Guido Martinotti, il sociologo delle città impegnato politicamente

| 6 Dicembre 2012 | Comments (0)

 

 

 

Guido Martinotti è morto nella notte tra il 4 e il 5 Dicembre, mentre si trovava a Parigi con la moglie Eva Cantarella, all’età di settantaquattro anni. Guido Martinotti è stato professore ordinario di sociologia urbana all’Università Bicocca di Milano dove è stato prorettore dal 1999 al 2005 e ha pubblicato libri  importanti come Metropoli. La nuova morfologia sociale della città (Il Mulino 1993) e  La dimensione metropolitana. Sviluppo e governo della nuova città (Il Mulino 1999). I miei ricordi di Guido iniziano nella Milano degli anni ’60  quando come “giovani  sociologi”  lavoravamo all’ILSES (Istituto Lombardo di studi economici e sociali) diretto da Angelo Pagani. In quel clima  si è formata  una idea di sociologia impegnata politicamente da cui è  uscita una rivista come  “Inchiesta” e Guido è  rimasto sempre fedele a quella idea di  sociologia.  Per questo, per ricordare un  amico che ho sempre sentito molto vicino,  ripubblico il suo  articolo per “Inchiesta”, 172, aprile-giugno 2011 pp. 18-23 in cui descrive la vittoria di Pisapia a Milano e il nuovo modo di fare politica che dovrebbe diffondersi . Pisapia lo ha ricordato con queste parole: “Guido Martinotti è stato un amico di Milano e anche un mio caro amico e maestro essendo stato suo allievo ai tempi della mia laurea in Scienze politiche”.

 

GUIDO MARTINOTTI

La vittoria di Pisapia a Milano: la rottura di un paradigma

 

Surprise, surprise! I Milanesi non hanno obbedito alle ripetute indicazioni del massimo ideologo della sinistra (allargata), il filosofo Massimo Cacciari e ciononostante hanno vinto alle elezioni. Ma cosa è successo, non solo a Milano, ma quasi dovunque in Italia?  Non  è facile dare una risposta in tempi brevi e in attesa di analisi più approfondite, perché le elezioni sono il prodotto aggregato di molti cambiamenti: alcuni dei quali riguardano la diversa rappresentanza di un medesimo gruppo, per esempio se l’elettorato femminile abbandona, come pare possa essere successo a Berlusconi, grazie a Ruby e alla Santanché; oppure se le rappresentanze restano fisse, ma la composizione sociale dell’elettorato cambia, come è certamente avvenuto in questi anni (anche se non ce ne siamo accorti) in ognuno dei quali una coorte di giovani ha sostituito una coorte di anziani e via dicendo; ma il terzo cambiamento è il più potente, cioè la diversa valutazione che ogni gruppo sociale da della propria rappresentanza:  ogni successiva coorte di giovani che entrava nell’arena, dopo un po’ che si era guardata in giro capiva che i famosi sostenitori del merito (alla on. Lupi, che fa parte di una potente organizzazione in cui contano la fedeltà e l’appartenenza religiosa) gli stavano rubando il futuro e invece di mandarli all’università li spedivano nei call centers. E’ una potente forma di mutazione poliyica che una volta si chiamava “presa di coscienza” e che non ha un andamento lineare ma piuttosto ha una forma a saturazione o caotica: a un certo punto, come il latte nel microonde, zap, ras bol e straripa.  Il risultato di una elezione è quindi il prodotto di tutti questi cambiamenti aggregati e non è facile, in un evento multifattoriale come lo sono quasi tutti i fenomeni sociali, districare il contributo specifico dei singoli fattori, come minimo occorre una analisi con molti dati disaggregati per evitare cantonate.

