Il 30 marzo 2015 Pietro Ingrao compirà 100 anni. Un abbraccio e tanti auguri
Il 30 marzo prossimo, sarà festeggiato Pietro Ingrao con incontri e convegni per i suoi 100 anni. Il direttore di questa rivista lo ricorda con tanto affetto a Formia in casa di Vittorio Foa con Sesa, Adele e tanti amici comuni. Viene diffuso il testo di Alessandra Longo su Repubblica e una sua biografia
1. Alessandra Longo: Un secolo a sinistra tra politica e famiglia: i 100 anni di Pietro Ingrao, il comunista eretico
(La Repubblica 24 marzo 2015)
Pietro Ingrao, grande padre della sinistra, ha attraversato il ‘900, con il suo carattere sanguigno, con la sua voce forte da leader, con la sensazione amara del fallimento di un progetto e la consapevolezza cruda degli errori, da quell’editoriale filosovietico sui fatti d’Ungheria all’espulsione, in ossequio all’ortodossia di partito, dei suoi amici più cari, gli ingraiani del manifesto. In “Volevo la luna”, la sua autobiografia, scrive: “Noi siamo stati sconfitti, ma abbiamo vissuto un’esperienza straordinaria. Oggi, a volte, l’orizzonte della politica mi sembra diventato più piccolo e angusto”.
L’ultima vecchiaia è quella più raccolta, quasi sublimata, tra poesia e musica, e pochi amici ammessi. Nella sua casa di Roma, vicino alla sua poltrona e alla libreria, c’è ancora il pupazzo con le sembianze di Charlie Chaplin, venerato autore di “Tempi Moderni” e “Luci della città”, quest’ultimo il film preferito da Ingrao per quel finale straordinario: la ragazza cieca, ritornata guarita dall’America, reincontra il vagabondo. Lei lo riconosce, non con gli occhi, perché non l’ha mai visto prima, ma sfiorando leggermente la sua giacca. Niente parole, nel silenzio, dice Ingrao, “passano tante domande sulla vita”. La bellezza e la profondità del silenzio: “Mi è sempre piaciuto sedermi in un caffè a guardare il fiume di persone che scorre nella strada, chiedendomi chi sono, cercando di immaginare ciò che loro capita o che hanno in animo”. L’uomo della passione, della curiosità, del dubbio, dei cieli stellati contemplati da solo d’estate a Lenola, il suo paese natale, ma anche l’affabulatore in piazza, il combattente, il Capo carismatico, il sostenitore più convinto e ostinato del superamento del capitalismo in favore di un nuovo modello sociale e politico. Fausto Bertinotti, uno dei più costanti frequentatori di casa Ingrao, assieme a Luciana Castellina, lo definisce felicemente così: “E’ stato un eretico senza scisma”: “L’eresia, per Pietro, doveva fertilizzare il campo di appartenenza, e anche il conflitto veniva messo a disposizione di questo obiettivo “.
Arrivare a 100 anni con il rispetto di tutti, amici e avversari. E’ il pregio della sua diversità. “Il mito di Pietro – dice Bertinotti – vive in primo luogo nella famiglia”. Il comunista ruvido e raffinato, figlio di proprietari terrieri del Basso Lazio, si innamora di Laura Lombardo Radice, compagna nella lotta antifascista, madre dei suoi cinque figli Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido. Laura se ne è andata, nel 2003: “Provai un dolore assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò”. Ma la grande famiglia eccola, c’è ancora, circonda il centenario di ogni attenzione, evita di esibirne il pur orgoglioso declino, e ora partecipa pienamente ai festeggiamenti promossi dal Centro per la Riforma dello Stato, con la cura di Maria Luisa Boccia. Martedì 31, la celebrazione ufficiale, alla presenza del presidente della Repubblica. Omaggio al politico, primo comunista a salire sullo scranno di Montecitorio. La presidente Laura Boldrini aprirà la Sala della Regina per un convegno dal titolo molto ingraiano: “Perché la politica”. Con i contributi di Alfredo Reichlin, Gustavo Zagrebelsky e Rossana Rossanda. E poi, il 16 aprile, focus sull’Ingrao presidente della Camera nel ricordo di Giorgio Napolitano, Pier Ferdinando Casini, Eugenio Scalfari.
Ingrao non ci sarà. Ma la cornice è gioiosa con appendici di eventi anche nelle sue terre, da lui mai tradite. La fisicità dei rapporti con la terra e le persone è un’altra chiave per capire l’uomo. Walter Veltroni lo ha intervistato per il suo film su Berlinguer, una delle ultime conversazioni pubbliche, alla fine del 2013. “Nelle sue risposte c’erano continui riferimenti agli spazi: case, città, quartieri, quasi più ricordi dei luoghi che delle persone”. Il solitario che si mescola alla massa, curioso della vita. “Durante l’intervista – dice Veltroni – alle mie domande lui mi rispondeva con altre domande. Voleva sapere della mia vita, della famiglia, del lavoro. Il suo istinto naturale: interrogarsi, coltivare la bellezza del dubbio, la ricerca del senso come un viaggio”. “C’erano grandi silenzi in cui improvvisamente Ingrao era lontano. Io attendevo, rispettando quei momenti “.
