile, rendere abitabile. Con la politica, polis più ethica, l’arte direndere abitabile la città, il mondo. Ma quando la città, il mondo non è per me più abitabile, quando la mia politica non ha più luogo né corso nel mondo, anche la vita si esaurisce dentro di me, e il suicidio si presenta come la soluzione e indicazione insieme “pubblica” e privata. Rimanendo nell’età classica, viene in mente il racconto del Fedone platonico: eri vicino a Socrate tu stesso Fedone, il giorno in cui bevve il veleno nel carcere (…)?
Socrate è stato condannato a morte della città quale corruttore dei giovani, e invece di sottrarsi alla pena, cosa che potrebbe agevolmente fare, decide di bere la cicuta, e nelle ore precedenti si riunisce cogli amici e discepoli, discutendo della sua morte, e per ciò stesso della sua vita.
Anche Magri ha deciso, e ne discute a lungo cogli amici, essi tentano di distoglierlo dal proposito proprio come gli amici di Socrate, senza riuscirci né gli uni né gli altri. Una delle argomentazioni socratiche è che egli, il filosofo, appartiene alla città, e se la città lo condanna non può sottrarsi, se lo facesse tradirebbe l’intera sua vita. In qualche modo Socrate ci dice che la sua scelta di bere la cicuta è il proseguimento e compimento della sua vita, fa parte della sua vita. Anche Magri è sempre appartenuto alla città, alla Polis, anche da Magri, credo, la sua morte è stata pensata come il proseguimento e compimento della sua vita, una vita intiera dedicata alla Politica, Polis più Ethica.
Ma si può obiettare che Magri non è stato condannato a morte dalla città, anzi fu addirittura eletto onorevole. Non so, forse la città non lo ha condannato esplicitamente ma certamente non lo ha accolto nel suo seno, a un certo punto lo ha rigettato, cioè ha rigettato le sue idee quasi non fossero mai esistite, e mai più potessero esistere. C’è però un particolare apparentemente secondario che accomuna forse più delle parole filosofiche le due morti: il modo in cui entrambi, Socrate e Magri, affrontano la morte in relazione a chi continua a vivere. Dice Valentino Parlato che il suo amico e compagno Lucio scelse il suicidio assistito per avere “una morte pulita”, senza corpi sfracellati al suolo o ritrovati riversi tra lenzuola scomposte, che indica una attenzione e cura e delicatezza per i viventi che del cadavere poi devono farsi carico. Sentite Socrate: è il momento per me di dirigermi in bagno, perché pare che sia meglio bere il veleno dopo essersi lavato, per non dare il fastidio alle donne di lavare un cadavere.
Volgiamo ora lo sguardo dalla filosofia alla biologia, alla vita e morte delle cellule. Le cellule possono morire in due modi. La necrosi è il primo. In questo meccanismo le cellule colpite si gonfiano fino a esplodere, liberando all’esterno gli enzimi che attaccano la membrana delle cellule vicine, facendole esplodere a loro volta e provocando lesioni che si propagano, producendo infiammazione, i cosiddetti fenomeni flogistici, insomma un processo catastrofico che può ledere profondamente l’intero organo e la sua funzionalità. Poi c’è l’apoptosi. La cellula attiva il suo suicidio e lo gestisce con cura. Condensa e frammenta il suo nucleo, tagliando in piccoli pezzi il materiale genetico, nello stesso tempo anche il corpo cellulare si condensa, frammentandosi nei corpi apoptotici, mentre la membrana esterna si modifica, sembra che bolla, ma rimanendo intatta, cioè impedendo la fuoriuscita degli enzimi che contiene.
Questa morte, questo suicidio assistito cellulare non comporta lesioni né infiammazioni. Ma c’è di più. Mentre muore la cellula si rivolge e parla alle cellule che la circondano, in due linguaggi: uno è quello delle cellule viventi, l’altro è specifico della cellula morente. Cioè nel suicidio/apoptosi, se si vuole un fenomeno attivo di autodistruzione, la morte cellulare può essere accompagnata da un discorso, dall’emissione di segnali e messaggi ai propri vicini, un trasferimento di conoscenza che può essere creativo di nuove cellule o indurre trasformazioni e mutazioni in quelle vecchie. Cioè il suicidio cellulare, l’apoptosi, diventa morte creatrice.
Se pensiamo a Magri che, con l’idea del suicidio già in testa, scrive il Sarto di Ulm per raccontare il comunismo italiano, la sua ascesa e la sua caduta, e quindi parla cogli amici, le cellule a lui più vicine, a lungo, e poi cerca di ridurre i traumi dovuti alla sua morte, ecco che l’analogia prende consistenza. Infine certamente il percorso dalla vita alla morte è stato molto più doloroso, e difficile, di quanto ho cercato di descrivere, ma qui si entra in una intimità che sappiamo esistere, ma credo vada lasciata indenne, intoccata, senza ipotesi o considerazioni. Nessuna.
Chi volesse approfondire i meccanismi della morte cellulare, può leggere J. C. Ameisen – LA SCULPTURE DU VIVANT- Le Suicide cellulaire ou la Mort créatrice- Editions du Seuil, 1999, e per la morte del comunismo il Sarto di Ulm, Lucio Magri Autore.
L’aricolo è stato pubblicato su «E – Il Mensile» nel numero di Gennaio 2012.
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