Questo i sociologi  lo sanno benissimo, ma nella vulgata si cerca sempre una causa semplice per fenomeni complessi. I politici poi vedono sempre la mano dell’uomo nero che, anche in questo caso, sono spesso i famosi “poteri forti”.   Ascoltare (lunedì  30 sera da Gad Lerner) il direttore del giornale di CL, Amicone, evocare i “poteri forti” per la vittoria di Pisapia, lui che fa parte di quella che è sicuramente l’organizzazione fideistico-affaristica più potente della Lombardia, che controlla ferramente interi settori, è una di quelle cose che allietano brevemente la vita, ma danno anche tristemente la misura del grado di impudenza, e direi anche impudicizia, in cui è disceso il dibattito politico in questo paese. E penso che la diffusa presa di coscienza di questa “sorpresa”. Non sono preparato in questa materia, ma ho una sensazione: grazie ai media monocratici o monodirezionali come la TV, che in Italia, anche per ragioni di arretratezza tecnologica ha dominato il mondo della comunicazione pubblica costituendo quel “parlamento mediatico” che Alberon stima in circa 1500 persone, ha riportato alla vita alcuni modelli antichi. Guido Canella non molto prima di morire mi ha raccontato una su esperienza di urbanista: incaricato di progettare un quartiere alle porte di Milano aveva pensato al teatro greco come luogo di socialità pubblica e ne aveva replicato uno, stlizzato, nella piazza centrale del nuovo quartiere, ma una sera, visitando il suo progetto realizzato , si era resoconto che il “suo” teatro era vuoto, i gradoni giusto occupati qui e là da qualche vecchietto che prendeva il fresco o da qualche coppietta di quegli  “amoureux qui se bécotent sur les bancs publics” che piacevano tanto a Georges Brassens. Ma guardandosi attorno si era visto circondato da finestre con una sfarfallante luce azzurrina. L’agorà era stata risucchiata nel tinello. Ci era rimasto male, ma se fosse andato a guardare dentro al monitor avrebbe scoperto che il teatro era là, negli studi dei talk shows che svolgono, in modi diversi, la medesima funzione. Ci sono sempre le stesse maschere che il pubblico riconosce molto bene, e c’è anche il coro costituito dai finti spettatori che applaudendo o protestando rappresentano apunto lo spirito della temibile demou femis, l’opinione del popolo. E si rappresentano i drammi principali del vivere contemporaneo, le tragedie pubbliche su cui  si forma appunto l’opinione comune, non importa se la vicenda è lontana dalla vita reale, quel che conta è la recitazione, la storia. Mia madre era una delle persone più riservate e solitaria che abbia mai conosciuto, con pochi amici al di fuori di una ristrettissima cerchia di famigli e qualche sparso parente. Una volta stupito dell’interesse che dedicava a Dallas, le ho chiesto ma scusa mamma come puoi interessarti a queste storie assurde? Tranquillamente mi ha risposto “perché è tutto come nella nostra famiglia” (dove ovviamente tutti vivevamo in lussuose suites, con tradimenti affari colossali e criminosi eccetera eccetera).  Ma l’aspetto più importante è che in questo teatro greco rinasce un altro istituto antico abolito quasi otto secoli fa l’ordàlia, cioè la ricerca della verità non in base a prove fattuali  regolate da rigorose metodiche di valutazione, ma in base alla riuscita del più forte. Chi supera indenne la prova, ma soprattutto riesce a sopraffare l’avversario con trucchi dialettici, arrotamento di orbite, volti sprezzanti o fescennini di ogni sorta fa vincere la propria parte politica e convince della verità della posizione sostenuta. I berlusclones si sono impadroniti di questo modulo molto tempo prima degli altri elaborando (ci deve essere una scuola da qualche parte) delle tecniche specifiche, il ghigno quando parla l’avversario, l’interruzione fastidiosa, l’urlo, oppure il mi consenta: Lupi, Formigoni, Santanchè, Stracquadanio, Belpietro e compagnia sono i campioni dell’ordàlia televisiva e per molto tempo hanno dominato, sinché..

 