Ingrao ha sempre riconosciuto la fatica del parlare, in una vita costretta alla comunicazione. Solo lui poteva cercare nel comizio la magia del silenzio: “Tu sali sul palco, hai dinnanzi, come ce le ho avute, piazze piene di gente. È un po’ una sceneggiata, un atto teatrale: i saluti, la presentazione, gli evviva, le bandiere. Tutto questo, però, è come l’involucro. Poi comincia una cosa molto più difficile e profonda: tu che stai là sopra riuscirai a comunicare veramente? Lo scopri solo se c’è un momento, del comizio, del tuo discorso, in cui senti che ti puoi fermare, senza nemmeno finire la frase. Ti fermi e ti accorgi che la piazza non si muove perché aspetta il seguito della tua frase. Se in quel momento ti accorgi che ti puoi fermare, bere un bicchiere d’acqua, soffiarti il naso o non fare nulla, e la piazza sta ferma a sentire, allora vuol dire che si è creato un filo, una comunicazione, un legame, tanto forte quanto impalpabile, tra te e le persone”. Quel filo lungo, forte e resistente come il timbro della sua voce, non si è mai spezzato. Auguri per i 100 anni, Pietro Ingrao.
2. Giorgio Dell’Arti : Biografia di Pietro Ingrao
(dal sito cinquantamila giorni, Corriere della sera)
«Mio nonno Francesco era nato a un passo da Agrigento, a Grotte, paese di zolfatari, contadini e proprietari terrieri, come era appunto la famiglia Ingrao. Francesco è una figura del Risorgimento: cospiratore antiborbonico dagli anni del liceo, e mazziniano: combatte con Garibaldi a Varese, poi tesse congiure repubblicane contro i moderati, e nel 1868 sta per essere ammanettato dalla polizia regia sabauda. Riesce a fuggire nascondendosi nelle campagne di Caltanissetta; poi risale la penisola fino a Napoli, quindi a Lenola, dove vive uno zio, cospiratore anche lui ai tempi della carboneria. Lenola è a un passo dal confine dello Stato Pontificio; quando c’è odore di sbirri, Francesco scavalca la frontiera e trova salvezza a Roma, ancora papalina. Ma a Lenola s’innamora della cugina Marianna, giovanissima. Quell’amore viene scoperto dal padre di Marianna; mio nonno fa atto di pentimento e torna in Sicilia. Ma dopo lunghe traversie quel matrimonio si farà. Francesco resterà a Lenola e diventerà sindaco».
«Ho avuto relazioni familiari molto intense. Non solo con mio padre, anche di più con mia madre, che era una donna tenera e dolce, legata a quelle terre. La famiglia era anche il vincolo alla casa e al mio paese: mi piacevano molto quei piccoli aggregati, erano lì le mie passioni, i sentimenti, gli affetti, gli scatti di evasione legati al paesaggio, agli amici, alle ragazze» [a Paolo Di Stefano , Cds 21/3/2011].
«Ho studiato Giurisprudenza per un ordine prestabilito della famiglia, poi Lettere: amavo soprattutto la letteratura, e in modo caldo, appassionato, la poesia. Le due pagine di invenzione artistica che apprezzo di più sono di Leopardi: L’infinito e Le ricordanze. La cima sono quei versi di grande splendore e scuotimento» [a Paolo Di Stefano , cit.].
«Il 17 luglio 1936 è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. “Antonio Amendola cominciò a farmi ragionare sulla lotta antifascista, non tornai più al Centro sperimentale e il mio amore per il cinema restò in ombra. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni. Un dovere che condividemmo, oltre che con Amendola, con Bruno Sanguinetti, Paolo Bufalini, Aldo natoli , Antonello Trombadori e altri. Quel 17 luglio fu il punto di rottura. Dissi no, non ci sto”» (Paolo Di Stefano cit. ). All’alba della Repubblica, «nel profondo molti di noi avevano nella mente la sotterranea ma tenace convinzione che in quell’Italia democratica a un certo punto sarebbe scattata la prova dell’urto armato. Ricordo – se penso a quei primi tempi del dopoguerra – come mi portavo dentro l’immagine, la convinzione, direi, di un momento insurrezionale risolutivo. Forse agiva anche il ricordo mitico dell’assalto al Palazzo d’Inverno tramandatoci dall’epica della rivoluzione bolscevica. E negli angoli remoti della mia mente restava sempre ben fissa l’ipotesi del momento in cui ci saremmo trovati – l’uno di fronte all’altro – noi rivoluzionari e le truppe del grande capitale. Da una parte seguivo con ardore la costruzione dello Stato democratico: il Parlamento mi appassionava. Dall’altra coltivavo l’attesa della crisi rivoluzionaria, del conflitto politico che si fa urto di massa nelle piazze» [ad Alberto Burgio, Essere comunisti 2009].