Quali cambiamenti si sono accumulati

Sinché, fortunatamente, in  occasione delle importanti elezioni amministrative del 15/16 e 29/30 Maggio 2011  i diversi cambiamenti (di rappresentanza, di composizione sociale e di “presa di coscienza”) si sono cumulati. Possiamo quindi contare su una singolare facilitazione perché i risultati, clamorosi nella loro dimensione quantitativa  e nella direzione generale univoca che hanno sconvolto quasi tutti i pronostici, rendono meno azzardosa una interpretazione a caldo, visto che i segni vanno tutti nella medesima direzione. La incredibile perdita di faccia di Berlusconi con la Libia, l’incapacità di questa maggioranza di, non dico capire, ma di rapportarsi al complesso di grandi rivolgimenti in corso nel Mediterraneo, i ripetuti flop mediatici di tutti i baluardi del Premier, da Minzolini, a Ferrara a Sgarbi, la penosa scena tra un film di Totò e una scena cecoviana interpretata da Rascel di Berlusconi a Deauville, i tentativi maldestri di montare folle osannanti al Palasharp (20 torpedoni da Brescia) o davanti al Palazzo di Giustizia, il rinculo dei manifesti di Lassini sulle BR in tribunale, il fastidio crescente per la politica dell’indecenza praticata dalla signora Santanché, mentre dall’atro lato saliva il consenso per Napolitano, la Costituzione italiana e persino, quasi incredibile a dirsi, per tanto sviliti 150 anni dell’Unità d’Italia. Sarebbe troppo lungo ora fare un esercizio che richiede un certo ammontare di tempo e di attenzione, ma se con pazienza collegassimo con la matita tutti i disparati punti di questo scenario ne uscirebbe non certamente il ritratto del Governatore della Lombardia che va alle urne con la camicia di Paperoga in vacanza alle Hawaii, mentre propone Berlusconi alla Presidenza della Repubblica, né l’On. Lupi che parla di sussidiarietà, né l’ex Ministro Bondi con il cravattino a farfalla, ma la tela di fondo di una classica rottura di paradigma. Come avviene nelle rivoluzioni scientifiche a un certo punto un numero crescente di esperimenti nella attività ordinaria della ricerca scientifica presenta delle eccezioni: i risultati anche di esperimenti marginali non soddisfano più il paradigma teorico dominante finché qualcuno, individuo o gruppo, capisce che occorre cambiare il paradigma. Un politologo dal nome impronunciabile ha utilizzato uno schema simile  anche per la politica e credo che oggi lo scenario sia proprio questo: la rottura di un paradigma.[1] Per anni Berlusconi “ci ha messo la faccia” e tutti sono stati al gioco attribuendogli  poteri taumaturgici, poi a Milano ce l’ha messa di nuovo e lì l’ha persa, clamorosamente.  Adesso cercano disperatamente di riprendersi dalla batosta: “Una batosta de la madunina”,[2] ma sono i modi stessi con i quali il PDL cerca di rimediare che indicano la incapacità di cogliere la realtà della rottura del paradigma. E’ una risposta tutta  interna al loro paradigma: in quattro e quattr’otto il Patron, crea il Segretario del partito, come se un  partito politico fosse l’oikos del signore che dall’oggi al domani fa o disfa il maggiordomo ovvero il ciambellano che prima non c’era. Intanto però i coordinatori  rimangono Verdini, La Russa e Bondi, nonostante la non proprio brillante performance di ciascuno di loro nel proprio feudo. Si parla di rilancio del partito (ma quando mai è stato lanciato?) o alternativamente di cambiare nome o di fare un altro partito, e persino di “fare le primarie”, come se avesse un senso fare le primarie a Minsk, Tashkent o Damasco. Si ha letteralmente l’impressione che tutte queste brave persone, incluso Formigoni (che ancora ragiona, se Berlusconi diventa Presidente della Repubblica io posso fare il primo ministro) stiano recitando a l’impropmptu  nel film sbagliato o in una sorta di sinistro Helzapopping.

 