Il 17 febbraio 1954 , in un editoriale dell’Unità a proposito del caso Montesi (Wilma Montesi, la ragazza trovata cadavere sulla spiaggia di Torvaianica nel 1953, per la cui morte furono indagati ambienti democristiani), coniò il sintagma «questione morale», che tanta fortuna avrebbe avuto nella politica italiana dei decenni a venire. Scrisse infatti: «Collegate all’affare Montesi, in una successione drammatica, sono venute le rivelazioni, o almeno le denunce, circa un torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga di corruzione, che sconfinava nel mondo politico ufficiale. E il caso giudiziario si è mutato in una seria “questione morale”».
«Sulla storia aleggia qualcosa che rasenta il mistero: ed è il seguito di cui ha goduto il suo protagonista all’interno del Pci, soprattutto presso la base giovanile emarginata e protestataria. Antonio Galdo, militante nei tardi anni Settanta d’un collettivo universitario, ricorda che “quando si discuteva del Partito comunista, sempre criticamente, un solo nome riusciva a metterci tutti d’accordo. Era quello di Ingrao”. L’enigma si rafforza di fronte a un’ennesima ammissione autocritica di Ingrao (“Come capo di corrente valgo un fico secco”) e assume le tinte del martirologio se si pensa alle rappresaglie che nel Pci si scatenarono contro gli ingraiani dopo la sconfitta subìta dal loro capo all’XI congresso del Pci (1966), quando le sue tesi “di sinistra” furono sopravanzate – per ricordarlo in sintesi – da quelle, opposte, di Giorgio Amendola. È un ex ingraiano perfino quell’ Achille Ochetto che, cambiando fra l’89 e il ’90 il nome e la collocazione del partito di cui è segretario, induce Ingrao ad abbandonare la casa politica che lo ha accolto per più di mezzo secolo» (Nello Ajello)
«I sogni degli ex ragazzi del Pci-Pds-Ds si sono realizzati solo in parte e spesso si ritrovano in lotta l’uno contro l’altro. Perché? “La prego, non mi faccia questa domanda! Posso solo dirle che, prima di loro, c’è una sconfitta più grande che li scavalca ed è la sconfitta del comunismo. Loro sono stati ragazzi in quel mondo che guardava a Marx e a Gramsci, nei cui testi c’erano risposte segnate da errori anche pesanti. Quel vincolo ha inciso su di noi in modo straordinario”» (Monica Guerzoni).
Nume tutelare della Sinistra – l’Arcobaleno, nel dicembre 2007 ne disertò gli stati generali: «La Federazione non mi persuade, avrei capito una fusione. Ossia la nascita di un nuovo Partito e pure consistente. Ma così non ne capisco il senso. Quando per esempio Mussi ha rotto coi Ds, secondo me avrebbe dovuto entrare in Rifondazione. Cioè in un Partito riconoscibile e riconosciuto dalla gente che incontro per strada. Per non parlare di Diliberto. Chi rappresenta Diliberto?» (a Riccardo Berenghi). In occasione delle Politiche 2013 ha annunciato il proprio voto per Sel di Nichi Vendola , «per portare al governo del Paese la sfida del cambiamento».
Ha raccontato la sua vita in Volevo la luna (Einaudi 2006) e la sua passione per il cinema in Mi sono molto divertito (Centro Sperimentale di Cinematografia 2006). Nel 2007 ha pubblicato La pratica del dubbio (dialogo con Claudio Carnieri, Manni). Del marzo 2011 è il libro-intervista (coordinato da Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti) Indignarsi non basta (Aliberti), risposta ingraiana al pamphlet di grande successo Indignez-vous! scritto dal francese Stéphane Hessel: «Se ci fissiamo sull’indignazione, osserva Ingrao, non è che autorizziamo derive moralistiche e giacobine; semplicemente, contribuiamo all’abdicazione della politica. E questo per la sinistra della sua generazione sarebbe stato impensabile» (Jacopo Iacoboni) [Sta 30/3/2011].
Nel 2011 ha aperto un sito Internet, pietroingrao.it. Così vi si rivolge agli avventori: «Cara lettrice, caro lettore, Internet non è un mezzo consueto per chi è nato nel 1915; ma è il mezzo di comunicazione del presente, e ho pensato di usarlo. Sono un figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio: quel Novecento che ha prodotto gli orrori della bomba atomica e dello sterminio di massa, ma anche le speranze e le lotte di liberazione di milioni di esseri umani. (…) Il mondo è cambiato, ma il tempo delle rivolte non è sopito: rinasce ogni giorno sotto nuove forme. Decidi tu quanto lasciarti interrogare dalle rivolte e dalle passioni del mio tempo, quanto vorrai accantonare, quanto portare con te nel futuro».
Nel 2012 il regista Filippo Vendemmiati ha presentato alla Mostra del cinema di Venezia (sezione “Giornate degli autori”) Non mi avete convinto, documentario-intervista sulla vita di Ingrao. Vedovo di Laura Lombardo Radice (1913-2003), cinque figli.
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