La rottura di un paradigma

Sono stati dati molti nomi a questo che io ho chiamato rottura del paradigma (momento storico, rivoluzione epocale, fine di un ciclo): un dato è certo, si tratta di un sommovimento che travalica i confini delle consultazioni amministrativi delle numerose città in cui si sono svolte le elezioni amministrative di maggio. Non è una novità che le consultazioni amministrative in Italia abbiano significato e conseguenze per la politica nazionale: al contrario è quasi sempre così, basta ricordare le amministrative  del 15 giugno 1975,che anticiparono i risultati delle politiche del 20 giugno 1976, mentre, più vicino a noi, le elezioni del 1993 dettero l’impressione (che solo pochi commentatori cercarono di contrastare facendo notare che si trattava di un voto a caratterizzazione fortemente urbana) di uno spostamento a sinistra smentito clamorosamente l’anno successivo. La novità del 2011 sta nella dichiarata politicizzazione di queste consultazioni da parte di Berlusconi e nello schiaffo che questa politicizzazione ha ricevuto dall’elettorato. Il risultato è devastante per il prestigio politico di Berlusconi nell’elettorato di centro-destra e per la stabilità del suo governo, anche perché la “batosta de la madunina”[3] ha investito anche la Lega. Naturalmente vale sempre la regola che “nulla è meno duraturo dei risultati di una elezione”  – in una democrazia, beninteso ed è per questo che i despoti cercano di abolirle alla prima occasione.[4] Ma ci sono alcune buone   ragioni per credere che veramente queste elezioni abbiano segnato una rottura.

 

Un nuovo modo di fare politica

Si è anche parlato di “nuovo modo di fare politica”, forse è una esagerazione, ma qualche dato di notevole novità c’è. Tra le tante posizioni espresse in questi ultimi mesi in vista delle elezioni quella di Cacciari è la più significativa, non solo per la autorevolezza del personaggio che, tra l’altro essendo stato per due mandati sindaco di una città particolare come Venezia, ha la possibilità di gettare sul tavolo di discussione  una rilevante esperienza, ma anche perché esprime una posizione che occupa il fuoco centrale del discorso.  E lo ha occupato da molto tempo in larga misura condizionando la strategia politica del PD e della sinistra in senso lato. Lo stesso Cacciari aiuta a sintetizzare questa posizione quando, ancora oggi “invita ad allargare al centro”. In termini molto semplificati è evidente che la somma dei raggruppamenti tradizionali della sinistra, variamente chiamata Ulivo, Unione, Cespugli, Triciclo, la nomenclatura politico mediatica è molto fertile, non riesce a garantire una maggioranza stabile. Quasi, ma non del tutto perché vi sono al suo interno molti cleavages tradizionali, l’anticomunismo che separa dal core i socialisti, i radicali, i cattolici di sinistra, l’estremismo verbale che introduce faglie nell’altro senso, tutte posizioni poi esasperate dal patriarcalismo irrinunciabile nella politica italiana che fa si che ogni raggruppamento proietti la sua riconoscibilità su un leader che a sua volta contribuisce per interessi di sopravvivenza personale ad accentuare le differenze. E’ un ragionamento banalmente aritmetico che le forze addizionate di questa coalizione potenziale possono al massimo produrre una maggioranza risicata facilmente soggetta a ricatti e tendenze centrifughe. La  grande sapienza politica e umana di Romano Prodi ha prodotto in passato quello che credo possa essere giudicato il massimo della capacitò di leadership in queste condizioni. La deduzione meccanica che occorra allargare ad altre forze è elementare, quasi un truismo, il problema è cosa significhi questa affermazione in concreto. Sinora la risposta è partita o dalla aggregazione di unità esistenti o dalla creazione di coalizioni estese al centro. La prima risposta è stata il PD, che però ha subìto subito spinte centrifughe. L’idea è accattivante, ma la sua realizzazione irta di difficoltà. La “vocazione maggioritaria” è rimasta una bella parola. La periodica riproposizione di estensione di una coalizione “di sinistra” al centro ha individuato via via dei soggetti che, come prima reazione hanno detto di no: la Lega, CL, come suggerisce Sergio Scalpelli che lavora in team con Cacciari, il Terzo Polo, variamente configurato, leaders del centro, Albrtini eccetera. L’operazione si è sempre rivelata una coperta toppo stretta se la sposti alla testa lascia scoperti i piedi e viceversa. La proposta di Cacciari di candidare a Milano l’ex sindaco Albertini per vincere le elezioni è un buon litmus test per misurare quanto lontano sulla via dell’assurdo si possa andare seguendo ragionamenti esclusivamente “in the box” e percependo la politica come una combinazione/ricombinazione dell’esistente invece che come strumento di cambiamento dell’esistente.  Vale quindi la pena di soffermarsi su questo punto. Albertini è stato un grande sindaco della destra milanese, ha interpretato in modo naturale ed estremamente efficace quel misto di concretezza “down-to-earth” che piace a quasi tutti i milanesi, ma soprattutto all’assicuratore, al geometra, al macellaio o al panettiere dell’angolo, con la sfiducia nei confronti della politica che piace alla destra milanese che legge Ostellino e che con lui identifica la politica con le turbe scalmanate e con quella naiveté che per questa borghesi rappresenta forse la colpa più grave che una persona adulta possa commettere. Ma soprattutto Albertini è il prodotto di una concezione aziendalistica del mondo: la scelta dell’amministratore di condominio è una formidabile battuta d’altri tempi, quando l’amministratore del condomino era un piccolo professionista tuttofare, il “sun chi mi”, “ghe pensi mi”, spesso il Geom. o il Ragiunatt che viveva nella scala B del caseggiato, che faceva magari qualche affaretto, ma che stava ad ascoltare i problemi dlla vecchietta del terzo piano e cercava di risolverli. Personaggio a volte esiziale nella potenzialità di guai che l’approssimazione poteva combinare, ma parte positiva in un immaginario tradizionale. Oggi il familiare sun-chi-mi si è trasformato in un zaibatzu “Sun-Ki-Mi”, impersonale e non di rado in conflitto con gli di interesse con gli amministrati. Perdipù la metafora  E’ questa borghesia fortemente e radicatamente conformista attaccata alle tradizioni, ma soprattutto a un perbenismo fattivo che ha dato in passato il 20% a un partito malagodiano che in Italia prendeva il 4/5, che   Il conformismo antipolitico di questa destra è stato  in larga misura alla base di quei momenti di successo della Lega  che ha pescato anche nell’elettorato di sinistra con un certo successo, come è avvenuto con Formentini che fu poi sostenitore di Ferrante.  Albertini era una possibile alternativa alla Moratti come candidato della destra, anche se forse ormai un po’ datato: su uno scacchiere del tutto a tavolino. Ma come spiega bene  Sergio Bologna sul Manifesto questo ceto sociale milanese è stato spazzato via dalla protervia stessa del berlusconismo con il telefonino perennemente all’orecchio (anche due) il collo a strozzaprete, la cravatta a lingua di ramarro, la faccia di quelli del fare e dello sniffare.

 

Una sinistra con una visione statica dell’elettorato

Mentre avvenivano questi cambiamenti la sinistra, in questi anni, è stata imprigionata dalla visione meccanicistica e statica dell’elettorato, come una torta o pie-chart i cui spicchi sono definiti una volta per tutti e il gioco consiste solo nell’elaborare uno schema di azione capace di inglobare la porzione più grande possibile del centro immobile, tramite accordi di coalizione- e temo che davvero i sondaggisti con i loro pie-charts abbiano creato questa illusione. Non è così, la torta non è una torta ma un bolo di mercurio su un foglio di carta e vince quello che è più bravo a raccoglierne la maggior parte senza disperdere il resto in frammenti impazziti, ci vuole mano leggera e una azione chimica più che meccanica. C’è tutta una dirigenza di sinistra che, diciamo la verità, è stata ipnotizzata da Berlusconi, perchè ammira i suoi exploit tattici con l’apprezzamento che i veri professionisti hanno per chi è più bravo di loro. Ma proprio per questo le prediche di chi si perde dietro l’abilità di Berlusconi e dei vari guru in the box sono state paralizzanti. Il risultato è stato un colossale “miedo a ganar” che portava a rifiutare ogni tentativo di innovazione. Nelle parole dell’occhiello sulla Stampa nell’articolo di commento al primo turno di Ricolfi (Mercoledì 18 Maggio) si legge “ha ragione Ferrara. Il centro-destra è alle corde, ma fa male la sinistra a cantare vittoria, è egemonizzata dalle estreme” p. 13. A parte il ridicolo (che dovremmo fare metterci a piangere perché l’elettorato ha dato un cazzotto in faccia a Berlusconi e Moratti?) una affermazione così la può fare Ferrara che ha un rapporto piuttosto vago con la realtà,  ma non può essere ripresa come verità autorevole da chi si picca di essere preciso. Fassino sarebbe un estremista? Fa ridere. Il Pd di Bologna sarebbe composto di estremisti? C’è da sganasciarsi. Chi è l’estremista? Bersani? Ragazzi! Il più estremo della compagine è Vendola che al di là delle alate parole sul buonismo mondiale, non si è mai sentito dire nulla di lontanamente comparabile alle volgarità estreme dette da Berlusconi, con le sue barzellette sulle cameriere, dalla Moratti-dai-colpi-bassi (nel senso che si spara nei garretti) dalla Santanchè (con-quella-bocca-può-dire-quello-che-vuole e, modestamente, lo disse) eccetera. Sarebbe estremista Pisapia? L’elettorato milanese ha già risposto con un NOOO! da 300mila e passa voti, e con altri 50mila il 29 Maggio . Sul Corriere anche il Prof. Della Loggia, svegliatosi come Rip Van Winkle dopo ventanni, annuncia solennemente la scoperta dell’ultima ora “ Le elezioni non si vincono con la TV e con gli annunci”. Bravo,  peccato che invece così è avvenuto per ventanni e allora occorrerebbe chiedersi chi ha dato una mano all’ipnosi collettiva.  Forse il “miedo a ganar”  era diffuso un po’ dovunque. Cosa non ci è stato detto dai dirigenti del PD locale di Milano quando abbiamo liberamente (e sottolineo) scelto Pisapia con le primarie! La più bizzarra delle teorie che si sentirono in quella occasione fu che poiché il PD era il maggior partito aveva il dovere, oltre al diritto, di presentare un proprio candidato alle primarie. Detto e fatto, il candidato PD, che era di prima qualità, ha perso, tra l’altro, proprio perché targato PD. Io credo che guadagneremo tutti , a partire dal PD, che è il mio partito, il giorno in cui la dirigenza si convincerà che questo PD non è “il partito egemone della sinistra”, ma al massimo un primus inter pares, che però deve guadagnarsi questa qualifica ogni giorno sul campo.  Cme del resto è stato in queste elezioni che non sono state vinte dal PD, ma in cui il PD ha fatto onestamente e con profiyyo la sua parte. Quella comunque era la posizione dominante di saggi della sinistra e della destra: non bisognava attaccare Berlusconi frontalmente, ma soprattutto non si doveva fare cenno delle sue cattive abitudini, per carità non era un argomento politico. A tutta questa brava gente, che oggi sono definiti “maitres-a-penser” della destra da Pierangelo Giovanetti, direttore de l’Adige) come oltre ai soliti Ferrara (essendo Sgarbi in recupero forze) sono diventati Sallusti, Belpietro, Sechi  che oggi si sono scatenati sul rinnovamento del PDL, con priarie fatte da Libero (pensiamo che serietà dello strumento) vorrei fare un paio di domande. Ma vi rendete conto che il PDL che voi vi ostinate a chiamare “partito” fu inventato da un signore dal predellino a San Babila? Ma avete notato che il nome di questo “partito” , inventato sempre dal suddetto signore da un predellino non contiene neppure il termine “partito” prchè PDL si chiama “Popolo delle libertà”, e come fa un “popolo” (ammesso che sia veramente tale) a darsi un segretario? Orse un Commissario del Popolo, ma quelli li nominava Beria. Ma avete sentito cosa dice Berlusconi delle primarie? E’ solo preoccupato che non siano influenzate da “infiltrati delle sinistra”: vuol dire che ci aveva tentato con le primarie della sinistra? Ma la domanda che vorrei particolarmente rivolgere a Galli della Loggia che oggi mentre  Berusconi è al tappeto mentre l’arbitro conta, finalmente svolge una analisi “interessante” (parola di Giovanetti, io direi impietosa) del cesarismo berlusconiano, “ma tu che sei un politologo e uno storico illustre non sapevi che questi sono i mali pressochè inevitabili, se stiamo al passato che è la tua materia, del cesarismo. Le cose che scrivi oggi del partito cesarista non le si potevano già capire quando Berlusconi era “sceso in campo”, quando l’aveva capito il mio portinaio (non è una metafora)?   Del resto accompagnato  da una buona metà degli italiani. Che  storico o politologo è colui che deve aspettare il giorno dopo la “batosta de la Madunina” per fare una “interessante analisi del PDL”? Non bastavano le comuni conoscenze della storia e della scienza poliitica? Non è un po’ ridicolo pensare che adesso di colpo il PDL si trasformi in un partito finché ci sarà uno che ha in mano la cassa e stacca gli assegni e discutere delle primarie nel PDL come se fossero una cosa seria? E se poi dalle primarie viene fuori Marina Brelusconi? Non c’è bisogno di fare tanta fatica.

 

La campagna di Pisapia costruita dal basso

Non so se veramente siamo di fronte a un nuovo modo di fare politica, ma è sicuro che Pisapia ha fatto fuori un  certo modo di concepire la politica. Nei dibattiti che sono seguiti quasi nessuno dei commentatori sembra essersene accorto: appare come se il successo di Pisapia fosse un colpo di  genio, un fortunato “concept” di qualche mago della comunicazione. Ma la campagna di Pisapia è stata una vastissima costruzione dal basso, mai tentata in passato dalla sinistra tradizionale (e sottolineo questa affermazione) che ha coinvolto migliaia di persone, soprattutto, ma non solo giovani. Mentre scorrevano le immagini arancione di piazza del Duomo, nello studio dell’Infedele, per uno strano scherzo del destino mediatico si vedeva su un monitor in bianco e nero una conferenza con D’Alema e Casini dietro al solito tristissimo tavolinetto da “brutto salotto marron” a la Paolo Conte che reinterpretavano la solita operetta (ha ragione Berlusconi a parlare di teatrino della politica, solo che lui ha introdotto il genere pochade) . E questo modo di concepire la politic vome incontro tra leaders dietro a tavoli e tavolinetti che è stato sepolto dalla risata di Elio e le storia tese e dello “straordinario mondo di Pisapie”. Molti non se ne sono ancora accorti e, mi spiace dirlo, persino Vendola che ha cercato di arraffare un pezzettino della vittoria di Pisapia cercando di rubargli il palco, non si è accorto di aver fatto una delle peggiori operazioni del repertorio della vecchia politica, in inglese si chiama piggybacking e in italiano “mosca cocchiera”. Il contributo alla campagna Vendola l’aveva dato, nessuno glielo negava, non sveva alcun bisogno di sprecare parte del suo credito facendo la corsarata sul palco di Pisapia e annegando buona parte della felicità sincera in una retorica bolsa che suonava insincera come un doblone della Perugina. Speriamo che impari anche Vendola.

 

Morte delle parole del berlusconismo manipolatorio

In conclusione però possiamo dire che con il vecchio modo di fare politica sono morte anche alcune parole odiose del berlusconismo manipolatorio, in primo luogo la “gente” con la sua controparte di sinistra “moltitudini”. Cioè l’idea che le persone formino agglutinazioni di masse indistinte  di “gente”  (folk) senza faccia o di moltitudini perennemente in movimento in cerca del profeta e in attesa dell’occasionale guru pronto a guidarle. Le persone che a migliaia hanno affollato le piazze di Milano e delle altre città in decine decine di manifestazioni riunioni multicolori dai viola, ai precari agli studenti sui tetti erano visibilmente chiaramente “popolo “ (people) con volti distinguibili, facce riconoscibili di persone attive, coscienti e determinate, di tutte le età e condizioni sociali, che si aggiungevano al popolo creativo della Rete non in un contrapposizione, ma in collaborazione con il popolo delle piazze esprimendo quella creatività inesauribile che viene dalla tranquilla coscienza di sé e delle proprie esigenze senza paura. Che cosa si è accumulato in questi anni per esplodere il 15 Maggio 2011 e poi definitivamente il 30 maggio? Un cambiamento di cui non ci siamo accorti è stato sicuramente il mutamento demografico: nei venti anni del berlusconismo sono uscite dall’elettorato venti coorti di anziani, poco istruiti, molto femminilizzate di donne con esperienza prevalentemente casalinga e non lavorativa, forti consumatori di televisione, largamente adepti di Emilio Fede, Maurizio Costanzo, Bruno Vespa  e frequentatori della “chiesa dei non credenti” o delle beghine che piace tanto all’On. Giovanardi, fortemente “parochial”, cosmopoliti.   Per conto sono entrate 20 coorti di giovani più istruiti, meno adepti alla televisione, ma più fortemente utilizzatori della rete e degli altri strumenti di socialità a distanza molto più “cosmopolitan” (cosmopoliti o universalisti). Ma soprattutto si tratta di giovani cui il berlusconismo ha proposto modelli di falsa libertà mentre gli sottraeva le risorse più importanti, il lavoro, l’istruzione, la speranza per il futuro. Queste coorti di giovani si sono trovate di fronte il precariato a vita  e il Ministro Gelmini che, con una coorte di sconsiderati guru, nelle ultime ore gli ha detto “non studiate, non serve, il lavoro manuale è più facile da trovare, comunque all’università non ci arrivate gli studenti universitari sono già troppi e noi le università le chiudiamo. Perdipù guardate cosa sta succedendo in Tunisia e in Egitto, se studiate troppo siete pricolosi”. Sono gli stessi guru, ma proprio li stessi (non faccio nomi non ce l’ho con le persone, ma con i ragionamenti)  che hanno subito detto che Pisapia era un candidato debole. Debole chi? Molti di questi giovani, si fa per dire, entrati nell’arena a 20-25 anni vent’anni fa che oggi sono ricercatori precari a 40-45, che non possono sposarsi e che quindi se ne fanno un baffo del Familiy Day, tanto più se vedono che ci va è qualche vecchio rattoso che alle donne suggerisce di fare carriera con la figa (pardon, “il tesoro su cui stanno sedute” come dice pudicamente Ostellino che dopo la smutandata con Ferrara, tenta goffamente qualche lepidezza pochadesca). Di questi “giovani” fanno parte anche molte delle famose “partite Iva” che Berlusconi aveva furbescamente transustanziato in un milione di nuovi post di lavoro e che oggi si trovano in mano giusto solo l’IVA, da pagare.

 

E’ possibile riprendere ad avere coraggio

Ma forse il merito maggiore di Pisapia è stato quello di  dimostrare che è possibile la  ripresa di coraggio, la “recovery of nerve” che secondo Peter Gay fu la preparazione per l’illuminismo alla fine del Medioevo forse ci aiuterebbe a vedere più chiaro. Poco prima del ballottaggio scrivevo: “La battaglia per il ballottaggio non è finita, non si vince fino a che l’ultimo voto sarà contato e dall’altra parte hanno moltissimi soldi.” Ma la Grande Guerra contro il gangsterismo berlusconiano è già cominciata ed è cominciata dal basso: questo è il vero fatto rilevante.” che Pisapia è riuscito a spazzare via, la paura. Paura di parlare delle moschee, dei ROM, dei gay, degli immigrati di tutti i fantasmi di cui non si doveva parlare perché avrebbero spaventato “la gente”. Pisapia e la sua squadra hanno aiutato tutti noi ad accendere la luce a cacciare via i fantasmi e a non aver paura di parlare di qualsiasi cosa rappresenti un problema, una questione che assieme dobbiamo affrontare e risolvere, senza avere paura di non riuscire “ad allargare al centro”, ma certo senza neppure cedere alla retorica dei parolai rossi. Cosa cantava quella bella ragazza che accompagnava i movimenti contro la segregazione dopo che centinaia di giovani avevano affrontato la violenza con la non violenza nelle città del Mississippi e dell’Alabama? “We are not afraid, We are not afraid, We are not afraid, TODAY. Oggi non abbiamo più paura. Ma ora dopo il bello viene il ballo: e sarà molto duro, perché il trasferimento sul piano della “politica normale”, di questa rottura del paradigma, non sarà per nulla cosa facile e tutti dovremo fare uno sforzo molto profondo e umile  per rielaborare nuove categorie.

 


[1] ) La La struttura delle rivoluzioni scientifiche (The Structure of Scientific Revolutions, 1962) The Unexpected Revolution. Paul Kecskemeti. (Stanford, Cal.: Stanford University Press, 1961.

[2] ) ”  La Padania ha scovato il titolo più spiritoso della settimana

[3] ) Altro titolo  non male “un KO da bunga a bunga”, Italia Oggi, 31 Maggio 2011

[4] ) Come fece appena possibile Mussolini autore della frase che precede.

 

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About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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